In Venezuela domenica 15 agosto 2004 si vota per il referendum revocatorio del presidente Hugo Chavez

La febbre di Caracas

A soli quattro giorni dal voto, la situazione rimane estremamente confusa

Tra le strade fangose e caotiche del centro di Caracas il risultato del referendum revocatorio è già dato per scontato. «Sarà un no fragoroso», urla dalla esquina caliente, angolo occupato dai chavisti nella centralissima plaza Bolivar, un militante del partito di Hugo Chávez, il Movimiento V Republica (Mvr). Intorno, le migliaia di venditori ambulanti che ogni giorno scendono dai ranchos - le bidonville affastellate sulla colline - urlano con orgoglio la loro fedeltà al «presidente del popolo». Dalle loro bancarelle rimbomba il rap del momento con lo slogan della sua campagna («Uh, ah, Chávez no se va!»), mentre centinaia di magliette, spille con ben stampato il "no", poster di tutti i tipi e dimensioni colorano di rosso quest'ambiente altrimenti grigio. È in questa zona, tradizionalmente di simpatie chaviste, che domenica si sono riunite centinaia di migliaia di persone per la manifestazione di chiusura della campagna del no. Raggruppate nella avenida Bolivar, hanno ascoltato estasiate l'ennesimo discorso-fiume di Chávez: tre ore, senza interruzioni. L'opposizione, nel frattempo, organizzava diversi raduni in varie città e, a Caracas, si concentrava come sempre nella ricca parte orientale.

A soli quattro giorni dal voto, la situazione rimane estremamente confusa: i due campi già annunciano una vittoria certa, rilanciati e fomentati dai rispettivi media (le televisioni e i giornali privati per il sì, la tv pubblica Vtv per il no). Ognuno rivendica le proprie aspirazioni, occultando gli episodi più scomodi. Così, il canale di Chávez manda in onda in modo ossessivo le immagini del golpe dell'11 aprile 2002, quando il presidente fu rovesciato per 48 ore per essere poi reinsediato dal popolo e da settori leali dell'esercito. Venevisión, uno dei principali canali privati, trasmette servizi sulla convulsa raccolta di firme per la convocazione del referendum, che il campo chavista ha cercato in diversi modi di ostacolare.

Gli uni accusano gli altri, con toni sprezzanti e violenti. «Manderemo a casa el diablo», dice Enrique Mendoza, uno dei leader della Coordenadora democratica (Cd), l'alleanza confusa, un po' sbracata e poco convincente dell'opposizione. «Los escuálidos [gli squallidi] no pasarán!», grida a sua volta il presidente, riferendosi agli esponenti della ricca borghesia che lo avversano. Questo è oggi il Venezuela: diviso in due campi inconciliabili, tra fedeli seguaci della rivoluzione bolivariana e strenui oppositori di quello che definiscono solo un «caudillo populista e autoritario». Così la società appare attraversata da un profondo solco politico ed emotivo che, in una città come Caracas, diventa un vero e proprio divario geografico. Da una parte, gli abitanti dell'est, zona composta da centri commerciali, eleganti caffé e aree residenziali protette da vigilantes privati. Dall'altra, il popolo dei ranchos, che si riconosce in Chávez e nella sua politica, nei suoi programmi di assistenza sociale e nella sua virulenta retorica. In mezzo le classi medie, che nel 1998 e nel 2000 avevano votato in massa l'ex tenente-colonnello golpista, ma che oggi sono stanche dei suoi eccessi. Saranno loro a decidere l'esito del voto. Saranno loro a decidere se il presidente rimarrà al suo posto fino al gennaio 2007 o se bisognerà andare nuovamente alle urne entro un mese per eleggere un nuovo capo di stato che completi il mandato.

Previsto dalla Costituzione bolivariana approvata nel 1999, il referendum revocatorio può essere indetto nei confronti di ogni funzionario pubblico allo scadere della metà del suo mandato. Dopo il fallimento del golpe del 2002 e dello sciopero sindacal-padronale del gennaio-febbraio 2003, l'opposizione ha deciso di giocare nel quadro delle regole stabilite dal suo rivale. Ha raccolto le firme (ce ne volevano almeno 2.4 milioni, il 20% dell'elettorato attivo), tra mille polemiche e reciproche accuse di irregolarità. E ha cominciato la sua campagna: per rimuovere Chávez dal suo posto, il sì non solo dovrà vincere, ma dovrà ottenere più voti di quanti ne ha ottenuti il presidente alle ultime elezioni del 2000 - poco meno di 3.8 milioni.

Se il rischio di astensionismo sembra scongiurato (tale è la passione che suscita questo voto che si prevedono tassi di partecipazione intorno al 90%), più passano i giorni più sembra difficile che la Coordinadora possa spuntarla. La sua mancanza di programma, l'assenza di leader, la sua eterogeneità - si va dai marxisti-leninisti di Bandera Roja agli screditati partiti tradizionali venezuelani (i socialdemocratici di Ad, i socialcristiani del Copei) fino all'estrema destra del gruppo Primero justicia - convinceranno probabilmente gli indecisi a votare per il no.

L'alto costo del petrolio ha provveduto a fare il resto: con il barile alle stelle, il Venezuela - quinto esportatore mondiale di greggio - vede affluire montagne di dollari. Dopo lo sciopero del 2003, che ha permesso a Chávez di assumere il controllo della compagnia nazionale Pdvsa, il governo può oggi attingere a piene mani dalla manna petrolifera. E la può usare per le cosiddette missioni, i suoi programmi di assistenza ai più poveri che prevedono l'alfabetizzazione, la sanità gratuita (con l'aiuto di 10mila medici cubani) e la fornitura di aiuti alimentari. Lanciate l'anno scorso, le missioni hanno scatenato polemiche: accolte con entusiasmo dal popolo dei ranchos, hanno suscitato le ire degli altri, che vi hanno visto solo un mezzo per ottenere voti e assicurarsi la fedeltà dei più indigenti nella contesa referendaria.

Stretto tra populismo e caudillismo, tra spinte egualitaristiche e simpatie socialiste, tra militarismo e autoritarismo, Hugo Rafael Chávez Frías sembra difficile da catalogare. Forse solo il seguito del suo mandato permetterà di capire veramente chi è e qual è il progetto che ha in testa per la sua «rivoluzione bolivariana». Ma questo potremo dirlo solamente domenica, dopo il «giorno del giudizio».

Stefano Liberti
Caracas, 11 agosto 2004
da "Il Manifesto"