Cecenia

Le premesse dell'orrore e i nostri silenzi

Putin ha sempre tentato di presentare la legittima lotta di un popolo per la sua indipendenza come parte di un complotto del cosiddetto “terrorismo internazionale” guidato da Bin Laden. Ma è una lotta iniziata almeno dal 1770.

Non abbiamo nessuna indulgenza per la forma scelta dai disperati che hanno deciso non solo la loro morte (facilissima da trovare in Cecenia e nei paesi adiacenti) ma quella degli innocenti che hanno deciso di portare con se. Ma bisogna capire le premesse della tragedia. La chiave del loro gesto è stata colta bene da Siegmund Ginzberg su "l'Unità": «Oltre ogni limite per far parlare della Cecenia».

Da anni la Cecenia è sottoposta a un feroce genocidio, che ha sterminato tra il 20 e il 30% della popolazione, e costretto i sopravvissuti a condizioni tremende di esistenza. Sostanzialmente dimenticato dal mondo.

Putin ha sempre tentato (e oggi lo fa più che mai) di presentare la legittima lotta di un popolo per la sua indipendenza come parte di un complotto del cosiddetto "terrorismo internazionale" guidato da Bin Laden. Ma è una lotta iniziata almeno dal 1770, e con motivazioni solo in parte religiose, tanto è vero che uno dei suoi capi (per ben diciotto anni, fino al 1791) fu una singolare figura di avventuriero, che si faceva chiamare Mansur Ushurma, ma che era arrivato nel Caucaso come missionario cattolico: padre Giovan Battista Boetti, un domenicano originario del Monferrato che a trent'anni si era convertito all'Islam e alla causa dell'indipendenza da Mosca. Dopo la sua sconfitta una parte della popolazione fu deportata, e nelle terre migliori vennero insediate colonie di cosacchi.

Successivamente decine di rivolte scossero periodicamente il dominio russo. Dal 1824 al 1859 la regione fu di fatto indipendente, come Emirato del Caucaso del Nord sotto la guida di Imam Shamil, e la riconquista, per ragioni di principio più che per interessi concreti, cominciò solo dopo la sconfitta russa nella guerra di Crimea. I russi concentrarono tutte le loro forze, e vinsero, ma dovettero riconoscere l'onore delle armi e l'esilio alla Mecca a Shamil. Una parte degli sconfitti lo seguì e si installò nell'impero ottomano.

I ceceni non si sono mai piegati. Hanno lottato contro lo zar, suscitando l'ammirazione di una parte dei loro nemici, come il giovane Lev Tolstoj; hanno accolto con favore la rivoluzione d'ottobre, ma hanno ripreso a ribellarsi contro la russificazione forzata del periodo di Stalin e sono stati deportati in massa nell'Asia centrale durante la seconda guerra mondiale, perdendo quasi un terzo della popolazione in quel tragico contesto.

A questo proposito va segnalato che Sergio Romano, ricostruendo correttamente la tragica e dimenticata vicenda della Cecenia sul Corriere della sera del 2 settembre, ha attribuito però la deportazione del 1944 a un «tragico errore di calcolo» dei ceceni, che avrebbero appoggiato Hitler. Si tratta di una svista influenzata dalla versione ufficiale staliniana, dura a morire anche se smentita fin dagli anni Settanta da storici rigorosi come Aleksandr Nekriç e Roy Medvedev, che dimostrarono che la percentuale di collaborazionisti nei quattordici "popoli puniti" con la deportazione era minore di quella riscontrata in Ucraina, Bielorussia e nella stessa Russia, per non parlare dei paesi baltici, e che al contrario moltissimi ceceni avevano combattuto tra i partigiani antinazisti (ma spesso i loro nomi, sulle tombe erano stati russificati). Alcune migliaia di balcari, caraciai, e daghestani si erano effettivamente arruolati come volontari nelle formazioni ausiliare tedesche, che promettevano uno stato caucasico indipendente, ma in Cecenia invece un comunista locale, Mairbek Sheripov, aveva tentato nuovamente un'insurrezione indipendentista, senza nessun aiuto dei tedeschi, che infatti non riuscirono a occupare la Cecenia-Inguscezia. La vendetta di Stalin colpì in blocco quei popoli, senza distinguere tra chi aveva collaborato veramente con i nazisti e chi li aveva combattuti nelle formazioni partigiane. Oltre un milione di ceceni, ingusci, balcari, caraciai, ecc. vennero deportati a partire dal 23 febbraio 1944 in Asia centrale e in Siberia. Un terzo di essi morì durante il trasporto in carri bestiame non riscaldati e sigillati. La stessa sorte toccò ai tatari di Crimea e perfino ai tedeschi del Volga, istallati nella zona da due secoli e che erano stati il pilastro del potere bolscevico durante la guerra civile.

Anche il ritorno dalla deportazione, per alcuni in epoca chruscioviana, per altri molto più tardi, fu drammatico, dato che case e terre erano state occupate da altri, che non volevano accettare il rientro. Ma questi antefatti lontani sono solo indirettamente all'origine dell'attuale disperazione e quindi della scelta di mezzi tremendi e ingiusti per «far parlare della Cecenia». Veniamo invece alla storia più recente.

Nel 1991, nel quadro della dissoluzione dell'Urss, il generale dell'aviazione sovietica Djokar Dudayev proclama l'indipendenza della Cecenia, di cui diventa presidente, senza spargimento di sangue. Si tratta di un fenomeno analogo a quello che ha portato al distacco da Mosca degli Stati Baltici, o della Moldavia. Che giuridicamente quelli facessero parte dell'Unione, e la Cecenia invece fosse una repubblica formalmente incorporata nella federazione russa, appariva poco significativo, tenendo conto dei criteri burocratici con cui i territori erano stati accorpati o separati.

Mosca protesta fievolmente, senza reagire. Per più di tre anni la piccola repubblica è di fatto indipendente, anche se stabilisce rapporti stretti con la Russia, di cui ha bisogno. Una soluzione federativa sembra possibile, con soddisfazione reciproca. Ma nel 1994 le truppe russe entrano in Cecenia: si ritireranno due anni dopo grazie a una mediazione del generale Lebed, dopo aver distrutto la capitale Grozny e provocato decine di migliaia di vittime.

L'accordo regge per altri tre anni, ma viene rotto da una serie di avvenimenti imprevisti: nell'agosto 1999 un oscuro funzionario dei servizi segreti, Vladimir Putin, viene chiamato da Eltsin alla carica di primo ministro. Putin riesce in pochi mesi a conquistarsi una grande popolarità grazie ad alcuni non troppo misteriosi attentati che colpiscono edifici civili a Mosca e in altre città, provocando quasi 300 morti, e che vengono attribuiti ai ceceni. Gli attentati non solo non erano stati rivendicati, ma tutte le organizzazioni cecene avevano smentito ogni coinvolgimento.

Grazie a quegli attentati, comunque, nel settembre ricominciano i bombardamenti di Grozny. In tre mesi muoiono migliaia di russi e molte decine di migliaia di ceceni, in gran parte civili. Il 25 dicembre del 1999 il comando russo lanciò "l'attacco finale" a Grozny, provocando oltre 30.000 morti (dieci volte le vittime delle torri gemelle...). Ma la pace non è arrivata.

Proprio grazie al massacro ceceno, che è stato appoggiato da tutti i partiti russi (l'opposizione criticava Putin per la sua mollezza), ma di cui si era assunto il merito principale, Putin, che era sconosciuto alla quasi totalità dei russi appena un anno prima, poté essere eletto presidente nel marzo 2000 con il 52,64% dei voti (Zjuganov 29,34, gli altri rivali molto meno), liquidando silenziosamente il suo predecessore Eltsin. Ma in Cecenia la guerra che aveva assicurato di vincere in poco tempo è continuata. E migliaia di vedove e di figli delle vittime sono stati spinti alla vendetta, con ogni mezzo.

Ecco da dove vengono fuori le "vedove nere" disposte a sacrificarsi, tanto più ferocemente, quanto più hanno di fronte la ferocia dell'avversario, dalle bombe dell'agosto 1999 che mezza Russia e tutta la Cecenia attribuiscono a Putin, alla strage di combattenti e di innocenti ostaggi russi compiuta nell'ottobre 2002 nel teatro Na Dubrovke dai corpi speciali di Putin. Non vogliamo giustificare, vogliamo solo che non si dimentichi chi ha innescato la barbarie.

Antonio Moscato
Foggia, 3 settembre 2004
da "Liberazione"