Yasser Arafat

Una vita per la Palestina

Dagli oscuri inizi negli anni '50 al Cairo e in Kuwait all'ultima battaglia nel ridotto assediato di Ramallah

Yasser Arafat

Raramente nella storia un uomo politico, un leader, è stato esaltato e denigrato, osannato e vilipeso, sostenuto e combattuto con tanta enfasi e con tanta foga come Yasser Arafat, la guida storica di quella che veniva chiamata (e si autodefiniva) un tempo "la rivoluzione palestinese", vale a dire la lotta politica e militare del popolo palestinese per ottenere un suo Stato indipendente in cui vivere in libertà e dignità come tutti gli altri popoli della Terra. Un diritto che sembra naturale e scontato, anche alla luce della Carta delle Nazioni Unite, e che invece al popolo palestinese è stato negato per più di mezzo secolo e ancora oggi viene riconosciuto - dopo il fallimento degli accordi di Oslo - sostanzialmente soltanto a parole. Di questo diritto negato e della corrispondente aspirazione a vederlo finalmente realizzato Yasser Arafat è stato al tempo stesso l'incarnazione e il simbolo per buona parte della sua vita, almeno da quando alla metà degli anni sessanta ha cessato di essere uno sconosciuto ingegnere di origine palestinese per imporsi alla ribalta della pubblica attenzione come combattente e come leader. Nel quarantennio trascorso da allora Arafat ha rivestito mille ruoli, diversi e a volte contraddittori: leader guerrigliero, comandante in capo di una lotta armata di liberazione ma anche, per i suoi nemici e detrattori, capo terrorista senza scrupoli; esule per un quarto di secolo, condannato alle condizioni di una difficile illegalità (anche se vissuta per lo più alla luce del sole, con un singolare paradosso), e poi rientrato nella sua patria da trionfatore come leader universalmente riconosciuto, anche dalla controparte, dopo gli accordi di Oslo; dirigente politico e stratega militare, ma anche capo di Stato, sia pure virtuale, e come tale trattato in tutti i continenti e al Palazzo di vetro; fondatore e dirigente massimo di un movimento (Al Fatah) sostanzialmente laico o comunque "secolare" e al tempo stesso musulmano osservante, almeno nella fase più recente della sua vita, con una costante sottolineatura dei valori religiosi della Palestina e di Gerusalemme; uomo di guerra, ma anche messaggero di pace e fautore di un accordo di convivenza con Israele, affermato già nel 1974 all'Onu e solennizzato dalla storica stretta di mano con Rabin e Peres sul prato della Casa Bianca nel settembre 1993 e dal successivo conferimento a tutti e tre del Premio Nobel per la pace; infine, grazie alla strategia di guerra di Sharon e di Bush, unico caso di un presidente democraticamente eletto e internazionalmente riconosciuto a vedersi costretto nella umiliante e defatigante condizione di prigioniero in casa, costretto di fatto agli arresti domiciliari nel suo diroccato ufficio di Ramallah.

Il "Signor Palestina"

Ma fra tutti questi ruoli e queste vesti, Yasser Arafat ci sembra destinato a passare alla storia, ad essere ricordato dalle generazioni future, palestinesi e non, molto più semplicemente e spontaneamente come "Mister Palestina", con la definizione colorita e simbolica che quarant'anni fa lo ha reso popolare sui media di tutto il mondo e che sottolineava la sua dedizione totale alla causa del suo popolo. A chi gli chiedeva allora notizie sulla sua vita e perché non gli si conoscesse una vita affettiva era solito rispondere: «Sono nato quando sono diventato Abu Ammar (il suo nome di battaglia, ndr) e ho sposato la Palestina». Un vezzo, in un certo senso, ma anche la conferma di una scelta di vita. In realtà molti anni dopo, quando il suo esilio si avviava alla fine (ma lui non poteva ancora averne certezza), si è anche sposato con la sua collaboratrice Suha Thawil, figlia di una notissima giornalista palestinese, e da lei ha avuto una figlia; ma ha continuato in realtà a non condurre una vita familiare "normale", la sua vera famiglia ha continuato ad essere l'intera Palestina. E questa scelta ha sottolineato anche con il suo aspetto fisico. Ha sempre vestito (anche all'Onu) l'uniforme verde oliva, con la pistola al fianco; sul capo, precocemente calvo, ha sempre portato - con evidente intento simbolico - la kefiya palestinese bianca e nera, sostituita solo per brevi periodi negli anni ruggenti di Beirut da un berretto militare senza insegne e senza gradi; sul volto una barba mal rasata o cresciuta a metà, come di uno che ha troppi impegni o troppa fretta per perdersi in banalità come la prestanza fisica. Ne è uscito un personaggio senza dubbio unico nel suo genere, che si è imposto come tale all'opinione pubblica mondiale, immediatamente riconoscibile e identificabile da tutti appunto come "Mister Palestina", senza altri epiteti o aggettivi.

Ho incontrato Arafat per la prima volta in una base di Al Fatah ad Amman nel novembre 1969, pochi mesi dopo che era stato eletto alla guida dell'Olp, nel primo di una lunga serie di incontri che si sono succeduti negli anni successivi in Giordania come in Libano, in Tunisia come in Europa, a Roma come a Gaza e Ramallah. Ciò che mi colpì in modo particolare in quella occasione (notturna, come la quasi totalità degli incontri con Arafat, almeno negli anni della diaspora) fu il suo sguardo intelligente e profondo; durante la nostra conversazione i suoi occhi non avevano pace, guizzavano vivaci da un lato all'altro della stanza, si soffermavano a tratti su ciascuno di noi (ero con una delegazione del Psiup) senza peraltro al tempo stesso "mollare" l'interlocutore del momento, anticipavano spesso con un lampo, ora assorto ora divertito, la risposta alle nostre domande. Capimmo subito di trovarci in presenza di un vero leader, di una personalità destinata a lasciare il segno nel grande libro della storia; anche se - o forse anche perché - la sua figura era allora circondata da un certo alone di mistero, o di leggenda, che in parte dura tuttora. A cominciare dalle circostanze della sua nascita.

La gioventù e la nascita di Al Fatah

Arafat è nato il 24 o il 27 agosto 1929, secondo le biografie ufficiali (non a caso) a Gerusalemme, secondo altre fonti a Gaza o al Cairo; suo padre era il commerciante di generi alimentari Abdul Rauf al Qudwa, la madre Hamida Khalifa al Husseini apparteneva ad una delle più note famiglie di Gerusalemme che ha dato alla città sindaci e muftì, incluso il controverso Gran Muftì Haji Amin riparato nel 1941 nella Germania nazista per sfuggire alla polizia inglese, ma anche il valoroso capo dei guerriglieri del 1948 Abdel Khader, caduto in combattimento alle porte della Città Santa. Morta la madre, Arafat visse in casa di uno zio materno prima di raggiungere il padre al Cairo, dove si era trasferito. Diciannovenne partecipò a qualche azione dei guerriglieri di Abdel Khader a Gerusalemme; tornato poi al Cairo vi studiò ingegneria e ricevette un addestramento militare. Nel 1950-51 partecipò in qualche misura alla resistenza anti-britannica sul Canale di Suez; nel 1952 apparve alla ribalta politica come presidente dell'Unione degli studenti palestinesi, incarico che mantenne fino al 1957. Partecipò nel 1956 alla guerra di Suez con una unità di commandos egiziani subendo per la seconda volta (dopo il 1948) il trauma della disfatta, che risulterà decisivo per le sue scelte successive. Emigrato per lavoro in Kuwait, raccoglie qui intorno a sé un gruppo di intellettuali e professionisti uniti da una completa sfiducia nella politica e nelle possibilità dei Paesi arabi (Egitto di Nasser incluso) e dalla convinzione che artefice della liberazione della Palestina debba essere lo stesso popolo palestinese, attraverso una lotta popolare di massa ed armata. Nel 1959 fondano la rivista "Our Palestine", "La nostra Palestina", che raggiunge una discreta diffusione.

A metà degli anni '60 danno vita ad una organizzazione politica e militare che si chiamerà Fatah, in arabo "conquista", parola ottenuta capovolgendo l'acronimo di Harakat al Tahrir (al Watani) al Falastin, cioè movimento di liberazione nazionale della Palestina; e il 1° gennaio 1965 annunciano l'inizio della lotta armata con un attentato a un impianto idrico in Israele, riuscito solo in parte ma presentato alla stampa con accorta enfasi mediatica. Al Fatah si pone esplicitamente in polemica con l'Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) creata nel maggio 1964 come strumento della politica degli Stati arabi, Egitto ed Arabia saudita in primo luogo; ed è questa la prima delle tante intuizioni politiche di Yasser Arafat. Lui e i suoi amici - come Khalil el Wazir (Abu Jihad) e Salah Khalaf (Abu Iyad), che moriranno entrambi assassinati negli anni '80 - conoscono dunque subito le prigioni arabe, Arafat subisce nel 1966 cinquantun giorni di carcere in Siria; e il primo "martire" di Al Fatah cadrà ucciso, al ritorno da un'azione in Israele, dai soldati giordani: un fatto che la dice lunga sugli sviluppi futuri.

L'impresa di Arafat è comunque alle prime mosse quando precipita la crisi del 1967 con la guerra "dei sei giorni": una travolgente vittoria di Israele che infligge agli arabi e ai palestinesi la terza e ancor più cocente frustrazione, dopo quelle del 1948 e del 1956. Potrebbe essere la fine di tutto, ma Arafat capisce invece che si tratta di una occasione storica. Rianima i suoi, polemizza con gli scettici, dichiara che proprio la disastrosa sconfitta degli eserciti arabi dimostra che l'unica strada è quella della guerra popolare di liberazione. Per tutta la seconda metà del 1967 si impegna in un difficile e pericoloso lavoro clandestino in Cisgiordania e a Gaza con un certo successo, se a fine anno gli israeliani annunceranno di aver ucciso 60 guerriglieri e averne catturati 300. Per ironia della sorte sarà proprio Israele a dare alla lotta palestinese l'impulso decisivo.

La presidenza dell'Olp

Per mettere fine a una guerriglia che rischia di diventare molto più che un semplice fastidio, Israele decide di distruggere il quartier generale di Arafat a Karameh, villaggio al di là del Giordano. Informato dai servizi di Amman, Arafat decide di ignorare le regole della guerriglia (attacca e fuggi) e di accettare lo scontro. E' il 21 marzo 1968: dopo una giornata di duri combattimenti gli israeliani sono costretti a ritirarsi senza aver conseguito il loro obiettivo e lasciando sul terreno 28 morti e 69 feriti, oltre a numerosi carri armati distrutti. La ripercussione nel mondo arabo è enorme, le sedi di Al Fatah e delle altre organizzazioni palestinesi che si sono andate formando sono assediate da migliaia di volontari; Arafat tiene una conferenza stampa proprio fra le macerie di Karameh e balza così alla ribalta dell'opinione pubblica mondiale. La prima conseguenza è una radicale riforma dell'Olp, che diventa una organizzazione-ombrello per tutti i gruppi palestinesi, autonoma dai Paesi arabi e alla cui presidenza viene eletto nel febbraio 1969 lo stesso Yasser Arafat. Comincia di qui la storia "pubblica" - per così dire - di "Mister Palestina"; una storia segnata a cadenze regolari da prove ognuna delle quali avrebbe potuto essere fatale per lui e per la sua impresa.

La prima prova è quella passata alla storia come "il settembre nero" di Amman: lo scontro del 1970 fra l'Olp e il regno hascemita, diventato la base principale della guerriglia palestinese (con conseguenti ritorsioni israeliane) e dove re Hussein sente vacillare il suo trono. Arafat fa di tutto per tenere a freno le diverse "anime" dell'Olp, anche quelle che farneticano di «fare di Amman la Hanoi della rivoluzione palestinese»; ma alla fine lo scontro è inevitabile. Dal 17 settembre è guerra aperta, dopo uno stillicidio di scontri; si combatte furiosamente per dieci giorni, la Resistenza tiene testa all'esercito del re al prezzo di forse ventimila morti. Alla fine la mediazione araba mette fine alla battaglia fratricida, ma l'Olp è costretta a rinunciare al "santuario" giordano e a trasferirsi in Libano; alcune organizzazioni imboccano decisamente la strada delle operazioni terroristiche che culmineranno due anni dopo, nel settembre 1972, nella strage alle Olimpiadi di Monaco. Dalla sconfitta di Amman e dai suoi risvolti regionali e internazionali Arafat trae la convinzione che i palestinesi non possono vincere Israele da soli e con le sole armi della guerriglia e che devono dunque imparare a "fare politica".

La svolta politica

Comincia di qui quel processo di maturazione che lo porterà agli accordi di Oslo del 1993. La prima tappa viene segnata nel maggio 1974, quando Arafat ottiene dal Consiglio nazionale palestinese (il parlamento in esilio) una risoluzione in cui si dice per la prima volta che «l'Olp si batte con tutti i mezzi di cui dispone, e particolarmente con la lotta armata, per liberare il territorio palestinese ed edificare l'Autorità nazionale, popolare, indipendente e combattente su ogni parte del territorio palestinese che verrà liberato». Ci sono qui due punti chiave: il riconoscimento che esistono altri mezzi di lotta oltre le armi e la disponibilità a creare una "autorità nazionale" anche solo su una parte del territorio, cioè non "al posto di", ma "accanto ad" Israele. Anche se espresso per forza di cose in termini ancora ambigui, è il capolavoro politico di Yasser Arafat e al tempo stesso la conferma del suo prestigio e della sua autorità.

Su questa base il 13 novembre di quello stesso 1974 Arafat pronuncia dalla tribuna dell'Onu il famoso discorso "del fucile e del ramoscello di ulivo".

Ma per Israele un'Olp che fa politica è più pericolosa di un'organizzazione di terroristi. Nasce di qui il triplice tentativo di liquidare l'Olp e la sua leadership, nell'aprile 1975 coinvolgendola nella guerra civile a Beirut, nel marzo 1978 con l'invasione limitata del sud Libano e nel giugno 1982 con la nuova invasione su vasta scala e l'assedio di Beirut-ovest. Per Arafat quest'ultima è senz'altro la prova più difficile, davvero decisiva. Il calvario di Beirut-ovest dura 78 giorni, ma l'accanita resistenza dei palestinesi, sostenuti dal fronte islamo-progressista libanese, fa fallire i piani del governo Beghin-Sharon (ancora lui!). Con la mediazione americana si raggiunge un accordo per l'esodo dell'Olp e delle sue strutture da Beirut sotto la protezione di una Forza multinazionale italo-franco-americana. Arafat parte il 30 agosto a testa alta salutato come un capo di Stato. Una settimana prima, ricevendo fortunosamente fra sporadici colpi di cannone (violazioni "fisiologiche" della tregua) il gruppo degli inviati italiani, ci aveva detto testualmente: «Abbiamo ucciso il cavallo bianco con cui Sharon voleva entrare a Beirut»; una frase immaginifica che l'attuale premier israeliano sicuramente non gli ha mai perdonato, come i fatti dimostrano.

Dopo l'esodo da Beirut molti considerano l'Olp ormai fuori gioco, con il suo vertice confinato a Tunisi e i guerriglieri dispersi fra nove Paesi arabi fino al lontano Yemen. Ma hanno fatto i conti senza Arafat che ne trae invece impulso per approfondire la svolta abbozzata fin dal 1974.

La "strategia del negoziato"

Nel febbraio 1983 porta al vaglio del Consiglio nazionale palestinese, riunito ad Algeri, quella che verrà poi correntemente definita la "strategia del negoziato" e ne ottiene il pieno, anche se sofferto, avallo. E' davvero una svolta epocale. A tradurla in atti politici concreti verrà a partire dal 1987, ventesimo anno dell'occupazione, la prima Intifada in Cisgiordania e a Gaza con il suo impatto emotivo a livello internazionale; ma intanto Arafat sarà sfuggito due anni prima, nell'ottobre 1985, all'ennesimo tentativo israeliano di eliminarlo fisicamente, con un raid aereo sul suo ufficio di Tunisi (oltre cento morti, ma Abu Ammar resta incolume).

Come tutti - in Israele, nell'Olp e fuori - anche Arafat viene colto di sorpresa nel dicembre 1987 dall'esplodere spontaneo della ribellione di un popolo che non ne può più; ma non esita ad assumersi la responsabilità storica e la guida politica dell'Intifada cogliendone lucidamente il senso più profondo. Riportando decisamente l'asse della lotta - dopo tanti anni di guerriglia "dal di fuori" - all'interno dei territori occupati, l'Intifada ne rende protagonista assoluta la popolazione che vive sotto occupazione e delimita, per così dire, al tempo stesso i confini geo-politici della lotta, accantonando di fatto una volta per tutte il sogno della liberazione "di tutta la Palestina" (cioè della cancellazione di Israele). Arafat ne trae rapidamente le conseguenze politiche: il 15 novembre 1988 fa votare dal Consiglio nazionale, riunito ancora una volta ad Algeri, la dichiarazione unilaterale di indipendenza «accanto ad Israele», secondo la formula del piano di spartizione del 1947, vale a dire «due Stati per due popoli»; un mese dopo, il 13 dicembre, torna dinanzi all'Assemblea generale dell'Onu (appositamente riunita a Ginevra perché gli Stati Uniti gli hanno negato il visto) per pronunciare un altro discorso storico, con il riconoscimento esplicito del diritto di Israele ad esistere entro frontiere sicure e riconosciute e la rinuncia «ad ogni forma di terrorismo». Si apre così la strada al riconoscimento dell'Olp da parte americana e alla convocazione, nell'ottobre 1991 dopo la prima guerra del Golfo, della Conferenza di pace di Madrid.

Ormai non è più storia ma cronaca.

Alla conferenza di Madrid l'Olp formalmente non c'è, perché Israele non ce la vuole, ma la presenza politica e simbolica di Arafat incombe su tutto lo svolgimento dei lavori. Per la prima volta israeliani e palestinesi siedono faccia a faccia intorno allo stesso tavolo.

Il seme è gettato, la successiva vittoria laburista nelle elezioni israeliane del 1992 apre la strada alle trattative segrete di Oslo, al reciproco riconoscimento e alla storica firma del 13 settembre 1993 sul prato della Casa Bianca. Ma tutto poteva fermarsi un anno e mezzo prima, nell'aprile 1992, quando Arafat si perde con il suo aereo nel deserto libico tenendo il mondo per 48 ore con il fiato sospeso. Come altre volte la sua "baraka", la fortuna in cui ha sempre avuto fiducia, lo salva (sia pure al prezzo di un intervento chirurgico alla testa) e gli consente di andare avanti, questa volta sembra davvero verso il trionfo.

Sgomberate Gaza e Gerico dall'esercito israeliano, il 1° luglio 1994 Arafat torna in Palestina dopo 27 anni di esilio, accolto a Gaza e poi nelle città della Cisgiordania da una folla in delirio: il sogno nutrito in decenni di lotta sembra ormai destinato a realizzarsi. E invece non è così, le lancette dell'orologio possono ancora camminare all'indietro. Nel gennaio 1996 si vota per il parlamento palestinese, Arafat è eletto plebiscitariamente presidente dell'Autorità nazionale, una sorta di Stato in fieri. Ma intanto Rabin - l'altro artefice di Oslo - è stato assassinato da un estremista israeliano, e il clima si va progressivamente deteriorando. Le inadempienze israeliane fanno slittare continuamente l'attuazione delle intese e la definizione dell'accordo finale sullo Stato palestinese; sull'altro versante l'Autorità nazionale non si configura come i palestinesi la vorrebbero, c'è una certa insofferenza verso i "tunisini", cioè i dirigenti venuti dall'esilio, mentre Arafat continua a gestire l'Anp come se fosse l'Olp, in modo verticistico, personale e molto sbrigativo; si determinano fenomeni di burocratismo, di inefficienza, anche di corruzione, aggravati dalla difficile situazione economica provocata dagli accordi inattuati e dalle pretese israeliane. Molto presto la gioia lascia il campo alla frustrazione, la speranza alla delusione; i motivi di malcontento e di crisi si moltiplicano. Un altro momento decisivo arriva nell'estate del 2000, quando al potere in Israele c'è il governo del laburista Barak, non meno inadempiente di quello precedente di destra di Netanyahu.

Il presidente americano Clinton, che vuole passare alla storia come l'uomo della pace in Medio Oriente, convoca a Camp David per una maratona negoziale Barak e Arafat. Dopo due settimane di burrascosi colloqui il 25 luglio si arriva alla rottura: messo di fronte a un piano di pace che - al di là di tutte le fantasie sulle "straordinarie offerte" di Barak - significherebbe per i palestinesi una resa e una perenne sudditanza (sostanziale se non anche formale) verso Israele, Arafat dice di no e torna a Gaza accolto anche questa volta da una folla acclamante, recuperando larga parte del consenso che si era logorato negli ultimi anni. Un mese dopo Sharon va a fare la sua provocatoria "passeggiata" sulla spianata delle moschee, e scoppia la seconda Intifada; a febbraio del 2001 lo stesso Sharon viene eletto premier e in Palestina torna la guerra, per la volontà evidente del vecchio "falco" di saldare i conti rimasti in sospeso venti anni prima a Beirut. Il resto è sotto i nostri occhi: la distruzione materiale delle strutture dell'Anp, la sistematica delegittimazione (sostenuta da Bush) di Arafat come leader riconosciuto del suo popolo e infine il suo umiliante confinamento nella Muqata di Ramallah, con la ricorrente minaccia di espellerlo o addirittura di assassinarlo. E tuttavia il "Vecchio" - Al Khityar, come lo chiamano con affetto gli intimi - non si arrende: tornato ad essere il combattente Abu Ammar, il presidente dell'Anp resiste tenacemente, rivendica il suo ruolo, ribatte a tutte le accuse e dalle mura diroccate del suo ufficio di Ramallah conferma il suo impegno, e il suo sogno, per uno Stato palestinese indipendente e sovrano, accanto ad Israele e con Gerusalemme come capitale. Anche sotto il rullo compressore di Sharon, insomma, Arafat è rimasto fino alla fine (e resterà per sempre) l'uomo "del fucile e del ramoscello di ulivo" e il simbolo vivente della causa palestinese.

Giancarlo Lannutti
Roma, 5 ottobre 2004
da "Liberazione"