Jacek Kuron, Bascia e Jan Grosfeld, Adam Michnik, Jan Litynski

Varsavia, dicembre 1978: il giorno che incontrai, tutti insieme, i dissidenti del Comitato di difesa operaio (KOR)

Memorie di una Polonia come avrebbe potuto essere

La casa dell'incontro, una villetta a due piani, si trovava in un quartiere residenziale alla periferia della città, dove usava abitare la nomenklatura del partito al potere. Ispida la facciata, quasi scostante, immacolata tranne che per le macchie d'ombra gettate dai pali di legno dell'energia elettrica. Tutt'intorno spuntavano dai cumuli di neve, alberi spogli, tetri, spettrali, con tronchi pallidi come cenere di sigaro. Accanto alla villetta, in faccia all'ingresso, sostava una lunga macchina funerea della polizia politica.

Si entrava attraverso uno spazioso vestibolo, all'apparenza del tutto sovradimensionato, pieno di oggetti che sembravano privi d'ogni uso pratico: uno specchio appeso in alto, troppo in alto, e coperto da un velo di seta verde; una statua senza occhi; delle bacheche polverose zeppe di lettere e giornali. Subito a seguire, una stanza di capienza assai più modesta, dove v'era un letto accostato alla parete, un tavolo rotondo attorno a cui sedevano una diecina di persone; due comode poltrone tenute su a forza di corregge e staffe talmente vicine al letto da poterci mettere i piedi sopra - queste poltrone erano riservate a Marta ed a me.

La temperatura nella stanza era quasi tropicale, come d'abitudine in inverno nei paesi del Nord. L'aria, saturata dal fumo di sigarette, sigari e pipe, stingeva sull'azzurro lattiginoso. Si sentiva, a zaffate ma inequivocabile, l'odore dei corpi. Sul letto era seduta Gaja Borucka, la giovane moglie di Jacek Kuron. Gaja era molto bella; il corpo alto ed essenziale, il viso bruno incorniciato dai neri capelli corti, gli occhi tondi ed ardenti come bottoni metallici; tutto questo ed altro ancora le conferiva una aura enigmatica, un che d'indefinito, come un adolescente prima dell'individuazione sessuale. Gaja aveva la febbre quel giorno - il primo segno del male oscuro che l'aveva azzannata e che l'avrebbe portata alla morte qualche anno dopo.

C'era Jacek Kuron, il più anziano tra di loro. E' morto da qualche anno, dopo due legislature alla Dieta polacca ed una intensa attività politica che lo aveva reso una delle personalità di rilievo della Polonia post-socialista. Stava Jacek in manica di camicia, il colletto sbottonato nella stanza affumicata e surriscaldata; alle sue spalle una piccola finestra che dava su un cortile dove la luce di uno smarrito sole dicembrino non arrivava malgrado che fossero solo le tre del pomeriggio. Era di corporatura massiccia ed un po' tozza; teneva con i grossi pollici in continua tensione le larghe bretelle di color indaco ed aveva il respiro affannoso e corto. Non si distingueva bene il viso da dove usciva la sua voce bassa, roca, quasi soffocata. Non aveva ben capito dove fosse la Calabria, la mia regione di provenienza, sembrava anche aver difficoltà a pronunciare quel nome zeppo di vocali; per cui s'era risolto a chiamarmi "corsicano" per via di una certa familiarità che da giovane aveva avuto con l'isola francese.

Kuron era un uomo appassionato, con una inclinazione pedagogica accentuata; rappresentava, in una certa misura, la continuità tra due periodi storici della Polonia socialista: il "revisionismo" degli anni '50 ed il "dissenso" degli anni '70. Infatti, mentre i revisionisti, provenienti dalla tradizione marxista-leninista, consumavano le loro vite promuovendo appelli al potere e suggerendo riforme di struttura allo stato socialista, il dissenso degli anni '70 era una vera e radicale opposizione al regime e non più un tentativo di correggerlo.

Nel '68 v'era stata una rottura irreversibile con il sistema economico-sociale polacco, di portata tale da spingere, sotteraneamente ed irresistibilmente, l'opposizione su posizioni sempre più vicine alla tradizione liberal-democratica occidentale. Questo significava che ogni tentativo di terza via tra il capitalismo di mercato dell'Ovest ed il capitalismo burocratico dell'Est doveva esser lasciata cadere. Ora, Kuron aveva, ancora nel '69, scritto, insieme allo storico Modzelewski, un saggio, non scevro di un retro-gusto trotskista, nel quale si descriveva la burocrazia socialistica al potere in Polonia come una nuova classe che perseguiva l'accumulazione così come accadeva ai capitalisti in Occidente.

La rinuncia ad una terza via tra capitalismo e socialismo burocratico aveva determinato una deriva tale che molti dissidenti erano divenuti cantori delle virtù del mercato, contrapposte alla "via sovietica all'inefficenza", come polemicamente veniva chiamata l'economia pianificata polacca. Si restava straniti a sentir Kuron ed i suoi compagni mentire per omissione, come se non conoscessero le denuncie che non solo la sinistra occidentale ma anche una parte significativa della cultura accademica aveva mosso da tempo alla cattiva utopia del mercato, come se avessero rimosso le catastrofi accumulate nei secoli dal modo di produzione capitalistico.

A noi appariva del tutto evidente che l'eventuale restaurazione dell'economia di mercato in Polonia avrebbe comportato lagrime ed ingiustizie diverse ma non meno gravi di quelle proprie al socialismo burocratico. A noi sembrava che Kuron avesse finito con l'intrappolarsi nelle sue stesse idee - battersi per restaurare il capitalismo era l'esito, non certo affascinante, di un percorso partito dal ruolo preponderante accordato all'economia, eredità questa della mentalità capitalistica diffusasi poi tra i movimenti d'opposizione al capitalismo grazie, soprattutto e paradossalmente, al marxismo.

Ma a casa di Jacek non v'era solo la presenza della tradizione socialista, v'era anche quella cattolica, assai radicata nella storia nazionale; e quella liberale, certo più debole, ma mai completamente cancellata, e che aveva trovato nuovo alimento nelle generazioni più giovani grazie ai viaggi in Occidente, la letteratura, l'arte e la tecnologia.

Bascia e Jan Grosfeld erano due giovani militanti del dissenso cattolico - per la verità Jan era un ebreo della comunità yiddish convertito al cattolicesimo; oggi sono entrambi docenti di storia all'Università di Varsavia e non hanno cessato di dirsi cattolici. La tradizione liberale era invece degnamente rappresentata da Adam Michnik. Aveva allora trent'anni all'incirca, parlava francese ed un po' d'italiano. Oggi è il direttore ed il comproprietario di uno dei quotidiani più autorevoli e diffusi della Polonia. Duro all'aspetto, il sorriso sprezzante, aveva un profilo di falco - sembrava uscito da una di quelle incisioni di Durer dove compaiono quei visi acuti, amari, sfortunati ed introspettivi degli eretici medievali.

Adam era un uomo di intelligenza non comune; sfortunatamente, per lui e per noi, era convinto che bastasse l'intelligenza per districarsi nelle cose del mondo - e questo lo rendeva talmente spregiudicato che finiva con l'incepparsi per mancanza di vincoli e riferimenti, privando di concretezza il suo agire. Per talento, cultura e spregiudicatezza, appunto, mi ricordava, in una certa misura, un protagonista della sinistra extraparlamentare italiana: Adriano Sofri.

Michnik, tanto nei suoi interventi quanto nelle conversazioni successive, tendeva a dedurre a perpendicolo, per così dire, tutti i guai politico-culturali della Polonia dalla presenza delle truppe sovietiche; cioè dalla dominazione militare straniera.

In questa evidente supersemplificazione v'era uno sguardo complice, non privo di demagogia, verso lo spirito nazionale polacco, nutrito da sempre di sentimento anti-russo. Il buffo era che, agli occhi distratti di un osservatore italiano, ciò che richiedeva urgentemente una spiegazione non era certo il controllo poliziesco ma semmai il suo contrario: la plateale tolleranza che il regime accordava all'attività pubblica dell'opposizione; era questa l'anomalia polacca, che non aveva uguali, allora sul finire degli anni '70, in tutta l'Europa orientale, messa a parte l'Ungheria.

A rovesciare questa prima impressione non bastava certo la sequela, lunga e minuziosa, degli innumerevoli sorprusi subiti dai militanti del Kor; giacché l'ostentata sorveglianza delle case dei dissidenti, delle loro comunicazioni come delle loro iniziative editoriali, i licenziamenti dall'apparato pubblico, le perquisizioni ed i sequestri, gli interrogatori senza motivi plausibili, gli arresti arbitrari, i pestaggi, l'uso sistematico della pubblica calunnia ed anche qualche morto ammazzato negli scontri di piazza o nel chiuso delle caserme - tutto questo era ben familiare ai militanti d'Autonomia in Italia, malgrado che quest'ultimi vivessero già in quel regime democratico-liberale al quale l'opposizione polacca affidava il suo futuro.

Quando veniva messo alle strette con questi argomenti, Adam finiva col ammettere che sì, esisteva in Polonia da qualche anno una sorta di tolleranza repressiva verso l'opposizione; e si cavava d'impaccio sostenendo che si trattava di real-politik di un regime cinico che aveva fatto i conti e scoperto che il costo del terrore o anche di un ferreo controllo poliziesco era troppo elevato, in termini di sicurezza ed economia, per potere essere sopportato.

Si trattava, con ogni evidenza, di una spiegazione monca; giacché solo la Polonia godeva di questa tolleranza mentre la sfera d'influenza sovietica si esercitava su centinaia di milioni di persone. Così, il ragionamento tutto politico di Michnik finiva col occultare il dato più rilevante, quello destinato a durare nello svolgersi della storia contemporanea in Polonia. Le periodiche sollevazioni sociali, a partire dal '56 attraverso il '68 ed il '70 per giungere al '76, avevano costruito forme di autonomia nazionali e sociali assai più spesse e diffuse di quelle riscontrabili negli altri paesi dell'Est - confermando in questo modo l'analisi di Aleksander Smolar, un altro dissidente polacco esiliato a Parigi, che vede la sorte della Polonia in mano, in ultima analisi e qualsiasi sia la forma del dominio, alla società polacca stessa.

A casa di Kuron c'era anche Jan Litynski, ed era di gran lunga la presenza intellettuale più interessante, quella che più si discostava dalla sagra dell'ovvio. Molto giovane, appena superati i vent'anni era il direttore di "Robotniki" un periodico ora di due ora di quattro pagine che veniva diffuso con regolarità, dall'ottobre '77, nelle fabbriche polacche. Oggi Jan è uno dei deputati anziani della Dieta essendo stato rieletto in tutte le legislature susseguitesi nella Polonia post-socialista. Era di corpatura piccola, anzi minuta; gli occhi poi sembravano due spilli tra cocci di bottiglia, tanto spessi erano gli occhiali da miope che portava - sembrava costretto a cogliere il mondo per forme d'insieme, gli sfuggiva il dettaglio.

Litynski era l'unico, tra i convenuti in casa Kuron, ad avere delle relazioni politico-amicali con gli operai di fabbrica. Era anche l'unico a possedere strumenti d'indagine che gli permettevano di preparare e realizzare l'inchiesta sulla condizione operaia, strumenti derivanti in gran parte dal pensiero di Marx. Per tutti gli altri il marxismo, che pure pretendeva d'essere una teoria perché conosceva la realtà, era stato assimilato, durante il percorso scolastico, nella forma propria all'ideologia rivoluzionaria del XIX secolo; e quindi decisamente inservibile. Questa circostanza spiegava, secondo Jan, perché, in Polonia come negli altri paesi dell'Est, gli studi sull'estrazione di plus-valore, nelle forme specifiche che assume nell'economia socialista-burocratica, mancavano quasi del tutto; mentre esisteva una eccedenza di letteratura sull'alienazione che affliggeva gli intellettuali dei paesi socialisti.

Jan ricostruiva la storia polacca degli ultimi venti anni periodizzandola sui cicli delle lotte operaie. Insisteva sul fatto che i comportamenti collettivi, in fabbrica e nelle piazze, erano stati dettati dai bisogni materiali - ogni volta, nel dicembre '70 come nel giugno '76, l'insorgenza operaia era stata scatenata dall'aumento, deciso dal governo, dei prezzi dei beni di prima necessità. Jan non vedeva in questo un limite; al contrario, gli sembrava un segno evidente di una finalmente maturata autonomia di classe operaia. Ed era ancora questa autonomia che spiegava, a suo dire, perché le forme di scontro più dure tra operai e stato non avevano mai comportato il passaggio alla lotta armata.

Jan riteneva che non bisognasse ricorrere alle armi perché la loro non era una rivoluzione, cioè una guerra civile per la presa del potere politico; ma piuttosto una crescita ed una moltiplicazione delle forme di vita sociale, della loro diversità ed autonomia, che bisognava favorire in tutti quei modi che non comportassero distruzione e terrore. Jan era assai miope; ma in quei suoi interventi brevi come scariche elettriche sembrava guardare da una posizione elevata e vedere più lontano di tutti gli altri.

Della Varsavia di quegli anni mi resta l'immagine di Litynski, piccolo e lucido. Un'immagine di un altro destino per la Polonia, una possibilità che avrebbe potuto essere e non è stata.

Franco Piperno
Parigi, 31 agosto 2005
da "Liberazione"