A Shanghai è nato il partito comunista cinese e a Shanghai si può dire che sia morto, o almeno è deceduto, forse definitivamente, ogni anelito all’eguaglianza sociale.

Shanghai. La corrotta, la ricca, l'illuminata

La Cina del terzo millennio, quella che si appresta ad accogliere la ministeriale del Wto nell’ex-enclave britannica di Hong Kong, si annuncia al mondo nella città simbolo del suo sviluppo

Shanghai

Shanghai

Skyline

Photo by Flavia Fasanoinfo

Una New York al cubo, una Los Angeles al quadrato. Shanghai sembra un luogo inabitabile, un pianeta che forse reca qualche traccia di ossigeno fra l’antica puzza del carbone e quella del monossido di carbonio.

Poi, quando scendi, ti ritrovi in una Blade Runner quasi rassicurante: megaschermi fanno calare dall’alto canzoncine in cinese e pubblicità occidentali lungo marciapiedi illuminati dalle luci delle decorazioni natalizie e delle vetrine dei marchi più famosi del mondo. Non manca nessuno: da Cartier a Benetton, da Samsung alla Ferrari. E più sotto ancora, su e giù per le strade equamente suddivise fra un fiume di macchine e un esercito di biciclette, ragazzine vestite alla giapponese, con i capelli decolorati e pircing ovunque, passeggiano vicino a uomini e donne stretti nelle vecchie giacchette blu, che portano in giro la loro faccia da contadini attoniti, più stranieri e traumatizzati degli occidentali.

La Cina del terzo millennio, quella che si appresta ad accogliere la ministeriale del Wto nell’ex-enclave britannica di Hong Kong, si annuncia al mondo nella città che è sempre stata la più ricca, la più corrotta, la più aperta e la più illuminata.

A Shanghai è nato il partito comunista cinese e a Shanghai si può dire che sia morto, o almeno è deceduto, forse definitivamente, ogni anelito all’eguaglianza sociale.

La città ha ritrovato l’antica febbre dell’oro, base del patto di sangue firmato fra un’elité che, dopo l’89, ha rinunciato alla politica in cambio della libertà di arricchirsi, e un partito che ha sposato il capitalismo più estremo. Un’alleanza che, poco più di dieci anni fa, ha rilanciato la vocazione mercantile di Shanghai esattamente come ora, in nome del dio denaro, attira schiere di taiwanesi - pare che siano più di mezzo milione - che rinunciano all’indipendenza per attraversare l’invalicabile confine muniti di un visto temporaneo, loro che non hanno nella Repubblica Popolare nemmeno un’ambasciata. La stessa febbre dell’oro che ha trasformato la transizione della ricca ex-colonia britannica - Hong Kong appunto - in una passeggiata più rapida del previsto. Oggi, a cinque anni dal ritorno della città insulare alla Cina continentale, 16 voli giornalieri trasportano pendolari e imprenditori a Shanghai mentre le acque della baia vengono incessantemente solcate dai cargo che portano le materie prime nella fabbrica del mondo, quella zona industriale che viaggia, da sola, su di uno stupefacende 30, 35 per cento di crescita annua.

Shanghai, la porta dell’oriente, può quindi tornare a essere se stessa. Crocevia di scambi e di traffici, calamita per soldi e persone. Ci arrivano i poveracci in cerca di fortuna: almeno un milione di immigrati ogni anno che trovano quasi tutti - al 97 per cento - un impiego. Ci arrivano gli stranieri: 14 mila società interamente in mano agli stranieri alla fine del 2003 e altre 13 mila in partnership con i locali. E ci arrivano i soldi: nel 2004 la città ha attirato ben 12 miliardi di dollari di investimenti stranieri diretti, la stragrande maggioranza dei quali riguardava industrie dedite all’esportazione, principalmente verso gli Stati Uniti. Per rendere un’idea basti dire che la cifra equivale alla quantità di investimenti dell’intera Indonesia, quarta nazione del mondo per numero di abitanti, e del Messico, paese che il Nafta (l’accordo del libero scambio del Nord America) avrebbe dovuto trasformare in una vera e propria calamita, almeno secondo i suoi ideatori. Motore di questa cascata di soldi sono soprattutto i cinesi della diaspora, ovvero quelli nati oltremare che, se non tornano, investono nella madre patria. La calamita, in questo caso, è costituita dall’antico nazionalismo dell’Impero di mezzo che si può leggere nell’entusiasmo con cui telegiornali e giornali locali danno conto delle conquiste tecnologiche e commerciali: dagli astronauti, cui vengono dedicate in questi giorni decine di trasmissioni e di articoli - alle mega, iper, super costruzioni - come il più grande snodo Ikea di tutta l’Asia e il Pacifico inaugurato in questi giorni proprio in città.

Naturalmente, come ogni corsa dell’oro che si rispetti, anche in questa ci sono dei perdenti. Non tanto - non solo - quei 150-200 milioni di migranti interni che hanno abbandonato le campagne per cercare fortuna nei cantieri edili e nelle miniere e dai quali provengono i minatori soffocati dal grisù e affogati nel fango, quanto quelli che restano a casa, a cercare di cavare di che vivere dai campi impoveriti dall’agricoltura intensiva e assediati dalle industrie chimiche o scacciati dalle dighe. Sono stati loro a pagare il prezzo più alto della globalizzazione, quello fissato dai super-burocrati dell’Organizzazione mondiale del commercio quando accolsero a braccia aperte il gigante dormiente.

L’entrata nel Wto impone infatti ai paesi membri alcune condizioni, in primo luogo il progressivo disimpegno dei governi nell’economia nazionale.

La liquidazione delle imprese statali, tuttora in corso, ha comportato la perdita di circa un milione di posti di lavoro nel tessile e sei milioni dell’industria automobilistica locale.

Peggio è andata al settore agricolo - che in Cina dà da vivere all’80 per cento della popolazione - assolutamente non in grado di sostenere la competizione al ribasso delle derrate statunitensi ed europee sovvenzionate dai rispettivi governi: circa 10 milioni di contadini sono andati a rimpinguare l’esercito impoverito dei lavoratori a giornata nelle città. Ma ridurre le tariffe doganali non significa soltanto infilarsi nella spirale del dumping (quando le merci a basso costo distruggono il mercato locale) ma anche rinunciare a un’importante fonte d’entrata a cui lo stato attinge per pagare istruzione, sanità e trasporti. Le regole Wto tagliano i fondi allo stato sociale, innescando la produzione in serie di manodopera disperata e spiazzata.

A questo meccanismo, perfettamente noto a tutti i paesi che hanno assaggiato le ricette iper-liberiste, vanno aggiunge le specificità cinesi. Perché non è detto che un paese che rinunci a prendersi cura dei propri cittadini abbandoni anche la politica repressiva, come speravano i fautori del libero commercio. L’autoritarismo cinese si è invece magnificamente sposato con gli “spiriti animali” del capitalismo vecchio stile, e il controllo politico si è dimostrato un efficacissimo strumento per smantellare una normativa che proteggeva la forza lavoro da salari arbitrari, orari infiniti e condizioni di lavoro rischiose. «Questi problemi » riportava già nel 2000 il centro Documentation for Action Group in Asia «sono esacerbati dal sistema di controllo cinese delle migrazioni interne, che lega i lavoratori alla fabbrica dando ai datori di lavoro il pieno controllo sui permessi di soggiorno. Invece di usufruire della nuova libertà economica, milioni di lavoratori cinesi si troveranno a lavorare come servi della gleba per le imprese straniere». Parole profetiche, scritte l’anno prima dell’entrata ufficiale di pechino nel’Organizzazione mondiale del commercio.

A cinque anni di distanza le peggiori previsioni si sono avverate: lo stato non ha mantenuto gli impegni promessi - utilizzare il welfare per ammortizzare gli effetti dell’entrata nel Wto - abbandonando le classi meno abbienti al loro destino mentre la riforma del diritto del lavoro varata nel 1995 e aggiornata alla fine del 2004 - settimana di 40 ore, contratti collettivi e via dicendo - risulta quasi ovunque inapplicata.

Perfino nei settori dove la concorrenza cinese sembrerebbe vincente, come il tessile, la scure si è abbattuta con estrema violenza: licenziamenti, riduzione dei salari, aumento dell’orario di lavoro, riduzione dei controlli sulle lavorazioni rischiose. E adesso che il gigante potrebbe passare a riscuotere - ovvero a pretendere la stessa apertura dei mercati che ha reso le strade di Shanghai un unico gigantesco hard discount - americani ed europei piangono miseria.

Pietiscono rinvii, patteggiano concessioni e trattamenti di favore.

Tanto è già stato deciso che i veri perdenti, gli scontenti della globalizzazione che rischiano di far deflagrare un conflitto sociale dalle proporzioni inimmaginabili, verranno tenuti a bada con la forza, con un apparato di polizia più efficiente che mai e con l’esercito schierato intorno ai villaggi ribelli.

Stranamente l’ennesimo saggio di doppia morale liberista non fa arrabbiare i cinesi.

Abilmente Pechino accetta rinvii e accoglie scuse poco credibili, ufficialmente “per non spaventare”, ufficiosamente perché, qualsiasi cosa accada, ormai il gigante si è svegliato e non tornerà a dormire.

La sensazione, confermata dagli articoli dedicati alla prossima ministeriale di Hong Kong sui giornali in lingua inglese, è che, comunque vada, per la Cina va bene comunque.

Sono i governi occidentali ad avere bisogno della legittimazione di un palcoscenico internazionale, e sono sempre loro a segnare il passo nella crescita economica. Se il Wto fallisse di nuovo, per il gigante cinese non cambierebbe poi molto.

Se invece, cosa estremamente improbabile, i super-burocrati riuscissero a trovare uno straccio di accordo, sarebbero i paesi in via di sviluppo a rimetterci, a distruggere i piccoli agricoltori e disintegrare l’industria nascente. Un’eventualità che troverebbe comunque la Cina in pool position: con il suo 10 per cento di crescita annua è pronta a invadere qualsiasi mercato.

Unico limite il cielo, dunque? In effetti, l’unico vero limite è la terra, ovvero i limiti ambientali dello sviluppo iper-accellerato in una regione già estremamente impoverita dallo sfruttamento umano. La catastrofe ambientale ben evidenziata dallo smog che avvolge i grattacieli di Shanghai e rende quasi inutile tutta questa costosa esibizione di potenza, riguarda ogni settore: dalle terre impoverite alla scarsità d’acqua, dall’inquinamento dell’aria alla crisi delle materie prime. Da questo punto di vista gli occidentali hanno poche lezioni da dare: in quattrocento anni gli americani hanno rovinato una terra relativamente incontaminata e gli australiani ci hanno messo ancora meno. I cinesi sono riusciti a sopravvivere in questa terra sterminata per ben cinquemila anni, venendo a patti con una natura difficile e gestendo il rinnovamento delle risorse in modo raffinato e prudente finché l’enorme incremento demografico e una cieca ideologia industrialista - che considerava l’ecologia roba da borghesi debosciati - non ha fatto imboccare al paese scorciatoie fallimentari - ad esempio una politica agricola dissennata che ha trasformato intere zone del paese in deserti sterili.

Al contrario di quanto si crede il governo cinese non sottovaluta affatto la questione. In breve tempo è stata approvata una legge sull’efficienza degli autoveicoli più rigida di quella europea - che è anni luce più avanti di quella statunitense - e quasi ogni giorno vengono firmati contratti con le più avanzate imprese occidentali per introdurre nel paese energie alternative - l’ultimo è un accordo da 10 milioni di dollari firmato ieri fra la BP e la China Xinjiang Sun Oasis per la fabbricazione e la vendita di pannelli solari - mentre le leggi contro la deforestazione sono severissime. Ma la corsa è talmente veloce da rendere queste misure insufficienti, inefficaci o addirittura controproducenti: le normative per salvare le ultime foreste cinesi, ad esempio, hanno finito con l’esportare la deforestazione altrove - nel Borneo e in Amazzonia - perché la fame di legno (e di rame, di zinco, di petrolio…) continua a crescere e da qualche parte bisognerà pure andare a prenderlo… Difficile capire come andrà a finire, se l’antica capacità asiatica di venire a patti con la natura riuscirà ad addomesticare gli “spiriti animali” del capitalismo più dissennato, ma una cosa è certa: per quanto remoto possa apparire questo paese, questa sorta di ultimo atto del capitalismo più avanzato riguarda anche noi.

Sabina Morandi
Shanghai, 5 dicembre 2005
da "Liberazione"