Il “caso cileno”, dal 1970 al 1973, resta un paradigmatico esperimento di transizione economica e politica.

Vi racconto la storia di Allende eroe vero e dimenticato

In pochi credettero a una via democratica al socialismo nel “cortile di casa” degli Stati Uniti

Salvador Allende e Fidel Castro

Salvador Allende e Fidel Castro.

L'America Latina è macchiata negli anni Sessanta e Settanta da spietati regimi autoritari. Golpe militari prendono il potere in Brasile (1964), Argentina (1966) e poi in Uruguay come risposta ai movimenti guerriglieri ispirati dalla rivoluzione cubana. Il 9 ottobre 1967 Ernesto Che Guevara è assassinato in Bolivia. La sua morte è la fine del tentativo di non chiudere in una sola isola l’esperimento che si è avviato a L’Avana nel gennaio 1959. Bisognerà attendere il 1979 in Nicaragua per assistere al successo di un’altra rivoluzione in America Latina.

Dopo l’assassinio del Che, Cuba ripiega nei suoi confini e rinsalda i rapporti con l’Unione Sovietica e i paesi del “socialismo reale”. Fino a quel momento, L’Avana aveva tentato di proporsi come originale punto di riferimento dei movimenti di liberazione del Terzo mondo.

Passano meno di dodici mesi e Fidel Castro, nell’agosto 1968, si schiera inaspettatamente a favore dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia (teme un’aggressione militare di Washington nei confronti di Cuba). In America Latina, intanto, sono stroncate, una dopo l’altra, quasi tutte le guerriglie. L’Avana offre solidarietà e ospita i superstiti di quei movimenti ma la strategia guerrigliera, nata in contrasto con la logica della “guerra fredda” e della divisione del mondo in sfere d’influenza che ispira il moderatismo dei partiti della sinistra tradizionale latinoamericana, è ormai sconfitta.

Il tentativo cileno

Del socialista Salvador Allende, eletto presidente del Cile il 3 novembre 1970 e in carica per appena mille giorni (il suo mandato si sarebbe dovuto concludere nel 1976), si parla solitamente poco. Come poco si studia l’esperienza del governo di Unidad popular. Da questo punto di vista, ha fatto bene Fausto Bertinotti a riaprire la discussione sul Cile di quegli anni e sul ruolo di Allende.

Quest’olvido - quest’oblio - costituisce di per sé un problema politico e teorico, che forse trova spiegazione nel fatto che il golpe di Augusto Pinochet dell’11 settembre 1973 non è inaspettato. Il braccio di ferro con i militari era in corso da tempo. Le resistenze corporative alla politica di cambiamento dilaniavano il tessuto sociale del Cile. La sinistra al governo (e fuori del governo) era profondamente divisa sulla direzione di marcia da intraprendere. I comunisti di Luis Corvalán erano gli unici convinti alleati di Allende e ne condividevano il guadualismo, mentre perfino il Partito socialista diretto da Carlos Altamirano proponeva la radicalizzazione dello scontro con la destra. I gruppi del Mir e del Mapu (quest’ultimo d’ispirazione cristiana), pur con differenze politiche tra loro, erano d’accordo con i socialisti. Negli ultimi mesi del suo governo, Allende stava pensando di indire un referendum come strenuo tentativo di resistere alla destra.

Si dovette scontrare con le resistenze presenti all’interno della sua stessa coalizione (anche Altamirano si opponeva a quell’opzione democratica, malgrado il Partito socialista fosse l’organizzazione di riferimento di Allende).

Nelle elezioni politiche del marzo 1973 la coalizione di governo aveva ottenuto il 43,3 per cento e quella di opposizione il 55. Di qui il disperato gesto di Allende di dialogare con la Democrazia cristiana di Eduardo Frei e Patricio Aylwin che aveva guidato il fronte dell’opposizione. Il “caso cileno”, dal 1970 al 1973, resta in ogni caso un paradigmatico esperimento di transizione economica e politica. In pochissimi credettero allora alla bontà di una via democratica al socialismo a pochi chilometri dagli Stati Uniti, in un paese ricco di materie prime e di multinazionali straniere, dalle salde tradizioni culturali, a pochi anni di distanza dall’assassinio di Guevara in Bolivia e dalla decisione di Cuba di chiudersi nei propri confini. Il socialismo, del resto, era arrivato nei paesi latinoamericani solo grazie a una rivoluzione anomala come quella cubana (guidata dal Movimento 26 luglio e non da un partito). I partiti comunisti filosovietici predicavano il dialogo con le borghesie nazionali a causa della “guerra fredda” (l’America Latina era il “cortile di casa” degli Stati Uniti). L’elaborazione di José Carlos Mariategui, il teorico marxista peruviano degli anni Venti influenzato dall’amicizia con Antonio Gramsci a Torino, non sembrava aver lasciato tracce.

Un’altra spiegazione dell’olvido sull’esperimento cileno riguarda in particolare l’Italia. Il ricordo del Cile è legato al “compromesso storico” proposto da Enrico Berlinguer in tre saggi pubblicati nell’autunno 1973 sul settimanale Rinascita. Il segretario del Pci traeva dal golpe in Cile, dalla collocazione a destra della Democrazia cristiana di quel paese e dal contesto internazionale che aveva reso possibile il colpo di Stato, l’amara lezione dell’impossibilità di un governo delle sinistre in Italia. Ma sul Cile la sinistra italiana si era divisa ben prima del golpe di Pinochet. Basti ricordare la campagna lanciata da Lotta continua in favore di “armi al Mir”. E finanche nei cortei del dopo golpe ci si sarebbe divisi negli slogan contrapposti di “Cile libero” e “Cile rosso”.

Questo olvido non rende onore né ad Allende né al governo di Unidad popular. Salvador Allende era un uomo colto, nato il 26 luglio 1908, figlio di un notaio benestante, inflessibile nelle sue convinzioni, medico per studi e vocazione professionale, eletto segretario del Partito socialista nel 1943, candidato alla presidenza del Cile senza successo nel 1952, 1958 e 1964. Il suicidio nel Palazzo della Moneda circondato dai golpisti chiude con un gesto eticamente coerente l’esistenza di chi aveva pensato possibile per il Cile un socialismo legittimato dal voto popolare.

Il viaggio di Fidel

Il fucile con cui Allende appare nelle ultime foto che lo ritraggono con un casco militare mentre attende l’imboscata nemica (e che forse verrà usato per suicidarsi) gli fu regalato da Fidel Castro nel corso della visita di tre settimane che il leader cubano fece in Cile nel novembre del 1971 (la più lunga all’estero che Castro abbia mai fatto). Proprio quel viaggio (poi ricambiato da Allende a Cuba) e l’amicizia tra i due leader dimostrano come le due vie al socialismo (quella guerrigliera cubana, quella elettorale cilena) non fossero contrapposte, come si è soliti credere. Castro aveva un debito particolare verso il presidente cileno. Allende aveva aiutato il ritorno in patria dei pochi superstiti cubani della spedizione in Bolivia guidata da Guevara e aveva fatto pervenire a L’Avana il Diario boliviano del Che. Ma questo è un dettaglio, certo non irrilevante. Castro e Allende hanno soprattutto cercato un’alleanza a distanza, pur nella distinzione dei metodi che ognuno dei due praticava per il raggiungimento dei propri obiettivi politici.

«Noi abbiamo dovuto stabilire rapporti economici di favore con l’Unione Sovietica. Non avevamo alternative. Ma solo l’unità della comunità latinoamericana può favorire anche la piena autonomia di Cuba», dice Castro a Santiago del Cile. E quando il leader cubano incontra il Mir in un’assemblea nella sede dell’Università di Concepción replica seccamente all’ala più radicale della sinistra cilena che gli chiede di sconfessare Allende: «E’ necessaria la massima unità, perché un processo rivoluzionario deve crescere sull’insieme delle forze disposte a impegnarsi in quella direzione.

Vi ricordo che una rivoluzione rappresenta solo una delle strade per raggiungere il cambiamento sociale. Una rivoluzione non è fine a se stessa». Castro, inoltre, insiste sull’esigenza del dialogo con le forze progressiste del mondo cattolico, quando incontra il movimento dei Cristiani per il socialismo: «Il ruolo della Chiesa è indispensabile nel processo di emancipazione dei popoli. Non c’è contraddizione tra marxismo e cristianesimo: la liberazione dell’uomo è il nostro comune obiettivo finale ». A Fidel, però, non sfuggivano i pericoli di golpe. Nel corso di una conferenza stampa a Santiago non nasconde le sue preoccupazioni: «Sono impressionato dalla mobilitazione della destra fascista. Mi auguro che l’esercito sia leale al presidente Allende. La mia convinzione è che via via che andrà avanti la politica di Unidad popular maggiori saranno le resistenze per invertire il processo di cambiamento sociale. Ma resto convinto che il compagno Allende saprà gestire nel modo migliore anche i momenti di maggiore tensione».

Molto interessanti sono anche i discorsi che Castro e Allende pronunciano nel corso di una manifestazione a Santiago il 3 novembre 1971. «E’ dagli anni in cui a Cuba governava Batista che non mi capita di vivere in una città assediata e in stato di emergenza. Tornerò a L’Avana più rivoluzionario di come ero partito. A Cuba l’uso delle armi è stato purtroppo necessario, voi avete scelto un’altra strada. Ricordatevi, però, che la reazione è sempre in agguato », dice Fidel. «E’ dal settembre del 1970 che Unidad popular è oggetto di attacchi da parte della destra. Ma la storia seguirà il suo corso. L’esperienza cilena è la prima in cui marxisti e cristiani lottano insieme per realizzare il socialismo. Non impediremo alla destra di manifestare, ci limiteremo a stroncare i tentativi di imporre uno scontro violento e sanguinario », argomenta Allende.

Il tradimento dei militari

L’esperimento cileno è stroncato nel sangue con l’aiuto della Cia e del governo degli Stati Uniti. Vale la pena ricostruire i mille giorni del governo di Unidad popular. In pochi ricordano, e i più giovani non sanno, che dal 1970 al 1973 il Cile ha vissuto un’esperienza politica irripetibile con movimenti e progetti di trasformazione sociale nelle città, nelle scuole, nell’agricoltura e nell’industria. Il primo provvedimento di Allende fu l’avvio della nazionalizzazione delle banche e della riforma agraria.

Poi arriva la nazionalizzazione delle industrie del rame, mentre il presidente propone la suddivisione dell’economia cilena in tre aree: sociale (con la partecipazione dei lavoratori), mista e privata. E’ proprio su questi provvedimenti che la Democrazia cristiana rompe ogni rapporto con Allende.

Gli eventi precipitano nel settembre del 1972, quando camionisti e industrie produttrici di rame scendono in sciopero contro la politica economica del governo. A novembre, per risolvere la crisi, Allende apre il suo governo alla presenza dei militari: il generale Carlos Prats diventa ministro degli interni, Augusto Pinochet è nominato al vertice dell’esercito. A dicembre il presidente cileno si reca a New York, dove denuncia in un discorso alle Nazioni unite l’aggressione delle multinazionali contro il suo governo.

Nel gennaio del 1973 è già chiaro l’epilogo. Prende il via l’embargo delle imprese statunitensi nei confronti del rame cileno. Fallisce il negoziato con gli Stati Uniti per il risarcimento delle industrie americane nazionalizzate. Escono dal governo i militari. Ad aprile a scendere in sciopero sono i minatori. L’esercito tenta una prima prova di forza il 29 giugno, ma alcuni generali non aderiscono al progetto di colpo di Stato. Ad agosto riprende lo sciopero a oltranza dei camionisti che mette in ginocchio l’economia. Il 10 settembre Allende convoca una riunione straordinaria del consiglio dei ministri e comunica la sua decisione di indire un referendum sulla politica del governo di Unidad popular.

Ne viene data pronta comunicazione ai militari: la coalizione progressista avrebbe gettato la spugna solo per via democratica, così come era salita al potere. Nella mattinata dell’11 settembre il palazzo presidenziale della Moneda è circondato dai blindati dell’esercito e bombardato dall’aviazione.

A distanza di oltre tre decenni da quell’11 settembre 1973, mentre la socialista Michelle Bachelet guida il Cile dei nostri giorni e l’America Latina è attraversata da nuovi e plurali esperimenti politici progressisti (dal Venezuela al Brasile, dalla Bolivia all’Argentina), la sinistra italiana fa bene a riaprire la discussione sui mille giorni del governo di Salvador Allende.

Aldo Garzia
Roma, 1 febbraio 2007
da "Liberazione"