Noi non ci uniamo al coro filoamericano che si va diffondendo in tutto il pianeta, non ci stringiamo attorno a una “civiltà” basata sul profitto e sull'emarginazione sociale
Ma non grideremo più “abbasso gli americani”

Terrorizzati sotto il fumo scatenato dal crollo delle Twin Towers, agghiacciati dalla guerra in casa, gli americani si sono ritrovati come gli abitanti di Beirut, di Baghdad, di Belgrado: soli con il proprio terrore. D'un colpo sono stati parificati al resto del mondo, a quegli uomini e donne che sentono il ritmo della vita planetaria incidere sulle proprie vite, non più sterilizzati dentro la propria, “superiore”, civiltà.
Uomini e donne maciullate, nel cuore dell'occidente ricco, dalla logica del terrore e della guerra, la stessa agitata dagli Usa nel corso dell'intero dopoguerra. Gli americani da oggi sono come noi, hanno paura come noi, vivono i fatti del mondo come noi, ne soffrono come noi.
Anche loro vittime di una guerra e di un terrore che rovescia i propri orrori su tutto il pianeta, come unici elementi regolatori dell'ordine mondiale e della moderna “civiltà”. Un terrore e una guerra che ormai colpiscono i popoli in ogni parte del mondo, anche nel suo cuore più protetto e più “sicuro”. Di questa realtà gli Stati Uniti sono stati responsabili diretti, attraverso il loro sistema militare fonte di morte e distruzione, attraverso il loro sistema economico che rimuove i bisogni sociali, attraverso la loro costruzione culturale asservita ideologicamente al proprio ordine produttivo.
Molti stanno cercando di rimuovere velocemente questa responsabilità e di “incassare”, passando sopra i morti, un risultato politico: il Corriere della Sera ci invita a stringerci attorno al tempio della civiltà e a gridare “siamo tutti americani”; il governo, con il gusto macabro della provocazione, propone di riconvocare un G8 straordinario in Italia per vedere l'effetto che fa; Silvio Berlusconi può sottolineare la fedeltà agli Stati Uniti proponendola come bandiera a tutto il popolo italiano.
Provocazioni, ideologismi, operazioni che cercano di consolidare un sistema planetario fragile e prepotente, che fa acqua da tutte le parti, che convince sempre meno e che sempre meno conquista il consenso sociale.

Nulla come prima

Noi non ci uniamo al coro filoamericano che si va diffondendo in tutto il pianeta, non ci stringiamo attorno a una “civiltà” basata sul profitto e sull'emarginazione sociale.
Ma anche per noi nulla è più come prima. Innanzitutto perché quella specifica interpretazione con la quale si condannano azioni di terrorismo, invitando però subito dopo a comprendere il sostrato sociale che le motiva, anche quella oggi non regge più. E non regge perché troppo ampio è il divario tra l'ingiustizia sociale, anche la più estrema, e la potenza “militare” che ha prodotto questo attentato, fuori dalla portata di qualsiasi particella impazzita, di qualsiasi kamikaze del conflitto sociale.
Ma non regge anche perché troppo violento è il peso contro la stessa politica e contro l'ansia e la speranza di trasformazione sociale che anima milioni di persone, anche in America, e che da oggi vedono più difficili e coatte le condizioni della propria agibilità politica. L'individuazione dell'ingiustizia sociale non serve tanto a comprendere le cause reali di un atto terribile come quello di New York, quanto come bussola di riferimento per l'azione politica necessaria a rispondervi.
Gli Usa, il G8, la Nato non faranno altro che reiterare la logica della violenza e della guerra, attaccando e massacrando popolazioni altrettanto inermi, come hanno sempre fatto. E dimostreranno ancora una volta di essere inadatti a promuovere quello di cui invece ci sarebbe bisogno per isolare l'atto violento, per relegarlo fuori, ma per davvero, dal vivere civile: una politica di pace, di solidarietà, di giustizia sociale.

Un nuovo linguaggio

Ma quello che muta è anche la simbologia, il linguaggio con cui avvicinarsi agli eventi. Con la terribile strage dell'11 settembre a essere colpiti, sotto le macerie delle Twin Towers, sono soprattutto lavoratori e lavoratrici, molti dei quali protagonisti di giornate come quelle di Seattle o di Washington, parte della nostra stessa lotta, del nostro sentire, della nostra impresa politica.
A essere massacrati sono stati, ancora, uomini e donne ignari di ciò che li circondava, uomini e donne qualunque. In questo senso quell'atto terroristico è rivolto, anche materialmente, contro ognuno di noi.
Anche per questo a quegli uomini e a quelle donne non va solo la nostra solidarietà, la nostra vicinanza o il nostro affetto. Quegli uomini e quelle donne sono oggi, ancora più che in passato, una parte vitale della nostra lotta contro il capitalismo, contro le guerre e contro il terrorismo. Da oggi, più di prima, dovremo cercare di lottare insieme a loro, insieme a quelli che per la prima volta subiscono la guerra, anche se nella forma dell'attentato terrorista.
Insieme a quelli con cui in questi mesi abbiamo discusso e manifestato e che per la prima volta toccano con mano quanto sia attuale l'opzione tra “socialismo o barbarie”.
Anche per questo da oggi, dovremo costruire una nuova simbologia e una nuova politica: e anche per questo non gridare più “abbasso gli americani” - che pure non abbiamo mai urlato come invettiva contro un popolo, quanto contro le sue istituzioni militari ed economiche - può servire a rafforzare una speranza di conflitto e di trasformazione sociale.

Salvatore Cannavò
Roma, 13 settembre 2001
da "Liberazione"