Per una valutazione non puramente congiunturale della crisi argentina qualche richiamo è necessario.
L'Argentina è stata a lungo il paese più industrializzato dell'America Latina, al punto che tra sociologhi
e militanti della sinistra si dibatteva se la sua economia potesse ancora definirsi semicoloniale
o neocoloniale, oppure capitalista tout court.
Comunque sia, l'Argentina ha potuto sfruttare a suo favore il periodo della seconda guerra mondiale
e degli anni immediatamente successivi per rafforzare il proprio potenziale economico. Era in questo
il quadro che il primo peronismo assegnava allo Stato un ruolo economico importante - e allora niente
affatto negativo -, migliorava lo stato sociale di grandi masse della popolazione e promuoveva la
formazione di organizzazioni sindacali dalle radici profonde e destinate a influire per decenni sulla
vita politica del paese.
In una fase successiva il peso dell'industria si accresceva ulteriormente (da1 28% nel 1953 al 37%
nel 1966), ma il tratto più caratteristico non era più la sostituzione delle importazioni, ma lo sviluppo
di settori industriali con la penetrazione del capitale straniero (per lo più sotto forma di joint
ventures).
E' in questa fase che nasceva un settore automobilistico, soprattutto nella regione di Cordoba, e
il formarsi di consistenti nuclei operai in quest'area era la premessa delle grandi lotte della fine
degli anni '60 e degli inizi degli anni '70.
Come era inevitabile, l'Argentina subiva a sua volta gli effetti negativi della nuova fase apertasi
con la recessione mondiale del '74-75: tanto più che la produzione era sempre più centrata sulle esportazioni
e non sui consumi interni. Si delineava così una parabola discendente che aveva come conseguenza il
crescente indebitamento. Tra l'80 e l'82 i regimi militari compivano la brillante operazione di “statizzare”
il debito, al costo di circa il 25% del Pil, aprendo così la strada alla inflazione galoppante (con
parallela ingente fuga di capitali).
Della fase degli anni '90 tutti hanno parlato in questi giorni. Due misure convergenti rendevano
possibile una inversione di tendenza: l'aggancio del peso al dollaro e un'ondata inarrestabile di
privatizzazioni (erano privatizzati anche lo zoo e il cimitero di Buenos Aires). A queste condizioni
affluivano i capitali stranieri e si registrava una ripresa che alla metà del decennio era indicata
come via esemplare da seguire (solo un commentatore del Financial Times prospettava l'ipotesi di un
nuovo ristagno).
Effettivamente questo ristagno si delineava a partire dalla fine del '97 e via via si aggravava per
la caduta dei prezzi di certi prodotti e, forse ancora di più, per la scarsa concorrenzialità di una
economia ancorata al dollaro rispetto alle più flessibili economie di altri paesi.
Esempio più recente di quest'ultimo fenomeno: mentre il peso restava fisso, il Brasile dall'inizio
di quest'anno svalutava la moneta del 30% con le conseguenze facilmente immaginabili. Il bilancio
è ormai drammaticamente chiaro: quattro anni di recessione con una caduta complessiva del 10% del
Pil, una disoccupazione che supera ufficialmente il 20% (di fatto è probabilmente superiore), una
povertà che colpisce 14 su 37 milioni di argentini.
Sono dati molto più da grande depressione che da recessione più o meno fisiologica. In questo contesto,
va da sé che i capitali esteri, come erano affluiti, così si dileguavano (peraltro nell'ambito di
una contrazione mondiale degli investimenti esteri diretti nei paesi sottosviluppati), mentre non
si arrestava la fuga di capitali.
Abbiamo sottolineato questa sequenza degli avvenimenti per evitare la falsa interpretazione che
pure sembra prevalere: non è il debito che provoca la crisi, ma la crisi che via via aggrava il debito.
Come alcuni hanno giustamente ricordato, il debito, dopo tutto, non è smisurato: in novembre era ancora
pari al 54% del Pil (ricordiamo che per l'ammissione all'euro il tetto massimo, peraltro non da tutti
rispettato, era del 60%).
Grave è, invece, che il servizio del debito stesso sia pari a quattro volte le esportazioni e che
gli interessi da pagare siano pari a un quinto di tutte le spese di bilancio.
E le scadenze, di vario genere, si susseguono a ritmo infernale: 182 milioni di dollari nella settimana
in corso, circa 450 prima della fine dell'anno, 1,5 in gennaio e 1,08 in febbraio.
E' proprio l'avvitarsi di questa situazione che suggeriva via via le misure spietate a tutti note
(tagli di salari, di pensioni, non pagamento degli stipendi pubblici, tagli alla spesa pubblica, limite
dei ritiri di valuta dalle banche).
Diamo la parola a due economisti statunitensi: «Non è solo economicamente insostenibile dare la priorità
al pagamento dei debiti ai detentori stranieri di buoni a danno dei lavoratori e dei pensionati del
paese. E' politicamente indifendibile e socialmente ingiusto».
Ma l'idea di sospendere i pagamenti e di dichiarare l'insolvenza - certo soluzione non priva di difficoltà
- non è mai balenata nella mente di Cavallo e di De la Rua.
La loro linea del Piave era un ulteriore taglio di spesa del 20% per il 2002 e il versamento di un
miliardo e 300 mila dollari da parte del Fmi. Avendo respinto il congresso la prima misura e il Fmi
avendo rifiutato il versamento previsto, la situazione non poteva che precipitare con la conclusione
che sappiamo: ritiro sia di Cavallo sia di De la Rua e crisi politica e sociale di dimensioni ancora
incalcolabili.
L'allenatore argentino Velasco, in una lucida intervista, ha detto: «Negli anni '70 si sarebbe detto
che era una crisi rivoluzionaria». Giusto nel senso che, per parafrasare Lenin, quelli che stanno
in basso non sono più disposti ad accettare lo stato di cose esistente (e la stessa classe media ha
ormai un'analoga reazione) e quelli che stanno sopra non riescono più a imporsi. Il problema è che
ci sono stati nel corso dell'anno mobilitazioni imponenti quasi senza tregua; con il succedersi di
scioperi generali, di blocchi ripetuti di vie di comunicazione ecc., quella che non si delinea ancora
è una alternativa politica complessiva. Un'alternativa non sono certo i tardoperonisti, divisi tra
loro, e corresponsabili delle derive dell'ultimo decennio. Le recenti elezioni avevano segnato il
rafforzamento di una sinistra radicale, ma in proporzioni ancora insufficienti perché questa sinistra
possa assumere già ora un ruolo di direzione alternativa. Ci auguriamo che questa nostra valutazione
si dimostri priva di fondamento.
Un'ultima considerazione: sinora sembra prevalere l'opinione secondo cui la crisi argentina non avrà
ripercussioni su scala mondiale e neppure nella stessa America Latina. La tesi ci pare azzardata sul
terreno economico.
Ma ancora più lo è dal punto di vista politico: in un continente dove in diversi paesi si registrano
ricorrenti manifestazioni di vasti strati della popolazione (per esempio, l'Ecuador e la stessa Colombia,
dove per strabismo interessato o male informato si tiene solo conto della pur rilevante lotta armata),
gli avvenimenti argentini non potranno non avere come effetto di aumentare una già elevata conflittualità.
C'è da supporre che avremo occasione di riparlarne.