Il ricorso allo stato d'assedio è una costante della storia argentina

Argentina, la storia che si ripete

Il ricorso allo stato d'assedio è una costante della storia argentina.
La misura che limita pesantemente le libertà costituzionali dei cittadini è stata presa negli ultimi 150 anni da quasi tutti i presidenti della nazione, compresi quelli liberamente eletti dal popolo, come Justo Urquiza e Mitre nella seconda metà dell'Ottocento, Arturo Frondizi e Isabela Peròn più di un secolo dopo, fino a questa tormentata nuova parentesi di democrazia, iniziatisi nel 1983 dopo che l'ultima dittatura militare - responsabile del genocidio dei desaparecidos, si era autoaffondata nelle acque dell'Atlantico Sud sconfitta dalla Gran Bretagna nella guerra delle Falkland-Malvines.
Lo stato d'assedio fu decretato da Raul Alfonsin nel 1985, per quarantacinque giorni, e nel 1990, per un sol giorno, dal presidente peronista Carlos Menem, che domò l'ennesima ribellione dei militari venendo a patti con le Forze Armate e liberando dall'ergastolo golpisti assassini come Videla e Massera, il primo comandante dell'esercito e presidente della giunta, il secondo comandante della marina nel “golpe” del 24 marzo 1976, rivali in politica ma alleati nello sterminio di trentamila persone.
Stavolta - come osservava ieri Clarìn - il più diffuso e autorevole quotidiano di Buenos Aires - la proclamazione dello stato d'assedio coincide con la fase più drammatica della democrazia argentina, e del paese, precipitato in una crisi economica senza sbocchi, frutto di egoismi, di errori e di illusioni.
Egoismi ed errori caratterizzano il modello concepito per conto dell'ultima dittatura militare dal superministro Martinez de Hoz, che pur di colpire la classe operaia demolì la già debole industria nazionale abbattendo le barriere doganali, favorendo così le importazioni e ideando per sovramercato un cambio programmato del dollaro che incoraggiò la speculazione finanziaria interna ed estera ed innescò quel processo inflazionistico che insieme con le colossali dimensioni del debito estero costrinse il presidente Alfonsin alle dimissioni anticipate, sostituito dal peronista Menem che l'aveva sconfitto nelle urne.
E con Menem, l'Argentina vive per tre o quattro anni nella grande illusione di avere sanato per sempre i suoi problemi. Il ministro dell'economia Cavallo, uomo per tutte le stagioni, quelle dei militari e del peronismo prima, e fino a ieri di quel presidente De la Rua esponente della destra radicale, suggerisce ed ottiene la convertibilità del peso, la moneta argentina, col dollaro.
Gli ambienti finanziari internazionali applaudono, l'inflazione è sconfitta. Garantire la parità peso-dollaro significa però l'obbligo di battere moneta nazionale solo in misura pari alla quantità di valuta pregiata conservata nelle casse dello Stato.
Il duo Menem-Cavallo soddisfa questa condizione svendendo il paese, privatizzando tutti i servizi pubblici - comunicazioni, energia elettrica, trasporti a favore di imprese straniere pronte ad elargire tangenti.
E' un'operazione truffaldina, con la quale l'Argentina riesce per breve tempo a pagare gli interessi di un debito estero ormai vicino ai 150 miliardi di dollari. Solo per breve tempo.
La sopravvalutazione del peso elevato al valore del dollaro continua a danneggiare le esportazioni.
Il paese entra in recessione, mentre il Fondo monetario esige, come contropartita dei suoi prestiti, condizioni sempre più gravose ed oggettivamente insostenibili.
E così il superministro Cavallo, ricevuti dal parlamento poteri speciali, emette leggi che non richiedono l'approvazione del parlamento.
Riduce del 13 per cento pensioni e salari, si impegna a realizzare il cosiddetto “deficit zero”, a spendere senza far debiti, come dire a bloccare la spesa pubblica, da ultimo interviene sui risparmi, limitando la possibilità di attingere ai conti correnti.
Stato e province stentano a garantire un puntuale pagamento degli stipendi, le multinazionali licenziano, le aziende chiudono, la disoccupazione aumenta, la fame dilaga dalle “villas miserias” - le baraccopoli, alle città.
Contestato dal suo partito rimasto ancora sotto l'influenza di Raul Alfonsin, il presidente De la Rua cerca l'appoggio del suo ex rivale Menem, che reduce dagli arresti domiciliari per l'accusa di corruzione è ricevuto alla Casa Rosada.
Si confrontano due ipotesi: la dollarizzazione, il dollaro come moneta argentina, o la svalutazione. Gli esponenti della finanza, interni ed esterni, e lo stesso peronista Menem spingono per la prima; gli industriali e i latifondisti per la seconda. Ma nessuno dei due provvedimenti, sostengono gli esperti, è in grado di arginare la crisi.
Si arriva, fatalmente, alla rivolta popolare ai saccheggi, ai morti.
E allo stato d'assedio, di cui i giovani si fanno beffa dimostrando davanti alla Casa Rosada.
Amici di Buenos Aires mi rappresentano l'immagine di un paese senza futuro.
«Non chiedeteci altri aiuti», ammonisce da New York il presidente della Banca Mondiale per l'America Latina. E aggiunge il suo portavoce: «Non date la responsabilità di quanto sta accadendo alle organizzazioni internazionali». Che da responsabilità non furono in realtà immuni allorché, nell'epoca d'oro dei petrodollari, offrivano a piene mani i loro prestiti anche alla dittatura militare di Buenos Aires, che non se ne serviva per sostenere l'economia del grande paese.
20 dicembre 2001

Italo Moretti
Roma, 20 dicembre 2001
da "Liberazione"