Alle scuole Diaz di Genova nel luglio 2001, bottiglie molotov false e pestaggi veri

I lati oscuri di un misfatto di Stato

crollato un muro di bugie, bisogna ora accertare le responsabilità

Ora il muro di bugie è crollato. E' una pagina nera nella storia della polizia. Una macchia di fango che si era tentato di coprire fabbricando false prove contro i 93 no global pestati con furia selvaggia nella scuola Diaz durante la notte del 21 luglio 2001.
Un'«azione da macellai» come l'ha definita il vice questore Michelangelo Fournier, vice comandante del reparto antisommossa a cui fu ordinato di compiere il blitz.
Come lui, c'erano altri poliziotti che non sapevano di essere stati mandati a fare un lavoro di macelleria. Ci fu un ispettore della squadra mobile di Roma che un attimo prima di entrare sentì le urla dei pestati e gridò: «Io lì dentro non entro, quel lavoro non lo faccio».
Sulle responsabilità individuali c'è ancora una fitta ombra. C'è un reo confesso, il vice questore Troiani, vice di Valerio Donnini (che comandava la logistica dei reparti mobili ed ebbe in consegna le molotov appena trovate in una strada di Genova). Ha ammesso che fu lui a confezionare la menzogna che le due bottiglie erano spuntate nel cortile della Diaz.

Ma è ancora un mistero perché Troiani si trovasse alla Diaz ed è poco credibile che non abbia avuto alcun suggeritore.
La storia delle bottiglie molotov è strana dall'inizio quando ancora non compare sulla scena Troiani. I servizi di logistica dei reparti mobili di solito non si occupano del trasporto delle bottiglie molotov.
L'autista di Donnini, Michele Burgio, la sera ricevette una telefonata da Troiani, che gli ordinò di portarle alla Diaz. Da quel momento le bottiglie passarono nelle mani di tutti i funzionari che partecipavano all'operazione, e nei verbali fu messo nero su bianco, con sotto 13 firme, che erano state trovate nel cortile della scuola. Per Troiani quello sporco vecchio trucco dei tempi in cui i poliziotti erano chiamati sbirri è imputabile solo a una sua «leggerezza».
Il fatto è che le false prove delle bottiglie molotov e del giubotto di un agente squarciato per far credere che tra i no global ci fossero bombaroli e accoltellatori hanno una spiegazione solo nell'intento di coprire le illegalità commesse dalle forze di polizia nella Diaz. Qui i punti oscuri sono parecchi.
A cominciare dalla versione ufficiale che l'operazione fu motivata dalla segnalazione della presenza nella scuola di individui armati. Se si cercavano armi, i capi dell'Ucigos e dello Sco disponevano a Genova di specialisti in quel tipo di operazioni: uomini delle digos, delle squadre mobili dei reparti anticrimine. Invece, fu catapultato nella Diaz un reparto sperimentale della "Celere" di Roma addestrato a picchiare.

Perché i funzionari di più alto rango presenti a Genova non impedirono o non riuscirono a impedire quel misfatto?
E' difficile credere che il vice capo della polizia Andreassi, il prefetto La Barbera, capo dell'antiterrorismo, e il prefetto Gratteri capo del servizio centrale investigativo, fossero complici, perché le loro storie personali testimoniano grande qualità di investigazione, solidissima professionalità, grande rispetto per le regole democratiche.
Il loro compartamento a Genova dimostra che tutti e tre quella sera furono tormentati da una condizione di incertezza e forse di impotenza.
Andreassi se ne andò a metà della riunione in cui fu decisa la perquisizione alla Diaz e non apparve più; La Barbera, morto la scorsa estate, andò alla Diaz e quandò presentì che la situazione stava per prendere una brutta piega suggerì - così ha dichiarato nell'interrogatorio - al capo del reparto mobile di Roma di bloccare l'irruzione; Gratteri arrivò quando già il peggio era avvenuto e la sua dichiarazione ai magistrati suona come un atto di accusa in primo luogo contro il reparto mobile: «Se dovessi impostare un'indagine su quanto è accaduto alla Diaz, partirei dal dato che a determinare il caos all'interno della scuola potrebbe essere stato qualcuno del reparto mobile o di altri reparti, così come l'episodio dell'accoltellamento simulato possa essere servito a parare l'eccesso di violenza usato nei confronti di alcuni occupanti della Diaz».
La motivazione ufficiale dell'«impotenza» dei funzionari di più alto grado è che, non avendo più la qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria non potevano interferire nella gestione operativa del blitz. E' una spiegazione che non soddisfa completamente perché il loro prestigio valeva più della qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria. E' probabile che la vera gestione dell'affare Diaz sia stata fatta da una rete di intese e di complicità, interna alle forze di polizia, e garantita da sponde politiche.
Dopo l'omicidio Giuliani era impensabile un altro misfatto come l'operazione alla Diaz: poteva essere fatto solo se un forte input politico avesse condizionato gli stessi vertici della Ps presenti a Genova.
Se La Barbera non poté far altro che «consigliare» all'ultimo momento la rinuncia all'operazione è chiaro che aveva le mani impacciate.
Questo lato oscuro del legame tra la politica e i fatti della Diaz può essere chiarito sono con l'inchiesta parlamentare da tempo richiesta da Rifondazione comunista.

Annibale Paloscia
Roma, 8 gennaio 2003
da "Liberazione"