Seminario annuale organizzato dalla rivista ERRE.

Sulla globalizzazione.

Marina di Massa 19 - 21 settembre

La politica e l´economia

  1. Gli anni ´90 sono stati caratterizzati da una serie di fenomeni non nuovi nella storia del sistema capitalistico: un accentuato processo di concentrazione dei capitali, un aumento del commercio mondiale ben oltre l´aumento della produzione, un massiccio flusso d´investimenti in gran parte innovativi, soprattutto nella fase finale del decennio, buoni incrementi, come conseguenza, della produttività.
    La novità è che questi fenomeni si sono concentrati, ma anche questo è già avvenuto in passato, in pochissimi anni: il commercio mondiale, tanto per fare un esempio, dal 1994 al 2000 è cresciuto del 70%. Le privatizzazioni di grandi dimensioni, fenomeno quasi sconosciuto dalla fine della secondo guerra mondiale, sono state negli ultimi quindici anni del secolo scorso più di 2.000 e hanno portato nelle casse degli stati, più o meno, 1.000 miliardi di dollari (i grandi capitali che controllano oggi queste società hanno sborsato cifre irrisorie rispetto al contributo dato dal "popolo" di piccoli risparmiatori) E ancora: le cento più grandi società quotate in borsa, che nel 1995 valevano il 30,4% del totale del valore delle borse mondiali, a metà del 2003 sono arrivate al 42%.
    Tutti fenomeni non nuovi. Unico vero fenomeno nuovo la libera circolazione dei capitali avviata nei primi anni ´80.
    L´insieme di questo processo ha avuto un nome, globalizzazione, e ci pare corretto ascriverlo a precise scelte che hanno caratterizzato prima il governo della Thatcher in Gran Bretagna e poi il primo mandato presidenziale negli Stati Uniti di Ronald Reagan.
    Ciò che voglio dire è che l´economia degli anni `80 e `90 è figlia di qualcuno. Sono stati i principi ispiratori di quei governi alla base delle politiche economiche di quel ventennio e del concentrato di fenomeni che va sotto il nome di globalizzazione.
  2. Ma anche l´economia dei trenta anni gloriosi precedenti è figlia di qualcuno.
    L´economia capitalistica ha vissuto dalla fine della guerra una prima fase di ricostruzione (esclusi, ovviamente, gli USA) e poi un ciclo espansivo senza precedenti nella storia del sistema che si è concluso nei primi anni ´70. Questo ciclo espansivo ha visto crescite del PIL, nei paesi detti oggi avanzati, di oltre il 5%, aumenti salariali legati ad eccezionali aumenti della produttività, una drastica riduzione della disoccupazione. Il periodo ha consentito ampiamente di recuperare i deficit di spesa pubblica cresciuti in misura rilevante durante la guerra. Fra le varie ipotesi sulle ragioni di quella crescita la più convincente ci pare quella che vede centrale non un compromesso fra borghesia e classe operaia quanto un piegarsi della borghesia ad un gestione "riformista" del sistema suggerita da rapporti forza fra le classi sostanzialmente in equilibrio.
    C´era insomma nella borghesia la consapevolezza che gli orrori e le sofferenze della guerra, l´URSS uscita politicamente rafforzata dal conflitto, la liquidazione in gran parte di paesi confinanti con l´URSS del sistema capitalistico, la vittoria della rivoluzione in Cina consigliavano una gestione "riformista" del sistema.
    Alcuni, per definire questa fase, usano il termine fordista, richiamandosi a Ford che, costruendo prodotti per il consumo di massa, riteneva necessario dare ai suoi operai alti salari per soddisfare quei consumi. La nostra interpretazione ci pare più corretta, comunque, qualsiasi definizione va bene, l´importante è intendersi. A disciplinare l´intero sistema una serie di strutture e di regole (la parità aurea del dollaro, il FMI, la Banca Mondiale, il GATT).
  3. Quel sistema "riformista" entra in crisi alla fine degli anni ´60. Una crisi come al solito non dovuta ad una causa ma ad una molteplicità di cause. Il detonatore è la guerra del Vietnam, l´enorme sforzo bellico sostenuto dagli Stati Uniti e scaricato sul mondo che porta il governo USA a far saltare la parità aurea del dollaro: finisce l´epoca, sancita venticinque anni prima, di 35 dollari per un oncia d´oro. La crisi economica, generalizzata al mondo intero del `73-`74 è lo spartiacque fra i trenta anni d´oro del capitalismo e l´inizio di una nuova fase che, per quanto ci riguarda, consideriamo di stagnazione prolungata. La strategia della borghesia per affrontare questa nuova fase non è il frutto di particolari elaborazioni teoriche, di grandi dibattiti ma è il risultato di una sperimentazione sul campo prima del governo britannico della Thatcher poi di quello statunitense di Reagan. I principi ispiratori che emergono sono quelli che la crisi è dovuta agli intralci posti al libero mercato, al ruolo esorbitante dello stato in materia economica, all´eccessiva rigidità della forza lavoro, all´eccessivo ricorso al debito pubblico che, si sostiene, toglie risorse agli investimenti e via dicendo. Le difficoltà in cui viene a trovarsi la sinistra dipendono essenzialmente dalla non comprensione che si è chiusa una fase economica e se n´è aperta un´altra. La scelta della sinistra dei due tempi, prima i sacrifici e poi la ripresa, evidenzia chiaramente come la crisi venga vista come una parentesi, una crisi congiunturale, destinata, prima o poi a chiudersi, e lasciare il posto ad una nuova fase di sviluppo.
  4. Vorrei completare questa mia convinzione sul pragmatismo della borghesia con tre osservazioni: la Thatcher, passata alla storia come la smantellatrice di tutto ciò che è pubblico, vince le sue prime elezioni con un programma che non ha al centro le privatizzazioni. Queste diventano il cavallo di battaglia della Thatcher solo dopo aver assestato una sconfitta storica alla classe operaia inglese. Reagan che fa dell´attacco all´ingerenza dello stato la parola d´ordine del suo programma continua, per tutto il suo mandato, a mantenere altissimi deficit pubblici aumentando, soprattutto, le spese militari. Ma, contemporaneamente, assesta una serie di colpi decisivi alla classe operaia americana. C´è insomma, dietro al liberismo che si afferma, una sconfitta del movimento operaio. E, detto di passata, la situazione non cambia di segno con l´avvento in Gran Bretagna di un governo laburista e negli USA di un presidente democratico visto che hanno proseguito, temperandone in parte gli effetti, le politiche dei governi precedenti.
  5. Per cercare di dare qualche risposta sul futuro dell´economia mondiale è d´obbligo parlare degli Stati Uniti. Negli anni ´90 gli Stati Uniti hanno conosciuto il più lungo periodo di crescita positiva della loro storia. Una crescita sicuramente consistente se rapportata al Giappone, in fase di stagnazione dal 1990, un po´ meno se rapportata all´Europa. Il confronto con l´Europa va fatto, infatti, tenendo conto che negli USA, negli anni ´90, la popolazione è aumentata del 10% contro il 2% dell´Europa per cui quel differenziale dei tassi di crescita si riduce fino quasi ad annullarsi. Le diversità marcate fra Stati Uniti ed Europa negli anni ´90 hanno riguardato le spese degli investimenti e quelle dei consumi; gli investimenti negli USA sono cresciuti ad una media dell´8% l´anno contro una media europea del 3%, i consumi ad una media del 4% contro il 2% in Europa. Tutto questo è stato reso possibile da un afflusso ininterrotto di capitali esteri.
  6. Questo lungo boom americano si è verificato grazie ad una diffusione massiccia della precarizzazione del lavoro, a retribuzioni tenute ferme per anni (solo alla fine degli anni ´90 i salari USA sono tornati ai valori di quindici anni prima), alla liberalizzazione dei capitali e ad una montagna di debiti contratti da famiglie e imprese. Il grande boom della borsa ha fatto il resto (si pensi ai risparmi delle imprese sulle pensioni aziendali). Ci sembra comunque di poter dire che la sconfitta operaia non sarebbe bastata ad una crescita durata quasi un decennio. Quel boom affonda le sue radici, in particolare, nel ruolo economico, politico e, anche, militare degli Stati Uniti nel mondo. Gli squilibri che ha prodotto quel boom possono permetterseli, nel mondo, solo gli Stati Uniti. Uno per tutti: gli Stati Uniti sono oggi il paese più indebitato del mondo per una cifra pari a 2.300 miliardi di dollari dopo essere stati fino al 1989 sempre creditori netti. La cifra supera nettamente i debiti di tutti paesi del mondo messi assieme. Per concludere: quel decennio eccellente il capitalismo USA lo ha costruito sconfiggendo la sua classe operaia e rastrellando capitali in tutto il mondo.
  7. Io penso si possa dire che la globalizzazione, intesa come insieme di fatti economici di portata straordinaria, si sia esaurita nel periodo che va dalla crisi delle borse della nuova economia del marzo 2000 e il crollo delle borse dei titoli tradizionali dell´anno successivo. E non dico questo solo perché sono riapparse, in molti paesi, chiare tendenze protezionistiche. Il crollo delle borse non è stato indolore: negli USA sono spariti 5.000 miliardi di dollari, virtuali ma fino ad un certo punto (altrettanti erano spariti in Giappone un decennio prima), in Gran Bretagna 1000, in Italia si sono volatilizzati "solo" 500 miliardi di dollari (trenta volte il valore della Finanziaria che sta preparando il governo Berlusconi). Ma non sono andati in fumo solo soldi: lo scoppio della bolla è stato accompagnato, come sempre, da fallimenti e crolli improvvisi di grandi imprese, da una valanga di scandali nei quali sono state coinvolte banche, storiche società garanti della correttezza dei bilanci, società nel ghota dell´economia mondiale. Per di più è venuto fuori chiaramente come decine di migliaia di top manager, grazie alla nuova invenzione delle stock option, abbiano fatto solo ed esclusivamente gli interessi propri fregandosene altamente degli interessi delle imprese che avevano in gestione e, quindi, truffando gli azionisti. Il crollo delle borse, dell´economia, le truffe hanno assestato un colpo decisivo al pensiero unico, all´ideologia dominante e hanno aperto una profonda crisi di credibilità nel sistema. Si può dire che la manifestazione di Seattle, che ha aperto il ciclo di un movimento di contestazione di portata mondiale, ha "sentito" in anticipo che quel ciclo economico stava arrivando al capolinea. E così sono naufragate dalla sera alla mattina propaggini del pensiero unico come la fine della storia, la fine del lavoro, la fine delle crisi economiche, la fine degli stati nazionali.
  8. Se noi esaminiamo alcuni dei principali fenomeni che hanno caratterizzato la fase della globalizzazione, negli anni precedenti lo scoppio delle bolle delle borse, e ciò che è avvenuto da allora ad oggi, possiamo renderci conto delle difficoltà in cui naviga la situazione economica. I flussi degli investimenti diretti esteri, eseguiti per lo più da multinazionali, sono cresciuti ininterrottamente in dieci anni da 100 miliardi di dollari a 1.600 per scendere del 40% nel 2001 e di un altro 21% nel 2002. Le previsioni dicono che nel 2003 "il flusso dovrebbe stabilizzarsi"; al ribasso naturalmente. Il commercio mondiale, nel 2001, ha conosciuto la prima flessione dal 1982. I valori del 2002 e quelli previsti per quest´anno si possono definire stagnanti. Dopo un decennio di crescita degli investimenti a ritmi straordinari, soprattutto nel quinquennio `95-2000, nel 2001 si è avuto il primo dato negativo e gli investimenti continuano ad essere stagnanti. La privatizzazioni dei primi sei mesi del 2003 nel mondo hanno fatto registrare il valore della vendita del primo pezzo dell´ENEL, in Italia, del 1999. Analogo il crollo delle fusioni e acquisizioni. Oggi si fanno solo quelle delle imprese prese alla gola. Su privatizzazioni e fusioni e acquisizioni chiaro che ha inciso, in misura decisiva, il crollo delle borse.
  9. Eppure, nonostante questa inversione di rotta il sistema continua a reggere. Si moltiplicano le preoccupazioni di autorevoli economisti di solito non usi al catastrofismo, uno su tutti Sylos Labini, che paventano una nuova Grande Depressione tipo anni ´30. Ma il sistema, per ora, regge. Regge perché regge il centro del mondo, gli Stati Uniti. L´abbiamo già detto il lungo boom americano degli anni ´90 si è verificato grazie anche ad un aumento consistente dei debiti contratti da famiglie, imprese e società finanziarie. La crisi del 2001 ha aperto un altro fronte: anche lo stato ha ricominciato a indebitarsi. Se mettiamo assieme tutti questi debiti la loro somma supera, oggi, di tre volte il PIL di un anno: 30 mila miliardi di dollari. Dieci anni fa era 2,2 volte il PIL; venti anni fa una volta e mezzo.
    I primi segnali di crisi dell´economia sono stati affrontati dal governo Bush con grande pragmatismo: lo stato ha cominciato a immettere sul mercato, nelle più diverse forme, una quantità crescente di denaro: quest´anno raggiungerà il 6-7% del PIL (l´equivalente del PIL del Messico), mentre la Federal reserve, che non vive certo sulla luna, ha attuato la più massiccia riduzione del costo del denaro della storia USA. Mai nella storia degli Stati Uniti era stato immesso tanto denaro nel funzionamento dell´economia da parte dello stato (esclusa il periodo della seconda guerra mondiale), mai erano state create condizioni più favorevoli per avere soldi in prestito. L´operazione dei tassi è stata condotta da Greespan con straordinaria abilità perché ha consentito il mantenimento dei consumi delle famiglie, soprattutto quelle più colpite dal crollo delle borse, alle quali sono stati offerti generosi sgravi fiscali e la possibilità, grazie ad un aumento dei prezzi delle abitazioni, di nuovi mutui a tassi particolarmente favorevoli.
  10. Se noi vogliamo avere una misura della pericolosità della situazione è sufficiente guardare il deficit commerciale degli Stati Uniti: il passivo commerciale USA è passato, senza soluzioni di continuità, dai 200 miliardi di dollari del 1997 ai 530 miliardi di dollari di oggi. Tornare ad un bilancia commerciale in pareggio, e alla fine questo dovrà avvenire, vorrebbe dire mettere in ginocchio le economie di non pochi paesi asiatici e anche europei. I quali diventano, per forza o per amore, complici di tutto quel che viene deciso per mantenere un alto livello di consumi dei cittadini USA. Non voglio allargare il campo di questa mia relazione ma la guerra preventiva di Bush non può essere considerata slegata dall´attuale situazione economica americana. Oggi solo sul terreno militare gli Stati Uniti non hanno rivali nel mondo.
  11. Penso sia difficile fare previsioni sul futuro dell´economia mondiale. Nessuno può escludere, ad esempio, una crisi finanziaria con effetti devastanti: dovesse sgonfiarsi la bolla immobiliare americana, e non fosse possibile gestirla, sarebbe un disastro. Forse, più utili di previsioni ad alto margine di rischio, conviene qualche riflessione di carattere generale.
    Personalmente credo abbiano ragione quei commentatori che non ritengono possibile un ripetersi della crisi degli anni ´30. Questo perchè negli anni ´30 la spesa pubblica rappresentava, nella media dei paesi oggi definiti avanzati, il 20% del PIL mentre oggi è prossima al 50%. Per cui il crollo della domanda può essere gestito meglio. Se però le spinte al protezionismo, che emergono con sempre maggior insistenza, dovessero dare il via all´adozione di barriere doganali da parte di alcuni stati importanti (si pensi allo scontro sull´acciaio fra USA ed Europa), i pericoli di una crisi tipo anni ´30 diventerebbero maggiori. Anche perché il meccanismo delle ritorsioni a catena è micidiale.
    Se viene evitato il protezionismo diventa un futuro probabile il ...passato del Giappone negli anni ´90 (che registra solo oggi, dopo dodici anni, qualche incerto segnale di ripresa).
    Per quanto ci riguarda, da un punto di vista politico, credo che la cosa migliore da fare sia quella di cercare di rispondere ad alcune precise domande: se è vero quel che abbiamo detto, che cioè sono stati i rapporti di forza fra le classi a determinare gli assi della politica economica delle varie fase dell´ultimo secolo è ovvio che solo se cambiano questi rapporti si può pensare ad una politica che non abbia nel mirino sempre e solo le retribuzioni, i diritti di chi lavora, il welfare state.
    Fra l´altro, detto di passata, solo rapporti di forza diversi dagli attuali possono far mettere all´ordine del giorno interessi universali (intendiamo quelli legati alle questioni ambientali ma non solo) dei quali la ricerca del massimo profitto, per definizione, non può farsi carico.
    Altra domanda cruciale alla quale dobbiamo rispondere è se è vero, come viene detto da più parti, che il liberismo, inteso come strumento di gestione dell´economia, sia in crisi.
    A me non pare in crisi nel senso che il liberismo coi suoi attacchi continui alle condizioni di lavoro, alle condizioni di vita, al welfare state, in altre parole, coi suoi attacchi continui alla classe operaia (nuova), resta strumento insostituibile della borghesia. Quello che è in crisi, caso mai, è la possibilità di un liberismo temperato, la politica dei due tempi, insomma, la terza via.
    Per questo le proposte keynesiane, del Keynes di sinistra, come quella fatta da Cavallaro su il Manifesto, che riprende una analoga proposta fatta tre anni fa sulla rivista de il Manifesto, hanno scarse possibilità non solo di essere praticate ma anche di aprire un dibattito.
    Credo che Magri nel suo ultimo articolo sulla rivista de il Manifesto abbia ragione: forzandone, ma non troppo, il senso, si potrebbe dire che solo la conquista di rapporti di forza che potrebbero consentire la rivoluzione potrebbero imporre, oggi, il liberismo temperato.
Gianni Rigacci
Massa Carrara, 18 settembre 2003
da "Bandiera Rossa News"