Intervista all'economista Christian Marazzi
«La crisi è quella della globalizzazione»

Per cominciare ad interrogare anche la critica dell'economia sugli scenari che si sono aperti con la tragica giornata di martedì 11, abbiamo raggiunto telefonicamente, nella sua Bellinzona, in Svizzera, Christian Marazzi, importante ed originale analista della globalizzazione e della cosiddetta new economy.

Marazzi, si dice che con le stragi delle Twin Towers di New York e del Pentagono di Washington si sia aperta una crisi economica globale. Cosa rivela realmente la distruzione del World Trade Center? E la crisi ne consegue o non era, piuttosto, lo sfondo?

Queste stragi svelano una faccia nascosta ma pur sempre una dimensione fondamentale della globalizzazione della new economy. Voglio dire che bisogna leggere questa tragedia come inscritta nella dinamica stessa del ciclo come anche della crisi della new economy: questo è possibile intendendola senza fermarsi agli aspetti incarnati dalla Silicon Walley o dal Nasdaq, ma badando alla sua architettura mondiale. In questa luce, la new economy appare come l'ingresso d'una capacità tecnologica e scientifica senza precedenti nella struttura dell'accumulazione capitalistica, dopo la battaglia combattuta e vinta contro la classe operaia fordista, e in cui l'intelligenza sociale viva incrocia i flussi finanziari mondiali e così conosce la prima forma di imprenditorializzazione dell'“intelletto generale”.

E' questa novità ad aver mosso il ciclo di crescita alle nostre spalle?

E' soprattutto questa nuova realtà produttiva che nel nuovo ciclo ha visto in azione, sul lato dell'offerta, la “legge dei rendimenti crescenti”: il general intellect è molto potente in quanto funziona sul linguaggio e sulla comunicazione e dunque su una capacità di moltiplicare le possibilità di espansione dell'offerta.

Dove si situano, allora, le ragioni d'una crisi già segnalata da molti mesi?

Nel fatto che quell'offerta si è scontrata con la domanda umana, ossia con la capacità di assorbire l'offerta incredibile di beni informazionali, sia di consumo che strumentali, così prodotta. Faccio un esempio: di tutta la rete mondiale di fibre ottiche che è stata prodotta in questi anni, è utilizzato oggi solo il 2 per cento. E il Financial Times ha calcolato che se tutta la popolazione mondiale dovesse telefonare ininterrottamente per un anno intero, ebbene la quantità di parole complessivamente pronunciate sarebbe trasmittibile dalla rete di fibre ottiche in poche ore. Il divario è evidente.

Il sistema però si è posto il problema...

Quella che infatti è andata in crisi è l'ipotesi della cosiddetta attention economy, in cui i beni prodotti e offerti richiedono un “tempo d'attenzione dei consumatori” perché riescano ad adattarvisi ed assorbili. Ma questo tempo è ridotto dalla costrizione a dedicare tempo alla ricerca di salario, di reddito, di mezzi per soddisfare i bisogni primari, in una condizione di penuria sociale indotta dalle politiche neoliberiste.

Torniamo a martedì 11: che connessione c'è con la dinamica che ha descritto? Qual è l'architettura che si è rivelata?

La new economy è entrata in crisi nel marzo 2000. Con il cambio dell'amministrazione Usa si è registrata, proprio per la gestione della crisi, una scelta tattica di Bush: se n'è infischiato del resto del mondo, ha negato tutto quanto era stato costruito in termini di equilibri internazionali e di politica del dollaro, ha tentato insomma di mostrare i muscoli nella movenza d'una chiusura. Prendiamo lo scacchiere mediorientale, cruciale per spiegare l'accelerazione precipitata martedì: la scelta di non intervenire su Israele ha avvicinato l'Olp alla Siria, un fatto inedito, e ad una Siria che con Bashar lo accetta anzitutto per problemi interni ma al contempo operando una rottura coi fondamentalisti, che sono indotti a mobilitarsi. Come si vede l'architettura della globalizzazione della new economy e la sua crisi, semplicemente, comprendono anche i rapporti politici e ne sono interdipendenti.

In quest'interdipendenza, non vi sono sequenze economiche immediatamente percepibili?

Un aspetto cruciale è il petrolio. Il greggio ha conosciuto fino a giugno di quest'anno un sostanziale aumento del prezzo per barile e poi ha avuto un crollo a fine giugno: è accaduto che l'asse tra Usa e Russia ha portato ad un'immissione nel mercato di una quantità di petrolio che l'Opec ha controbilanciato. Quell'asse contribuisce ad inquietare gli altri paesi produttori. D'altronde, ricordo che il primo atacco alle Twin Towers è del 1993, altra momento di crisi con l'Opec e di emersione d'una crisi finanziaria: ma anche stavolta i servizi Usa hanno dato prova di muoversi con l'occhio a quadranti di crisi inattuali, dal momento che la prima sede evacuata è stata quella dell'Argentina...

Adesso accade che la Federal Reserve venga assediata da richieste di intervento sull'emergenza, e che finanzi le immissioni di liquidità della Banca centrale europea: non è in contraddizione con la tendenza Usa a gestire fin qui la crisi sfruttandola ai danni dell'Ue? Siamo ad un compattamento su una gestione bellica della crisi?

Bush, che nei primi mesi dell'amministrazione ha ostentato autarchia, è adesso lì a pregare che Duisenberg collabori, e quasi gli stampa carta moneta. Lasciami fare una considerazione: si vede bene che non esiste più una struttura imperialistca nel senso, per esempio, di un rapporto lineare di causa-effetto tra centro e periferia. Mi pare ci sia, piuttusto, una circolarità nei rapporti: il centro è nella periferia e viceversa, l'avevamo già visto nel post-fordismo ora lo vediamo nella politica, fin dentro la dinamica della strage. Il problema è che anche la guerra, di cui si accumulano gli annunci, non è possibile intenderla in senso tradizionale: si tratta invece di reinventare reinventa la politica a livello dell'Impero. Al contempo, si devono fare i conti con un quadro in cui domina un'amministrazione Usa con gli interessi poetroliferi che sappiamo: tra parentesi, i giacimenti russi sono già in mano delle multinazionali statunitensi. E Chossudowsky ha ricordato cosa c'è dietro il conflitto in Macedonia, lo scontro sulla pipeline 3 tra un consorzio Usa ed uno europeo.

Pensi che stia arrivando un governo della crisi attraverso la guerra? Può essere un orizzonte del capitale?

Lo ipotizzo: ma quel che mi perplime è che il surplus attualmente accumulato è più immateriale che materiale, mentre la guerra si è incaricata sempre di “bruciare” quello del secondo tipo. E allora, per dirla in una battuta, per far funzionare il sistema dovremmo distruggere il tempo di lavoro che limita il “tempo d'attenzione”: questo non può farlo certo il capitale, può incaricarsene solo il movimento globale.

Anubi D'Avossa Lussurgiu
15 settembre 2001
da "Liberazione"