se non è possibile definire il “movimento di Genova”...

...PRIMI APPUNTI SUL MOVIMENTO

Per fortuna non è ancora possibile racchiudere in una definizione precisa quello che oggi chiamiamo “movimento di Genova”, e che domani chissà come chiameremo. Si tratta di una realtà ancora in formazione, che ad ogni importante appuntamento mostra tratti differenti e procede, almeno in parte, acquisendo di volta in volta contenuti e problemi più ricchi ed ampi. Oggi è possibile solo fermare alcune istantanee, di cui deve essere chiaro il carattere provvisorio e, almeno in parte, arbitrario; istantanee comunque utili a renderci consapevoli di quel che succede e ad orientare la nostra iniziativa.

Procederò quindi, in maniera disordinata, rilevando alcuni aspetti del movimento e  sollevando, per ciascuno di essi, alcune questioni teoriche e pratiche, questioni che a volte sono nuove e a volte sono variazioni di temi ricorrenti nelle esperienze di emancipazione collettiva.

Frontiere e spostamenti.

Va rilevato, prima di tutto, che siamo di fronte ad un movimento immediatamente mondiale. Dicendo che è immediatamente mondiale intendo dire che - pur se è costituito in gran parte da gruppi di origine locale - esso ha trovato finora un carattere unitario ed una convergenza soprattutto su obiettivi aventi scala planetaria: la contestazione dei vertici, l’annullamento del debito, la tassazione delle transazioni finanziarie e così via. In ciò esso è diverso da quasi tutti i precedenti movimenti internazionali perché questi o erano espressione di organizzazioni che avevano la loro autonoma e decisiva sfera d’azione a livello locale, oppure erano comunque indirizzati verso un’obiettivo avente valenza generale ma precisamente localizzato: per esempio, la cessazione della guerra nel Viet-Nam. Questo carattere immediatamente mondiale è un tratto genetico costitutivo del movimento e quindi non verrà meno neanche se la globalizzazione dovesse invertire la sua (apparente) marcia verso  l’integrazione di tutte le economie e le società del pianeta,  e se dovesse tornare in auge il nazionalismo. La persistenza di questo carattere genetico dovrebbe essere preservata anche in questo caso: sarebbe infatti la necessaria precondizione di ogni significativa politica antimperialista ed antibellicista.

Già da molti segnali, peraltro, si nota come il  movimento stia stretto in questa definizione, se posso dir così, “ puramente mondiale”, così come, d’altra parte, il mondo sta stretto in una visione secondo la quale gli unici centri decisivi sarebbero  gli organismi transnazionali. E’ paradossale che si accolga di fatto una visione del genere proprio in un’ epoca che suona costantemente l’inno della complessità e che giustamente sostiene che è impossibile una pur parziale regolazione,  se questa è affidata solo a pochi centri nevralgici. Non voglio intervenire, in questa sede, sul problema della precisa definizione della fase attuale (globalizzazione o imperialismo?). Voglio solo far notare come la globalizzazione (sia essa il fenomeno dominante, o sia il risultato momentaneo di una serie di strategie imperialiste) si è mossa creando non solo spazi sovranazionali, ma anche spazi subnazionali (le regioni) ed usando comunque gli stati nazionali come snodi assai rilevanti di un’insieme di politiche significative.  Ciascuno di questi tre luoghi contiene centri decisionali influenti ed influenzabili, e la vita di ognuno di noi dipende dall'insieme delle decisioni di questi centri, ed in particolare da quelle del centro attualmente dominante, gli USA. Il movimento, quindi, dovrebbe (come in parte già fa) intervenire proprio su questo insieme, sia spostando  la lotta dallo spazio locale a quello globale, sia  procedendo in senso inverso, ammassando cioè su vertenze locali la forza accumulata a livello globale.

Insomma, mi sembra che sia limitativo parlare di globalizzazione delle lotte: la nozione decisiva mi pare piuttosto quella di spostamento (bidirezionale) delle lotte. L’attuazione di questo spostamento (che è arricchimento sia della lotta globale che di quella locale) sarebbe un grande passo avanti per tutto il movimento, che ne guadagnerebbe in ampiezza, efficacia e radicamento.

La considerazione appena esposta induce a formulare un’ipotesi sulla dimensione spaziale e temporale della nostra politica. Poiché il vero problema non è "semplicemente" la lotta agli organismi sovranazionali, ma la lotta ad un’ articolazione di poteri,  il vero spazio significativo dell’azione non è “il mondo”, ma il passaggio tra l’una  l’altra di queste zone di potere: è  la frontiera1, o meglio è lo spazio immediatamente al di qua ed al di là di essa, la distanza  che deve essere superata per situare le lotte locali a livello globale e viceversa. Ed il tempo è quello necessario all’attraversamento d’una frontiera che, a ben vedere, non è solo una linea da oltrepassare, ma un’insieme di condizioni politiche e culturali da trasformare. Un soggetto politico è pienamente tale, oggi, solo se è capace di attraversare in un senso e nell’altro la frontiera, lavorando sul suo spessore. Qualunque classe o gruppo politico che non si proietti immediatamente fuori dai propri confini locali è destinato ad un ruolo subalterno, così come, d'altra parte, un movimento che fosse puramente sovranazionale avrebbe uno scarso radicamento.

L’importanza della frontiera e del suo difficile attraversamento ci dice, fra l’altro, che la velocità di trasferimento dell’informazione – o, meglio, del dato – non può essere presa a paradigma dell’azione politica. La stessa vera informazione non si identifica col dato, ma col processo (tutt’altro che semplice) di codificazione/decodificazione del dato: a maggior ragione la politica, che è attraversamento e riattraversamento di spessori sociali e culturali, non può avere  il tempo dell’istante, ma, come vedremo, deve darsi il tempo della costruzione.

Un’altra importante conseguenza del carattere immediatamente mondiale del movimento sul tempo dell’azione politica è la fine dell’illusione del carattere lineare del tempo stesso, la fine dell’illusione secondo cui il presente (e per di più un presente appiattito sull'attualità) è la chiave per la comprensione del passato e secondo cui gli ultimi soggetti apparsi sulla scena della storia sono – sempre e comunque - quelli decisivi per l’azione 2 .  Il movimento immediatamente mondiale, intersecando esperienze appartenenti a formazioni sociali che, astrattamente parlando, si situano a diversi livelli di sviluppo, rende contemporanei soggetti "ultramoderni" (come i nuovi strati di lavoratori dell’informazione), soggetti dell’"età di mezzo" (come i classici lavoratori fordisti) e soggetti "arcaici" (come i contadini). Il presente del movimento è dunque un presente denso di richiami al futuro ed al passato. Un presente in cui il futuro irrompe con la capacità di gestione alternativa dei media ed il passato si situa immediatamente all’altezza dei problemi dell’oggi col riemergere di forti organizzazioni contadine che, culturalmente, rileggono la tecnologia e la scienza moderna a partire dalla difesa della base elementare della vita umana e, politicamente, ricoprono spesso un ruolo d’avanguardia nella radicalizzazione del movimento. L’estenuata ed estenuante discussione europea sulla natura del “soggetto rivoluzionario”, spesso risolta nella rituale elencazione sociologica delle nuove figure via via prodotte dallo sviluppo capitalistico, ci appare ora come l’ultimo atto del novecento e non come il preludio del nuovo millennio. Ma su questo ritornerò.

Concludo queste prime riflessioni facendo notare come il movimento, proprio per la sua caratteristica immediatamente mondiale, può contenere e difatti contiene al suo interno anche singoli stati, o singole importanti amministrazioni locali. Si pensi al ruolo di Cuba e del Sudafrica nell'iniziativa contro la criminale politica dei prezzi delle imprese farmaceutiche. Si pensi al ruolo dello stato brasiliano di Rio Grande do Sul e dell'amministrazione di Porto Alegre. Converrà in seguito soffermarsi su questo fatto, perché la presenza di stati come parti attive del movimento comporta di fatto una strategia che non può essere definita semplicemente come "globalizzazione dal basso", sia perché un elemento "nazionalista" torna ad avere importanza, sia perché gli attori della politica non sono più identificabili solo nelle "associazioni di base", ma comprendono, nel bene e nel male, strutture politiche molto forti. Nel bene, perché ciò comporta maggiori risorse e maggiori capacità di impatto per il movimento, nel male perché non si possono evitare eventuali conflitti e condizionamenti. E non si possono evitare soprattutto se si finge che questo problema non esista e che, ad esempio, momenti importantissimi e di segno estremamente positivo come i forum di Porto Alegre, non risentano anche, in qualche misura, delle (diversificate) strategie presenti nel PT e nella sinistra brasiliana, finalizzate alla auspicata conquista della presidenza di quella repubblica.

Lotta e costruzione.

Altro significativo aspetto del movimento è la forte presenza, in esso, di organismi che associano capacità specialistiche e capacità operative, competenze scientifiche e competenze di lavoro  nel campo della tessitura di rapporti sociali.

Credo che l’importanza di questo fatto non sarà mai sottolineata abbastanza.

Essa deriva dal ruolo fondamentale che la scienza e la tecnologia hanno nella costituzione del potere moderno, e quindi, per opposizione, dall’importanza dell’esistenza di specialismi critici ed alternativi , ossia di “portatori di sapere” che agiscono politicamente non semplicemente aderendo a questa o quella organizzazione, ma piuttosto ridiscutendo dall’interno la struttura e la funzione della propria disciplina. Smontare un sapere o una tecnologia, mostrarne il carattere intrinsecamente capitalistico, ricostruirla e modificarla all’interno di un processo di socializzazione delle conoscenze: tutto questo costituisce uno snodo essenziale dell'emancipazione.

La stessa cosa può essere detta in altro modo: il potere capitalistico si esercita soprattutto attraverso processi di lavoro (i vincoli giuridici o, all’opposto, le sottili coercizioni simbolico/mediatiche sono, a mio avviso, tratti importanti ma secondari). Questi processi di lavoro (che non riguardano solo la produzione di "beni", ma investono la maggior parte delle attività sociali più importanti: la cultura, l'amministrazione, i servizi, la stessa politica, l'attività domestica di riproduzione…) sono tutti processi di produzione di rapporti sociali, e solo intervenendo a questo livello, ossia costruendo in tutti i campi processi di lavoro alternativi, è possibile dar vita a relazioni sociali diverse. Che il movimento abbia al proprio interno, immediatamente, come “atomi” costitutivi, numerose strutture di lavoro, fa sperare che esso possa impostare positivamente questo problema decisivo della lotta al capitalismo che è, peraltro, l’aspetto attuale d’un problema generale della pratica politica che credo sia necessario esporre per sommi capi.

Tutta la pratica politica si svolge fra due poli, sempre compresenti: il polo della lotta (dominato dalla logica amico/nemico, dai rapporti di forza) ed il polo della costruzione di norme (dominato dalla logica consensuale-cooperativa). E quando parlo di norme intendo riferirmi sia alle leggi sia – per quanto riguarda il potere moderno – alle “regolarità” costituite da determinati processi di lavoro. I due aspetti, ripeto, sono sempre compresenti: la lotta, soprattutto in epoca moderna, viene condotta da organismi di lavoro regolati da norme; d'altra parte la norma legale è un momento solidificato e formalizzato d’un rapporto di forze, mentre la regolarità del lavoro, in particolare nel capitalismo, è tutta pervasa dalla necessità di aumentare la forza dei dominanti..

Questi aspetti compresenti devono però essere rigorosamente distinti sul piano analitico, perché la loro distinzione è parallela a quella – importantissima – tra rapporti di forza e rapporti sociali fondamentali. Le due cose, rapporti di forza e rapporti sociali, non sono identiche, giacché sono dominate da logiche diverse, dalla "guerra" gli uni dal "lavoro" gli altri. Mutare i rapporti di forza , tra “noi” e “loro”, è cosa che richiede tecniche particolari  (“militari” in senso lato) ed è relativamente meno difficile del mutare i rapporti sociali, cosa che richiede tecniche diverse (“lavorative” in senso lato) che agiscono su una materia sociale più "densa", pesante e resistente.

Uno dei più gravi errori dei movimenti di emancipazione, e non solo di quelli comunisti, è stato quello di confondere i due piani ed in particolare di credere di poter ridurre i rapporti sociali a rapporti di forza, leggendo così vittorie politico/militari come trasformazioni radicali dei rapporti sociali. Questo problema si presenta anche oggi. Si fa un gran parlare di superamento della logica militare ma non si capisce che la “guerriglia semiologia”, o la lotta simbolica, o la stessa disobbedienza civile non violenta si situano pur sempre al livello dei rapporti di forza e non modificano immediatamente i rapporti sociali e le dense gerarchie di sapere/potere che li innervano (anche se possono comportare un'inizio di modificazione giacché modificano la cultura dei subalterni).

La struttura “lavorativa” di gran parte delle associazioni che partecipano al movimento, lo ripeto, offre una buona possibilità per evitare il ripetersi di questa confusione. Ma ciò dipende sia, ovviamente, dalla interna qualità del lavoro che in esse si svolge, sia dalla chiarezza teorica che, su questo punto, è davvero essenziale.

Anche il  movimento degli anni ’70 era, agli inizi, impregnato di specialismi e processi di lavoro alternativi (si pensi a Medicina democratica o a Psichiatria democratica, si pensi all’iniziativa di molti consigli di fabbrica in tema di organizzazione del lavoro) che hanno creato esperienze importantissime ed hanno gettato il seme di molti degli sviluppi attuali. Ma tutto ciò fu prontamente riassorbito dall’altra logica: il patrimonio fu disperso ed anche per questo la sconfitta fu più dura.

Tutto quello che ho appena detto consente, forse, di fare un passo avanti nell'impostazione del problema del rapporto tra violenza e non violenza. Attenendoci alla distinzione tra logica "militare" e logica "cooperativa" si può dire che un movimento che concepisca la politica soprattutto come rapporto di forza, anche se non accede alla vera e propria violenza fisica, è violento in sé stesso perché identifica la trasformazione dei rapporti sociali con l'attività di coercizione. Invece, un movimento che concepisca la politica come costruzione, e che nel suo periodo di formazione (quando si fissano i tratti costitutivi di qualunque soggetto) coltivi esclusivamente pratiche non violente, anche se dovesse far ricorso (quando l'avversario si legittimi soprattutto attraverso la forza ed usi la forza come strumento privilegiato) ad azioni violente, non muterebbe immediatamente solo per questo il suo carattere genetico, e cioè la sua capacità di affrontare la trasformazione dei rapporti sociali secondo una logica cooperativa.

Individui multilaterali

Iniziamo ora ad affrontare la questione della pluralità dei soggetti che partecipano al movimento.

Per prima cosa, e parlando in  termini ancora generici, va sottolineato il carattere multilaterale della critica al capitalismo espressa da questo movimento.  Alla tradizionale critica operaia si affianca quella delle donne e delle differenze sessuali, quella ambientalista, quella dei portatori di sapere, quella delle culture minacciate di estinzione, quella del pacifismo, quella delle associazioni di intervento sociale ed altre ancora. Queste diverse impostazioni si affiancano, per ora, senza una precisa gerarchia, in un’ambiente che sottolinea, se posso esprimermi così, la pari dignità culturale di tutti gli approcci critici. Barriere che avevano resistito per decenni si sbriciolano di giorno i giorno, linguaggi e stili di lavoro si contaminano in una direzione e verso esiti che nessuno può ancora immaginare. I custodi delle diverse ortodossie non possono che vedere con timore questa confusione, che minaccia il loro patrimonio di competenze tecnico-linguistiche, il loro monopolio di sapere e potere che adesso si mostra insufficiente a gestire la formazione di una nuova koinè. Chi invece ha quantomeno iniziato a fare i conti con la propria ortodossia non può che salutare con gioia un disordine creativo che potrebbe mettere capo ad un nuovo tipo umano (non all’”uomo nuovo” di staliniana memoria, ma ad una individualità potenzialmente più ricca e più capace di adattamento all’ambiente).

Questa pari dignità culturale non significa che non vi siano o non vi possano o debbano essere delle gerarchie politiche tra i diversi approcci: essa è però il presupposto per far sì che tali gerarchie siano mobili e non ossificate, e che il “tono” del concreto movimento sociale sia dato ora dall’una ed ora dall’altra  di queste impostazioni.

Chi fosse preoccupato della conformità di questa pluralità culturale al dettato marxiano, dovrebbe riflettere sul fatto che una delle linee di ricerca abbozzate da Marx nella preparazione del Capitale, e leggibili nei Grundrisse, prevede un processo rivoluzionario che non ha al suo centro tanto o solo il produttore immediato, considerato come elemento interno al processo produttivo, quanto un individuo sociale che si pone accanto ad un processo produttivo sempre più automatizzato, e che interviene su questo processo con le conoscenze ed i bisogni accumulati in forza del crescente sviluppo della società: le sue conoscenze ed i suoi bisogni di individuo multilaterale, che entrano in conflitto con la logica del capitale. Inoltre, accanto al contrasto fra questo individuo – pur sempre produttore – ed il processo capitalistico, c’è il contrasto tra questo processo e tutte quelle forze di cui esso tenta di appropriarsi gratuitamente: non solo il lavoro cooperativo diretto, ma anche la natura e il general intellect (ossia il sapere scientifico-tecnico) nonché, potremmo aggiungere noi, il lavoro di riproduzione “familiare” e quello di ricostruzione dei nessi sociali. Se Marx, nel Capitale, ci offre un modello di rivoluzione il cui soggetto è semplicemente l’unione dei produttori diretti (ossia interni alla produzione), ciò avviene, credo, perché l’effettiva trasformazione del modo di produzione capitalistico non può non passare attraverso la rottura del rapporto di lavoro salariato. Ma ciò non può indurci né ad isterilire la ricchezza delle contraddizioni a cui il capitalismo dà luogo, né a credere che sempre e soltanto il produttore diretto sia il perno politico della trasformazione. La scintilla della formazione di un soggetto rivoluzionario può scaturire da tutti i pori della società del capitale: può prendere la forma dell’ambientalismo, della rivolta del sapere, del radicalizzarsi delle donne o dei “lavoratori sociali”, anche se è necessario che l'energia scaturita da queste contraddizioni attraversi anche il luogo in cui avviene in maniera più regolare e persistente l’erogazione del pluslavoro 3 .

Il problema della ricomposizione dei diversi aspetti possibili di un soggetto rivoluzionario assume così due forme distinte.

In primo luogo si tratta di valorizzare le diverse esperienze ed i diversi bisogni del lavoratore subalterno, ossia di considerarlo come individuo multilaterale che può radicalizzare la propria posizione sia in quanto produttore, sia in quanto soggetto di altre contraddizioni derivanti dal suo generico essere individuo sociale. Si tratta quindi di costruire luoghi politico-associativi dove ciascuno di questi lati possa trovare espressione e fondersi in una massa critica. Ciò vuol dire, insomma, che il movimento del lavoro deve essere ricostruito a partire dalla figura del lavoratore quale individuo multilaterale, deve essere ricostruito come insieme di istituzioni capaci di esercitare influenza non solo nella produzione (cosa di per sé già difficile) ma anche negli altri ambiti vitali. Solo un movimento operaio di questo tipo può non soltanto dialogare col "movimento di Genova", ma riprendere il cammino di una critica radicale ed efficace al capitalismo. Del resto, le avvisaglie della limitatezza non solo politica delle attuali forme sindacali di rappresentanza già ci sono. La massiccia presenza di lavoratori e lavoratrici alle iniziative del nuovo movimento (e non sto parlando qui della - limitata ma importante - partecipazione sindacale, ma proprio della partecipazione individuale) indica non solo una specie di "spostamento" di un conflitto di classe che è oggi politicamente difficile esprimere nel luogo apparentemente più naturale (la produzione), ma anche la scoperta o la rivendicazione di contenuti più complessi sui quali costruire la propria identità conflittuale. Preludio, forse, di una nuova figura del "proletario".

In secondo luogo si tratta di costruire un'alleanza e forse anche un'associazione tra soggetti che affrontano tipi diversi di contraddizioni, e che hanno anche una funzione ed una posizione sociale distinta. La differenza tra tematiche del lavoro, dell'ambiente, dell' intervento sociale etc. non è solo una differenza tra oggetti del pensiero: spesso rimanda a differenze tra i tipi di lavoro che  sono impegnati nella gestione effettiva delle diverse "aree": il lavoro salariato e subalterno classico, quello atipico, il lavoro svolto in cooperative, la ditta individuale, la piccola impresa di qualsivoglia natura giuridica, il lavoro del volontario o del militante, il funzionariato politico o sindacale. Non si tratta quindi solo di definire una piattaforma politica unificante, ma di capire quale possa essere, al di là della comune generica opposizione allo stato di cose esistente, il tratto sociale comune, la base unitaria sulla quale far giocare le differenze in modo non distruttivo.

La cosa merita un ragionamento particolare.

Per l'alleanza del libero lavoro sociale.

Ha avuto una certa eco, negli ultimi tempi, l'idea di sostituire al lavoratore, come figura tipica dell'azione sociale, ed al militante, come figura tipica dell'azione politica, il volontario, ossia colui che presta gratuitamente un'opera che non sarebbe lavoro (perché si esercita sui rapporti sociali e si svolge al di fuori delle organizzazioni lavorative classiche) e nemmeno sarebbe politica (perché quest'ultima andrebbe quasi del tutto assorbita dall’attività sociale del volontario che - considerati i tragici effetti delle rivoluzioni passate - non mira più a grandi trasformazioni ma a limitate e controllabili modificazioni dei nessi sociali immediati, ad interventi di breve o medio raggio)4 .

Non voglio qui discutere in dettaglio questa ed analoghe posizioni, ma solo rilevare come esse indichino un problema serio e reale, rispondendo però in maniera sbagliata. Sbagliata non solo perché la contrapposizione astratta tra lavoratore/militante e volontario viene dissolta ogni giorno dall'esperienza del movimento, che vede i volontari scoprire l'esigenza di una qualche forma di militanza politica ed i militanti scoprire l'impossibilità d'un attivismo puramente politicista.

Ma sbagliata soprattutto perché impedisce di vedere il tratto comune tra le molte distinte figure dell'azione sociale, un tratto comune che fa di ogni attivista un libero lavoratore cooperativo, un lavoratore che ha per scopo non la produzione di valori d'uso, ma la trasformazione dei rapporti sociali.

Intendo per liberi lavoratori cooperativi tutti coloro che (nelle pieghe del lavoro classico, nelle organizzazioni sindacali, politiche o "consiliari", nelle cooperative di volontariato, nelle più varie associazioni di movimento, nelle imprese politiche volte alla trattazione di temi specifici), erogano un'attività che si sottrae al dominio diretto o indiretto del capitale, sviluppando, dove è il caso, gli elementi cooperativi del lavoro classico e comunque trasformando in senso cooperativo ed egualitario i rapporti sociali nei quali e sui quali si trovano ad agire. Il libero lavoratore cooperativo è dunque una figura trasversale, che si ritrova in ogni struttura del lavoro e dell'attività politica, che può dunque incarnarsi nell'operaio, nel militante, nel volontario etc., e che però costituisce una figura sociale specifica ed autonoma, non pienamente identificabile con la "normale" erogazione del lavoro che avviene in ognuna di queste strutture.

Per meglio illustrare il significato di quel che ho detto sono costretto a chiedere a chi legge di affrontare con me un nodo teorico molto astratto.

E' giusto sostenere che il lavoratore, inteso come produttore di valori d'uso (beni o servizi), non può essere considerato attore  fondamentale della trasformazione dei rapporti sociali. Così come non può più essere assunto come modello dell'individuo politico il militante, inteso come membro disciplinato di un esercito. La coppia lavoratore/militante rimanda all'idea, tipica del marxismo ortodosso, secondo cui il processo di produzione organizzato dal capitale è già un processo sociale e che esso è solo deformato dall'esterno dalla proprietà privata capitalistica: deformazione che consiste nell'esistenza di imprese giuridicamente autonome il cui conflitto distrugge una possibile armonia intrinseca della produzione. Insomma, secondo questa concezione, il carattere capitalistico della produzione sta tutto nell'esistenza della proprietà privata e delle imprese autonome, tolte le quali l'intrinseca socialità della produzione potrebbe emergere come il pulcino dal guscio dell'uovo.  Se le cose stanno così, la principale funzione del lavoratore, la sua principale attività sociale comunista, è appunto quella di produrre il più possibile,  perché in tal modo egli può esprimere al massimo grado l'intrinseca socialità della produzione. La politica si situa altrove, nella sfera della guerra di classe finalizzata all'eliminazione della proprietà privata: e l'individuo politico è il militante, esperto nella gestione dei rapporti di forza, colui che tutto può compiere perché la sua azione è giustificata per il fatto che è volta al benessere dell'umanità, benessere che si attua  infrangendo il guscio capitalistico-proprietario della produzione facendone così emergere una socialità che è ormai un carattere quasi “naturale”.

Questa concezione – che identifica la trasformazione dei rapporti sociali con la trasformazione dei rapporti di forza a livello politico-statuale – è stata ormai del tutto invalidata dal crollo del socialismo di stato (e di partito). L’esperienza e la riflessione mostrano ora come il carattere sociale della produzione moderna non sia una sostanza già data che noi si debba solo svelare, ma una potenzialità che può divenire reale solo attraverso una faticosa costruzione. Si credeva che il processo di produzione della singola impresa fosse un modello di pianificazione e di socializzazione da esportare in tutta la società, ma in realtà esso è un luogo in cui il capitale non si limita a sfruttare il lavoro cooperativo, ma lo forma dall’interno, facendolo svolgere sotto determinate gerarchie ed attraverso molteplici divisioni fra i lavoratori, gerarchie e divisioni generalmente incarnate in sistemi di macchine (o in programmi). Non solo: la tendenza a sfruttare al massimo il lavoro si traduce in costante specializzazione e suddivisione del lavoro di impresa, il che conduce alla formazione di comparti produttivi relativamente autonomi, i quali poi si autonomizzano ulteriormente assumendo forma di impresa a sé stante; cosicché si può dire che, lungi dall’essere un processo che incrementa la socializzazione, il processo produttivo capitalistico è il momento genetico della frammentazione5 .

Cosa vuol dire tutto questo per noi? Vuol dire che se il capitalismo forma dall’interno il processo produttivo, il lavoratore diviene soggetto sociale di trasformazione non per il semplice fatto di partecipare al processo, ma solo in quanto, appunto, trasforma questo processo sviluppandolo in forme non gerarchiche, egualitarie, realmente cooperative. Ossia quando non agisce sotto il comando del capitale, ma agisce come lavoratore libero. Questa azione libera può avvenire  nelle pieghe del processo produttivo ordinario, ma soprattutto avviene nella partecipazione a strutture consiliari che progettino - e attuino parzialmente - modifiche del processo di lavoro, o nella partecipazione a più generali associazioni politiche. Il lavoratore, insomma è soggetto di trasformazione non in quanto membro della classe (come tale egli è solo lavoratore subordinato), ma in quanto membro d’una libera associazione. Il suo lavoro, questo suo lavoro, diviene così libero dal capitale, la sua “materia prima” è ora costituita direttamente dai rapporti sociali che egli deve trasformare, e comprende anche i rapporti sociali che vengono costruiti nelle sue libere associazioni che rischiano costantemente di riprodurre discipline e gerarchie tipiche del lavoro subalterno.

Orbene, la stessa cosa avviene per coloro che non sono salariati classici, ma svolgono un lavoro almeno formalmente autonomo, gratuito o meno,  all’interno, ad esempio, di cooperative sociali o di associazioni politiche. Costoro, si può dire, lavorano immediatamente su rapporti sociali, ma non è affatto detto che, per una qualche virtù naturale, questo lavoro si svolga immediatamente al di fuori del comando del capitale, sia cioè immediatamente un lavoro libero. Il comando del capitale può realizzarsi indirettamente, nella subordinazione alla logica mercantile o nell’accettazione di un ruolo subalterno in un welfare residuale; ma può anche realizzarsi direttamente, nella assunzione di una logica paracapitalistica di divisione del lavoro se non addirittura nella assunzione piena del criterio del profitto d’impresa.

E allora si po’ dire che né il salariato classico, né il volontario, né il cooperante, né l’attivista politico sono immediatamente liberi lavoratori sociali: lo divengono solo se trasformano (o provano a trasformare) i rapporti sociali interni ed esterni alle loro associazioni. Altrimenti sono tutti, se pur in maniera diversa, agenti subalterni dell'accumulazione capitalistica.

Ecco, è la figura del libero lavoratore cooperativo, è questa figura artificiale, e quindi frutto di un’ (auto)costruzione politica (d’una politica intesa soprattutto come elaborazione di “norme”, come ho detto sopra) a darci l’immagine del tipo di attivista politico che emerge dal movimento – ma che è in realtà il frutto d’una lunga sperimentazione tutt’altro che conclusa. Abbiamo già visto come essa sia diversa dalla figura classica del lavoratore/militante. Ma, insisto,  è diversa anche dalla figura del volontario, sia perché amplia i soggetti di riferimento – includendo anche quelli che operano su largo raggio – sia perché ci ricorda che anche il volontario è un lavoratore, ossia è preso in una rete di rapporti che devono essere essi stessi oggetto di trasformazione. Definire l’azione del volontario come pura attività gratuita contrapposta al lavoro organizzato ostacola la comprensione del carattere comunque organizzato (e dunque gravido di rischi e di rapporti potenzialmente gerarchici) di questa stessa attività. Definirla come lavoro cooperativo tendenzialmente libero ci consente di connetterla ad altre esperienze di attivismo e di accomunare tutte queste esperienze nel problema generale della costruzione artificiale del lavoro cooperativo.

L’aver individuato questa base comune non elimina i problemi che sorgono dalle diverse modalità di erogazione del lavoro, dal diverso rapporto col capitale, dalla diversa collocazione di classe. Ci consente però di gettare le basi per una possibile alleanza del lavoro sociale libero. Consente, ad esempio, ai militanti d’un partito, quale io sono, di capire che la loro legittimazione ad agire assieme ai lavoratori autoorganizzati, ai membri di cooperative sociali, agli attivisti di associazioni tematiche non deriva dal possesso della “giusta teoria” o della “linea giusta”, ma dalla comune natura di lavoratori sociali, e che dunque  il rapporto che si stabilisce, invece o prima di essere un rapporto di rappresentanza, è appunto un rapporto di alleanza, giustificato dal comune lavoro. Quanto al resto, quanto alle differenze di collocazione di classe e di ceto, dirò per ora solo questo: che è da tener ferma l'idea (presente anche in Machiavelli), per cui il “popolo” è composto da coloro che non vogliono opprimere gli altri, ma solo contrastare i potenti: è composto, diremo noi, da coloro che non sfruttano il lavoro cooperativo sociale, ma lo organizzano contro gli sfruttatori.

Pluralismo e federalismo sociale.

L’ innovazione più importante di questo movimento, quella che consente di qualificarlo come un nuovo modello di azione collettiva, consiste, a mio parere, nella capacità (tendenziale) di coniugare al massimo grado la molteplicità dei componenti e l’unità dell’azione. Mi sembra cioè che finalmente si possa tentare di costruire una forma di azione, e forse anche di associazione, in cui le divergenze (che non sono puramente ideologico-politiche, ma riguardano anche i differenti campi d’azione delle diverse componenti) non siano considerate come un limite, ma come una risorsa.

La compresenza di approcci eterogenei consente al movimento – se si sanno inventare di volta in volta le adeguate forme di unità – di assumere una maggior massa di informazioni sulla società e di radicarvisi molto meglio di quanto non possa fare – in una realtà altamente differenziata come la nostra – il tradizionale partito di massa. La possibilità di trattare le divergenti ipotesi strategiche come ipotesi che non escludono forme di cooperazione, come sperimentazione di vie alternative che in futuro potrebbero essere fatte proprie anche da chi oggi non le condivide, consente di approntare delle “alternative evolutive” che – sempre nel presupposto di un’ unità comunicativa persistente fra i diversi organismi – conferiscono al movimento nel suo complesso una ricca capacità di adattamento e di iniziativa. La pari dignità culturale delle diverse componenti può consentire, come ho già detto, che alla “guida” dell’insieme si alternino, di fase in fase, gli organismi più capaci di lavorare sulle contraddizioni di volta in volta emergenti, senza che questo scateni ogni volta distruttivi conflitti di egemonia. L’"egoismo" che necessariamente pervade ciascuna organizzazione – grande o piccola – naturalmente portata a riprodurre sé stessa, può trovare composizione nell’idea che la propria riproduzione dipende in gran parte dalla riproduzione delle altre, dalla ricchezza generale (di individualità concrete, di informazioni, di risorse) che viene prodotta dall’ambiente del movimento.isiede non solo nella sua maggiore aderenza alla realtà sociale attuale, ma anche nella sua capacità di prospettare un futuro ordinamento sociale che finalmente superi l'alternativa tra capitalismo e socialismo di stato. Al partito classico, organo monocratico circondato da associazioni ancillari (sindacati, cooperative etc.) dotate di sovranità politica limitata, corrispondono una società  centralista ed una pianificazione autoritaria non più riproponibili, se non altro, perché danno vita ad una realtà scarsamente dinamica ed incapace di autocorrezione. Ad un movimento eterogeneo, mediato da forme di unità non riduttive, potrebbe invece corrispondere una società  policentrica, dotata di diversi strumenti di regolazione sociale (pianificazione centrale e locale, reti di unità produttive basate sulla reciprocità, connessione politica tra associazioni e anche – subordinatamente – mercato) dove il dinamismo e l’autocorrezione che il capitalismo affida al conflitto tra imprese vengano apportati, per ipotesi, dalla dialettica tra corpi sociali che, nel presupposto di un comune interesse cooperativo, competano per suddividersi le risorse sulla base di diverse proposte di  regolazione.

Ripeto che questo modello d’azione, che si potrebbe definire in prima approssimazione come basato sul pluralismo ed il federalismo sociale (pluralismo tra corpi sociali orientati alla regolazione non capitalistica, federalismo come mediazione dell'eterogeneità), è appena abbozzato e deve accumulare numerose esperienze e numerose riflessioni (anche molto astratte) prima di potersi dare per acquisito: esperienze e riflessioni che devono vertere soprattutto sul tema della costruzione di un'unità che non sia reductio ad unum.

Preciso inoltre che sostenere la validità di un tale modello non significa affatto lavorare per mantenere comunque l’unità fra i soggetti più disparati e divergenti. Significa piuttosto dire che se anche il movimento, per ipotesi, dovesse scindersi (qualunque cosa questo possa significare) il movimento nato dalla scissione dovrebbe assumere le stesse forme, in quanto sono le più adeguate allo spirito dell’epoca. L’analogia, evidente, è con la storia del partito di massa, invenzione del movimento operaio poi necessariamente copiata anche dagli avversari per la sua adesione alle forme allora prevalenti della politica e della società.

Ora, a quale immagine  deve ispirarsi l’unificazione o comunque la mediazione dell’eterogeneità di questo movimento? A quella del  partito, della rete, della federazione, o a che altro?

Ho già diffusamente argomentato altrove 6 sul  come e sul  perché sia finita l’epoca del partito di massa, almeno nell' accezione di soggetto unico o dominante che si muove nell’ipotesi di inglobare a sé – direttamente o indirettamente – tutti gli aspetti dell’azione sociale rilevante. La storia stessa di questo tipo di partito dimostra che, per funzionare davvero, esso ha dovuto circondarsi di associazioni – divenute via via sempre più autonome – che svolgevano compiti che il partito in quanto tale (assorbito com’era dai compiti di rappresentanza istituzionale, e quindi specializzato solo in alcune modalità d’azione) non poteva svolgere. Accanto al partito formale (il PCI, la DC; la SPD ed altro) nasceva il partito reale, effetto del patto politico tra uno o più patiti formali ed un insieme di associazioni radicate in diversissimi comparti sociali, associazioni che potevano, in certe condizioni, assumere di fatto un ruolo di guida.

L’ulteriore autonomizzazione di queste associazioni e l’ulteriore indebolimento del partito conducono all’attuale situazione i cui il partito può legittimamente aspirare ad un ruolo solo se si presenta ed agisce come soggetto paritario, se riconosce la possibilità che altri soggetti, di volta in volta, assumano funzione politica generale, se trasforma profondamente il proprio funzionamento interno e le propria idea di militanza.  Un partito di tal fatta, non solo mantiene una funzione, ma può giocare un ruolo importante all’interno del nuovo modello d’azione. Esso infatti è un organismo che ha come propria ragione sociale quella di tentare una connessione tra i diversi protagonisti e tra i diversi spazi della politica: la sua natura strutturalmente multifunzionale gli può consentire di svolgere il ruolo di organizzazione connettiva e di elaborare al proprio interno modelli di connessione sociale che possano poi essere eventualmente proposti all’intero movimento. Il partito  formale, quindi, riveste ancora una grandissima importanza. Ma il suo funzionamento non può essere assunto a modello generale per l’intero movimento semplicemente per il fatto che esso prevede una unificazione formale, oltreché ideologica, e l’assunzione di una sola modalità, di trattazione delle divergenze (la relazione maggioranza/minoranza). Il che non è compatibile con l’eterogeneità.

Più vicina allo spirito del movimento potrebbe sembrare la rete. Unione mobile, non riduttiva, non definitiva, non esclusiva. Capacità di rapida mobilitazione e di connessione di realtà molto diverse da quelle del nucleo originario. Queste ed altre virtù fanno sì che la modalità reticolare sia per così dire una modalità fisiologica di azione del movimento, una delle radici primarie della sua dinamica e del suo adattamento, una caratteristica che persisterà qualunque sia la forma politica del movimento stesso.

Molti dubbi sorgono, però, nel considerare la rete come modello unico del comportamento e come forma essenziale dell’unità del movimento.

Molte volte, infatti, e specialmente nelle teorizzazioni meno avvedute, il funzionamento della rete si presenta come analogo a quello del mercato, dove si suppone che la libera interazione di atomi sociali generi il risultato ottimale in termini di efficienza. Così il libero formarsi e deformarsi di reti multiple e intrecciate darebbe il miglior risultato possibile in termini di intervento sociale. Ma l’ideologia del mercato è irrealistica perché non contempla la possibilità che si creino gerarchie tra i diversi poli della relazione (quest’eventualità è considerata una semplice disfunzione), né analizza le gerarchie che si creano dentro ciascuno dei diversi poli (le diverse imprese) concepiti appunto come singoli individui privi di differenziazioni interne. Così una banale apologia della rete rimuove il problema della formazione (e riproduzione) di poli dominanti e tace sulla questione del funzionamento interno di ciascun polo. Silenzio gravido di conseguenze: infatti non c’è proprio nulla che garantisca che nelle nuove organizzazioni non si creino rapporti gerarchici non meno rigidi di quelli vigenti nei deprecati partiti. Anzi, se si considera che la critica di Michels ai partiti politici (critica ripetuta, consapevolmente o meno, da tutti i detrattori del partito) è principalmente basata sul fatto che le gerarchie di partito si presumono elettive, ma in realtà non lo sono perché i dirigenti divengono specialisti e per questo sono insostituibili 7 , si vede bene come questo rischio esista anche per le nuove organizzazioni in cui,  come si diceva, lo specialismo è molto forte ed è sovente raddoppiato dalla capacità di gestire sistemi informativi che sono molto più difficili da “leggere”di quanto non fosse la tradizionale informazione cartaceo-libresca.

Ma c’è di più. Quando, in relazione alle caratteristiche distintive del movimento, parlo di pluralismo sociale, non  intendo riferirmi al significato corrente del termine (pluralismo = possibilità di esprimere opinioni difformi) quanto a quello che esso assume nella teoria politica classica, ossia all’idea di una regolazione politica mediata da “corpi sociali” autonomi, più o meno indipendenti rispetto allo Stato, ma anche sovraordinati agli individui, i quali, in questa regolazione, non hanno una funzione propria, ma la assumono solo in quanto membri, appunto, di uno di quei corpi.

Orbene, l’esistenza di numerose organizzazioni preesistenti al movimento e di fatto costituenti la sua intelaiatura può metter capo a problemi analoghi a quelli propri del pluralismo politico: e qui intendo riferirmi non tanto al problema dell’indebolimento dell’autorità centrale, che nel nostro caso non esiste, quanto al problema del ruolo dell’individuo 8 . La rete, infatti, è soprattutto un rapporto fra organizzazioni, e quindi è spesso un rapporto fra gerarchie, fra vertici. Una unità di movimento costruita solo attorno al modello della rete escluderebbe di fatto gli individui, e la cosa sarebbe assai grave non solo per motivi di principio, ma perché così si verrebbe ad oscurare una delle più importanti componenti di ogni movimento e di questo in particolare. E’ infatti chiaro a tutti che le masse mobilitate in questi mesi non sono composte solo da aderenti alle varie organizzazioni, ma da individui che aderiscono semplicemente al movimento in quanto tale. Così come è chiaro, ad un esame più ravvicinato, che la dinamica del movimento, la sua radicalizzazione,  la stessa scelta di farlo esistere come tale non fanno perno su questa o su quell’organizzazione, ma su gruppi di individui che, all’interno di ciascuna organizzazione, hanno operato forzature di maggiore o minor grado per vincere resistenze, abitudini, perplessità.

E allora, come consentire agli individui privi di organizzazione, e, più in generale, come consentire alla individualità (come forma politica della scelta e della critica) inserita o meno in organizzazioni, di avere espressione significativa? Senza questa possibilità di espressione il movimento isterilirebbe,  i corpi sociali avrebbero il monopolio dell’azione, gli individui avrebbero meno risorse critiche nei confronti di questi stessi corpi autonomi.

E’ quindi necessario integrare in qualche forma originale  la modalità reticolare (ed il conseguente principio del consenso come condizione dell’azione comune) e la modalità  assembleare (ed il conseguente principio di maggioranza). Probabilmente un' idea di federazione sociale, che preveda ambiti di forte autonomia ed ambiti di formazione d’una volontà comune, è quella che più ci avvicina alla soluzione del problema.

Non intendo, qui, approfondire la questione.  Mi basta aver sottolineato che il problema esiste, che non lo si può risolvere accontentandosi di ciò che già c’è (cosa che ci condurrebbe alla dissoluzione del movimento) e che non ci dobbiamo illudere di aver risolto alcune delle difficoltà classiche dell’azione politica (formazione delle gerarchie, ruolo dell’individuo e delle associazioni, formazione dell’unità…) solo perché abbiamo proclamato di essere nuovi.

Un movimento moderato?

Da non poche parti vengono formulati, nei confronti del  movimento, gravi e preoccupanti capi d’imputazione: eccessiva moderazione, indeterminatezza degli obiettivi, incomprensione della necessità della lotta all’imperialismo, limitazione della critica al solo liberismo e non al capitalismo in quanto tale, disabitudine alla politica.

Credo che queste accuse dimostrino, prima di tutto, la disabitudine alla politica di chi le formula: la disabitudine, intendo, ad una concreta politica di massa all’interno di condizioni nuove e prima impensabili.

Non sarò certo io a dire che si debba abdicare alla funzione critica nei confronti di questo come di qualunque altro movimento o partito. Io stesso potrei elencare numerosi punti di dissenso, finanche sulla nozione generica di globalizzazione che va per la maggiore. Dico solo che molte delle critiche, oltre ad essere spesso immotivate, non si collocano in una posizione effettivamente dialogica, poiché presuppongono, lo si voglia o meno, la detenzione di una verità di cui il movimento sarebbe privo e che dovrebbe invece raggiungere per emendarsi. Queste critiche, insomma, non concepiscono la politica come processo di apprendimento collettivo, di costruzione conflittuale di una verità “concreta”, processo nel quale sono direttamente coinvolte sia la funzione intellettuale che quella più tradizionalmente politica. Ma su questo punto tornerò tra poco.

E’ sorprendente, peraltro, come non si riesca a volte a valutare l’estrema importanza d’una mobilitazione collettiva mondiale che avviene dopo decenni di dominio incontrastato dell’ideologia dell’impresa e del mercato e, soprattutto, dopo la sconfitta rovinosa del comunismo novecentesco. E’ stata la nostra sconfitta a costringere molti individui e molte associazioni ad una strana situazione in cui non si può parlare semplicemente di moderazione o di parzialità degli obiettivi, ma si deve parlare di pratica fortemente radicale di obiettivi limitati. Situazione che indica una tensione contraddittoria destinata a risolversi, io penso, in una direzione di radicalità.

Credo peraltro che un'attenta ricognizione delle forze e delle ideologie in campo potrebbe dimostrare che questo non è un movimento moderato e che, semplicemente, esprime la radicalità in un linguaggio non usuale. Ma ammettiamo pure che vi sia un "moderatismo" di fondo, una percezione non completa della necessità di condurre fino in fondo la critica al capitalismo. La prima considerazione che mi viene da fare al riguardo, certamente in maniera molto arbitraria e soggettiva, è che di questa cosa noi dovremmo rallegrarci. Infatti il radicalismo degli anni '70 era espressione non solo della sacrosanta rabbia sociale degli strati subalterni, ma anche della fretta con cui i nuovi gruppi dirigenti che si formavano nella "sinistra extraparlamentare" ambivano sostituire o integrare i gruppi allora al comando nello stato, nell'impresa, nella cultura. Sostituzione ed integrazione poi avvenute, come sappiamo, col pieno sviluppo dello stesso stile autoritario di direzione che era stato profuso nel movimento. Meglio, allora, un movimento più moderato, ma più diffuso e concreto, e capace di radicalizzarsi progressivamente, che una vampata radicale destinata a spegnersi presto nell'acquisizione dell'agognata posizione direttiva, e a tradursi nell'imposizione della modernizzazione capitalistica.

Ma proseguiamo con considerazioni meno soggettive.

Contestare a questo movimento il fatto che esso lotta "solo" contro il liberismo e non contro il capitalismo in quanto tale è, per un materialista e per un marxista critico e razionale, una vera sciocchezza. Non esiste il capitalismo “in quanto tale”: esistono solo forme concrete, storicamente determinate di capitalismo, ed i movimenti, se sono movimenti reali,  non possono lottare che contro queste forme reali e non contro il concetto di capitale. La rivoluzione bolscevica, giova ricordarlo, non ha avuto successo perché ha scritto nel suo programma immediato “lotta al capitale in quanto tale!” : il carattere tendenzialmente anticapitalistico di quell’evento era racchiuso nell’idea del “potere ai soviet”, ma il programma concreto era estremamente “limitato”: la pace, il pane, la terra ai contadini. Parole d'ordine "limitate", appunto, che in una determinata congiuntura concreta assumevano una valenza esplosiva.

Insomma: la dinamica fondamentale del capitalismo non è un’ “essenza” che si trovi in angolo riposto della realtà, una “realtà più vera” che si potrebbe raggiungere solo “togliendo” i fenomeni concreti. Essa esiste solo nella concretezza dei fenomeni 9 , in una particolare gerarchia che si stabilisce fra di essi: una gerarchia che, questo è vero, non sempre viene percepita immediatamente e che solo l’accumulazione di esperienze e di riflessioni teoriche può chiarire. Ad esempio, questo movimento concentra molta della sua attenzione contro il capitale finanziario e speculativo: esperienza e teoria devono mostrare il nesso, che immediatamente non viene colto appieno, tra questo capitale finanziario ed il capitale produttivo, e solo in tal modo la lotta diviene pienamente efficace. Ciò non toglie che la lotta contro la finanziarizzazione dell’economia colpisce un punto nodale del funzionamento attuale del sistema. Così come la lotta al supersfruttamento non è lotta contro lo sfruttamento in quanto tale: colpisce però il modo attuale di funzionamento del capitale, un modo dal quale esso non saprà allontanarsi tanto facilmente. Certo: se il capitale riesce a trasformarsi, la lotta contro una precedente forma concreta può essere riassorbita: ma questo mostra solo il carattere non predeterminato dei processi rivoluzionari, il loro dipendere da particolari congiunture storiche che possono favorire l’uno o l’ altro esito.

Continuiamo. Molte delle critiche di cui stiamo parlando derivano da un ambito che potremmo definire genericamente “leninista”. Ma questi leninisti dimenticano una delle lezioni fondamentali di Lenin, e cioè l’idea secondo la quale la percezione della necessità d’una rottura “di sistema” non può avvenire in forza della predicazione apostolica dell’avanguardia, ma solo sulla base dell’esperienza diretta delle masse 10. Solo, cioè, se le masse, nella pratica di obiettivi storicamente determinati e parziali, scoprono per esperienza diretta che, in quella determinata congiuntura, questi obiettivi possono essere perseguiti soltanto attraverso una rottura di sistema, o comunque attraverso uno spostamento complessivo dei rapporti di forza. Tutto il resto è vaniloquio. E’ per questo che è importante, oggi, avere con noi, attorno ad obiettivi parziali, venti persone di più (ma spesso si tratta di duecento o duemila persone di più), piuttosto che escluderle in cambio della scrittura di due frasi radicali in più su un documento.

C’è però da aggiungere qualcosa al discorso su Lenin: la posizione di Lenin – ragionevolissima, realistica, concretamente rivoluzionaria – può essere interpretata in modo errato, come se si trattasse di far giungere a poco a poco le masse all’idea giusta che noi comunque già possediamo. Ebbene, questa sarebbe un’illusione. Sempre, ma soprattutto oggi, chi si muove con un atteggiamento più consapevole e più critico nei confronti del capitalismo non per questo sa da prima come deve svolgersi la lotta o quali saranno le caratteristiche concrete della alternativa sociale che si vuole costruire. Detto brutalmente: i comunisti, oggi, non sanno cosa sia il comunismo, e quando mostrano di saperlo, in genere, si tratta o di qualche riedizione riformata del socialismo di stato o di qualche versione più accentuata dello stato sociale. I comunisti possono immaginare un comunismo futuro solo se, essendo immersi nelle lotte concrete, indagano le varie ipotesi di regolazione alternativa che effettivamente emergono dalle forze sociali reali. E’ in questo senso che parlo della politica come processo di apprendimento collettivo: un processo che certamente comporterà conflitti, divaricazioni, separazioni anche. Ma, almeno, si tratterà di conflitti su linee di demarcazione realmente significative, e non su parole d’ordine immaginarie. I comunisti devono porre oggi, e con forza, una serie di problemi (come superare il lavoro salariato, come modificare i processi di lavoro, come contrastare apparati statali necessariamente subalterni al capitale…):  le risposte dovranno essere trovate nella riflessione teorica connessa all'esperienza condivisa nel movimento reale.

Post scriptum

Gli appunti che precedono sono stati scritti nell'agosto 2001, quindi prima dell'attentato alle Twin Towers ed al Pentagono. Oggi, alla vigilia del prevedibile attacco USA all' Afghanistan, alla vigilia, quindi, d'una guerra che si presenta apertamente come "infinita" (chiarendo così quello che è da tempo il contenuto fondamentale e permanente della politica degli USA e dei suoi alleati principali), è necessario fare almeno alcune considerazioni supplementari.

Prima di tutto è ovvio che la militarizzazione del conflitto (connessa all'acuirsi della recessione) comporterà un rinnovato intervento economico e politico degli stati nazionali, rendendo così ancor più evidente la necessità dell'attraversamento bidirezionale delle frontiere di cui parlavo all'inizio.

Inoltre le numerose restrizioni delle libertà individuali e collettive che si profilano rendono ancora più urgente la soluzione del problema del rapporto fra costituzione sociale del movimento e sua attività politica. Ogni accelerazione organizzativistica sarebbe folle, così come sarebbe folle il rifugiarsi nel carattere "impolitico" del movimento, nel suo essere soprattutto "costruzione e tessitura di rapporti sociali". L'indifferenza verso la politica (o meglio, verso i rapporti di forza) potrebbe infatti celermente condurre ad una situazione in cui la stessa attività "sociale" sarebbe fortemente ostacolata. Più radicalmente, l'incapacità di intervenire sulla atrofia della sfera pubblica - atrofia intimamente connessa allo stato di guerra - lascerebbe mano libera all'avversario proprio nella sua opera di riduzione e pervertimento dei rapporti sociali fondamentali (e nessuno può negare che proprio l'esistenza d'una sfera pubblica di confronto, critica e decisione costituisca un rapporto sociale di primaria importanza). Si tratta quindi di accelerare, contemporaneamente, la consapevolezza della novità del movimento in termini di attività sociale costruttiva e la sua capacità di inventare una politica nuova, atta ad intervenire efficacemente sui rapporti di forza senza per questo distogliere le energie dalle attività sociali di base. Dobbiamo stare attenti a non ripetere gli errori del passato, ma non dobbiamo farci paralizzare dalla paura: l'"autonomia del politico" che si è registrata nelle fasi passate non derivava solo dalla forza della politica, ma anche dalla debolezza della società, ovvero dall'inesistenza di istituzioni di movimento veramente autonome e "preesistenti" all'associazione politica. Questa autonomia e questa preesistenza si danno invece oggi, e ci consentono di osare un'attività più propriamente politica non verticistica, non astratta, non riduzionistica.

Infine, oggi il movimento deve esaltare davvero il suo carattere mondiale, che non deve ridursi ad una semplice e rituale declamazione. Si tratta di lavorare perché dal prossimo Forum di Porto Alegre - ma non solo da esso - nasca un nuovo schieramento mondiale, consapevole di sé e delle proprie potenzialità - uno schieramento fatto sì di movimenti della più diversa natura, ma anche di stati regionali e nazionali e/o di frazioni degli apparati pubblici di diverse nazioni.

Rapidamente e schematicamente si può dire che sono tuttora prevalenti, sulla scena mondiale, tre grandi "partiti", intendendo con questo termine un insieme di stati, di forze politiche e di forze economiche: il partito del capitalismo liberale (USA ed Europa), il partito del capitalismo di stato (Russia, Cina), il partito del capitalismo nazionale arabo (forte delle sue risorse in termini di materie prime e di collocazione geografica strategica di cerniera tra occidente e Russia, Cina, India), per adesso guidato di fatto dalla sua componente estremista. E' necessario che a questi tre partiti se ne aggiunga conflittualmente un altro, nato dall'incontro tra i movimenti sociali ed alcuni capitalismi nazionali (Brasile, Venezuela, Sudafrica…), potenzialmente capace di incidere sulle eventuali contraddizioni tra USA ed Europa (contraddizioni per ora sopite, ma destinate probabilmente ad acuirsi nel prosieguo della guerra), nonché di rubare la scena alla frazione estremista del partito arabo. Un quarto partito, votato alla redistribuzione del reddito su scala internazionale ed intranazionale, sede possibile della maturazione (non lineare) di un anticapitalismo democratico ed egualitario.

La creazione di questo schieramento è oggi necessaria per non ripetere su scala mondiale l'esperienza del movimento italiano degli anni '70, schiacciato dallo scontro militare fra terrorismo e classi dominanti, ridotto alla parola d'ordine "né con lo stato né con le BR", astrattamente giusta, ma politicamente inefficace per l'assenza d'una forza sociale che la facesse propria.

La creazione di questo schieramento è oggi possibile.


Annotazioni

1 Accolgo qui, sviluppandola - credo - in  modo del tutto indipendente, una intuizione di James N. Rosenau: si veda il suo Along the Domestic-Foreing Frontier. Exploring Governance in a Turbulent World, Cambridge University Press, Cambridge, 1997.

2 Questa è la concezione storicista del "presente", finemente criticata da Louis Althusser in tutta la sua opera. Si veda in particolare Leggere il Capitale (con E. Balibar), Feltrinelli, Milano, 1971.

3 La linea di ricerca a cui ho fatto riferimento si trova soprattutto in Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica della economia politica, II, Laterza, 1974, pp. 401 e ss. . Non intendo "giocare" i Grundrisse contro il Capitale, come si è fatto in passato. Un Marx racchiuso nei Grundrisse non ci direbbe tutto quello che può dirci sulla teoria della crisi e sulla stessa analisi del valore e del plusvalore. Inoltre, l'esaltazione del general intellect che spesso si accompagna all'esaltazione dei Grundrisse ci presenta un sapere tecnico-scientifico già pienamente sociale, privo di contraddizioni interne, di scissioni e gerarchie, riproducendo così, pur se in forme diverse, l'illusione economicista relativa al presunto carattere immediatamente sociale delle forze produttive. Ma su tutto questo si veda il prossimo paragrafo. 

4 Marco Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino, 2001.

5 Questa è la lettura critica della socializzazione proposta da Gianfranco La Grassa. Si vedano, da ultimi, i suoi Lezioni sul capitalismo, Clueb, Bologna, 1996 e La tela di Penelope. Conflitto, crisi e riproduzione nel capitalismo, Editrice C.R.T., Pistoia, 1999.

6 In Metamorfosi del partito politico. Associarsi contro il capitale, Punto Rosso, Milano, 2000.

7 Roberto Michels, Sociologia del partito politico nella democrazia moderna, Il Mulino, Bologna, 1966.

8 Ringrazio Barbara Ferusso, Gippo Ngandu Mukendi e Claudio Robba, militanti del Prc e dei giovani comunisti molto attivi nel movimento, per avermi fatto notare questo punto importantissimo.

9 Il riferimento è ancora ad Althusser, ed ai suoi scritti raccolti in Sul materialismo aleatorio, Unicopli, Milano, 2000.

10 Vladimir Ilic Lenin, L'estremismo, malattia infantile del comunismo, Editori Riuniti, Roma, 1970.

Mimmo Porcaro
Milano, 27 dicembre 2001
da "Punto Rosso" - Milano