Gli Usa hanno già escluso ogni assetto federale nel futuro dell'Iraq

Kurdi, vittime di ogni guerra

In caso di conflitto l'Onu prevede almeno 500 mila profughi

Forse ora Barham Salih, primo ministro kurdo della parte del Nord Iraq controllata dal Puk di Jalal Talabani, starà ripensando alle parole con cui, nella riunione romana dell'Internazionale Socialista e poi ancora una settimana fa a Londra, bollava come «incomprensibile» l'opposizione dei pacifisti a una guerra dalle motivazioni etiche «schiaccianti». Le clausole militari dell'accordo fra Turchia e Usa, rivelate nei dettagli dal Washington Post, sono infatti una campana a morto per l'esperimento di autonomia kurda gestito dopo il '91, in condominio e spesso in aspra concorrenza armata, dai due partiti kurdo irakeni, il Puk (Unione patriottica kurda) e il più antico Partito democratico kurdo (Pdk) di Masud Barzani.

Almeno quarantamila militari turchi, per un quarto sotto comando autonomo, penetreranno nel Kurdistan irakeno di conserva ai venti-trentamila soldati Usa per una profondità di 12-13 miglia, pronte però, secondo il generale turco e testa d'uovo del Pentagono Armagan Kuloglu, a superare «se necessario» quel limite per «controllare temporaneamente tutto il Nord Iraq». E questa volta i soldati turchi non si limiteranno ad attaccare i diecimila guerriglieri del Kadek (ex Pkk) attestati su quei monti, ma avranno il compito di impedire alle milizie del Pdk e del Puk di avvicinarsi alle zone petrolifere, storicamente kurde, di Mosul e Kirkuk, nonchè di disarmarle al termine della guerra. Perché gli Usa, con l'ennesimo clamoroso tradimento delle speranze kurde, hanno accettato di escludere ogni assetto federale del futuro Iraq, e quindi di archiviare l'autonomia kurda.

Fino a pochi giorni fa il governo turco insisteva sulla finalità "umanitaria" dell'intervento turco, volto a contenere un esodo che Rudd Lubbers, capo dell'Unhcr, stima in almeno 500.000 profughi di cui il 40% si rivolgerebbe verso la Turchia (e l'Unhcr lamentava di aver ricevuto finora solo 22 dei 150 milioni di dollari indispensabili per una prima assistenza alle vittime della guerra: l'armata Usa consuma da sola un miliardo di dollari, armamenti a parte, per ogni giorno di non-guerra!). Ma non saranno i militari a gestire i 15-18 campi di concentramento allestiti oltre il confine turco-irakeno. Gli Usa hanno già accettato di assumere, per 1500 dollari al mese, un primo contingente di mille "guardiani di villaggio". Sarà l'odiata milizia mafiosa antikurda, reclutata nel '93 per la "guerra sporca" in Turchia, a recludere altri kurdi in fuga dall'invasione turca, dalla probabile controinvasione iraniana (già cinquemila miliziani sciiti Badr hanno passato il confine) e dalla possibile ritorsione irakena.

Dall'altra parte del confine lo stato maggiore turco ha già chiesto al governo di ripristinare lo stato di emergenza nelle province kurde, dove del resto si trovano tutti gli aeroporti destinati all'attacco (Diyarbakir, Antep, Mardin, Batman, Mus, oltre alla grande base di Incirlik), e il ministro dell'Interno annuncia un rafforzamento dei dispositivi di sicurezza che in poche settimane hanno condotto in prigione centinaia di giovani manifestanti contro la guerra e l'isolamento carcerario di Abdullah Ocalan, avvertito come un atto di guerra.

Il Kadek ha chiamato i kurdi alla Serhildan, all'insurrezione popolare, a partire dall'8 marzo, guardando alla grande festa di libertà del Newroz che, il 21 marzo di quest'anno, rischia di cadere in piena guerra. Ma anche nelle prigioni del Kurdistan iraniano si moltiplicano le esecuzioni di oppositori e un giovane dirigente del partito kurdo Komaleh è stato condannato a morte a Sanandaj. La stessa condanna che potrebbe toccare in Siria ai dirigenti dell'unico partito kurdo semilegale, sotto processo a Damasco.

Il cerchio si stringe ovunque attorno ai kurdi, vittime predestinate di ogni guerra. Invano il parlamento kurdo di Erbil, da poco ricomposto unitariamente dal Pdk e dal Puk, ha inviato una lettera alla Casa Bianca chiedendo garanzie e minacciando un conflitto aperto "fra alleati" in caso d'invasione turca. Washington non ha risposto e il mediatore Usa Khalilzad è volato a Erbil, con una scorta di quattrocento marines, solo per tentare di far inghiottire agli "amici kurdi" il boccone amaro. Difficile immaginare che i venticinquemila kurdi che, scacciati dalla pulizia etnica di Saddam dall'area petrolifera di Kirkuk, affollano le baraccopoli attorno a Erbil, rinuncino a rientrare nelle loro case una volta caduto il regime. Se non li fermeranno gli americani, ci penseranno i turchi insieme alla minoranza turcomanna appositamente armata, il cui leader ieri da Ankara bollava come "tribale" l'assemblea kurda di Salahuddin e la rivendicazione federalista.

Ai kurdi resterebbe un'ultima possibilità: chiamare tutto il loro popolo e le loro organizzazioni all'unità nazionale e alla resistenza contro la guerra ed ogni occupazione straniera, contro Saddam ma anche contro i turchi, che hanno emulato i suoi massacri all'ombra della Nato. Sarebbe una rivoluzione copernicana rispetto alle storiche divisioni che da sempre mettono i kurdi nelle mani di pelosi alleati. E' questo l'appello venuto dal Congresso nazionale kurdo in esilio. Al di là delle intenzioni dei vari leader, potrebbe essere l'esito di una pulsione di elementare sopravvivenza.

Dino Frisullo
Roma, 2 marzo 2003
da "Liberazione"