La parabola di un regime che per trent'anni ha identificato il proprio destino con quello del suo paese. Sino a travolgerlo

Il raìs e l'Iraq, una tragica simbiosi

Nell'ultimo mezzo secolo nessun altro leader del Terzo Mondo come Saddam Hussein ha identificato se stesso, e la sua smisurata ambizione, con il destino del suo popolo fino a travolgerlo nella discesa finale della sua parabola: questo almeno appare nelle drammatiche ore che stiamo vivendo, il punto d'approdo della vicenda politica e storica del raìs di Baghdad.

Le due sconfitte

Uscito da un sostanziale anonimato (almeno per l'opinione pubblica non araba) all'indomani del colpo di Stato baasista del luglio 1968, è rimasto poi per più di trent'anni al centro della scena, nel ruolo di primo attore, ed è riuscito a sopravvivere a due clamorose sconfitte - quella della guerra con l'Iran, da lui abilmente camuffate da vittoria, e quella del 1991 - che avrebbe travolto chiunque altro. Duramente autoritario, pragmatico, spregiudicato, spietato oltre ogni limite (è l'unico capo di Stato che abbia usato i gas asfissianti contro una parte del suo stesso popolo, vale a dire la minoranza curda), ma dotato anche agli occhi di almeno parte della sua gente e di molti "fratelli arabi" di un indubbio carisma, ha determinato nel bene e nel male la sorte dell'Iraq moderno, spinto dalla irrefrenabile volontà di farne la potenza egemone nella regione del Golfo, tanto più dopo la caduta dello Scià dell'Iran, e portando per questo il Paese e il suo popolo a vivere per più di vent'anni in stato di guerra, palese o strisciante, con conseguenze disastrose. Sul piano interno, se da un lato ha promosso una innegabile modernizzazione dell'Iraq fino a farne quasi un Paese (almeno potenzialmente) del Primo Mondo, dall'altro ha impresso al regime un carattere duramente dittatoriale, con la spietata repressione di ogni forma di dissenso o di opposizione, e smaccatamente personalistico, con la esaltazione della sua figura e la promozione della sua famiglia e del clan tribale del "Takriti" (dalla sua città natale) oltre ogni limite di pudore.

Saddam Hussein è nato nel 1937 da una famiglia di modestissime condizioni in un villaggio ai margini della città centro-settentrionale di Tikrit, allora sonnolente centro di provincia ed oggi moderna città continuamente ingrandita e abbellita. La sua fu un'infanzia difficile, dapprima in casa di uno zio (il padre se ne era andato prima della sua nascita), poi alle prese con un patrigno autoritario e manesco. Il ragazzo Saddam comincia così a misurarsi fin dall'infanzia con la violenza e la brutalità. Determinante diventa a questo punto il trasferimento a Baghdad, ancora a casa dello zio; qui fallisce il tentativo di farsi ammettere all'Accademia militare, ma entra in contatto con i circoli politici e intellettuali del nazionalismo arabo e in particolare del partito Baas, panarabista e socialisteggiante.

La carriera nel Baas

Diventa così membro del partito e comincia subito a far carriera, mostrando le sue doti di predisposizione al comando come organizzatore e capo delle squadre paramilitari clandestine. Arrestato una prima volta nel 1956 per complotto contro il regime monarchico di Feisal II, partecipa nel 1959 - più o meno un anno dopo la rivoluzione repubblicana di Abdel Karim Qassem - all'organizzazione di un attentato contro il generale-presidente. L'attentato fallisce e Saddamm, ferito, è costretto a riparare all'estero, prima in Siria e poi in Egitto, al Cairo, dove approfitta della forzata inattività per completare gli studi secondari.

Questo, del fallito attentato, è un episodio ripetutamente citato nelle biografie del raìs per dimostrarne la freddezza e il coraggio: si dice infatti che, ferito a una gamba nella sparatoria con le guardie di Qassem, si sia estratto da solo il proiettile con un coltello, senza battere ciglio. Come che sia, torna a Baghdad nel 1963, dopo il sanguinoso rovesciamento di Qassem, e la sua scalata all'interno del partito si fa più serrata: nello stesso 1963 diventa membro della direzione "regionale" (cioè irachena), nel 1965 entra in quella "nazionale" (cioè panaraba) e un anno dopo viene nominato vice-segretario generale. Nel luglio 1968 è tra gli organizzatori del colpo di Stato che porta il Baas al potere; diventa così vice-presidente del Consiglio del comando della rivoluzione a fianco del presidente, generale Hassan al Bakr (del quale è parente), ma in realtà sarà lui a gestire in modo effettivo il potere. In questa veste compie anche gesti di notevole rilievo politico: nel 1973 fonda il Fronte nazionale progressista cui partecipano i comunisti e altre forze progressiste, ovviamente sotto la guida del Baas; nel 1974 proclama l'autonomia della regione curda (esclusa però la provincia petrolifera di Kirkuk) nel tentativo di mettere fine alla guerriglia indipendentista o comunque autonomista; nel 1975, in occasione del vertice dell'Opec ad Algeri, concluse con lo Scià dell'Iran un accordo sulla delimitazione dei contestati confini fra i due Paesi, soprattutto nella zona dello Shatt-el-Arab, ponendo così fine al sostegno di Teheran al leader curdo Mustafa Barzani.

La guerra all'Iran

Ma sono tutti gesti finalizzati al consolidmento del suo potere e dunque destinati di per sé a non durare: nel 1979 il Fronte progressista è già in pezzi, con i comunisti passati alla clandestinità e alla lotta armata; con i curdi è nuovamente guerra guerreggiata; e la rivoluzione di Khomeini in Iran lo porta a rimangiarsi gli accordi con lo Scià e a illudersi di poter rovesciare come un castello di carte il neonato regime islamico, per fare dell'Iran un satellite e annettersi la regione petrolifera meridionale del Kuzistan, abitata dalla minoranza araba.

Nasce di qui la sciagurata avventura dell'invasione dell'Iran nel settembre 1980; il primo calcolo sbagliato di Saddam, che si trova impelagato in una guerra logorante che durerà otto anni e costerà un milione di morti. Ma prima di lanciare la guerra ha completato la sua scalata al potere, facendo dimettere Al Bakr - ufficialmente "per ragioni di salute" - e facendosi eleggere presidente, cumulando così nelle sue mani le cariche di capo di Stato, presidente del Consiglio della rivoluzione, segretario generale del partito e comandante in capo delle forze armate (nel 1976 lui, uscito dall'ala "civile" del Baas, si è fatto attribuire per decreto i gradi di generale). La sua elezione non è senza contrasti, e i 21 membri del Consiglio rivoluzionario e della direzione del Baas che gli negano il voto pagheranno questo gesto con la vita, accusati di complotto e passati per le armi.

Argine al "khomeinismo"

La guerra con l'Iran va male, nell'estate 1982 gli iraniani varcano a loro volta il confine; Saddam si erge allora a paladino dell'Occidente contro il "contagio khomeinista" e si fa aiutare dai sovrani arabi del Golfo e dagli Stati Uniti. Nel 1988 la guerra finisce, grazie all'aiuto esterno, sulle posizioni di partenza, ma Saddam canta vittoria e presenta ai suoi vicini ed alleati il conto per "averli difesi". Quando vede le sue aspettative deluse, non esita a lanciarsi in una nuova insensata avventura, quella dell'invasione del Kuwait; un'altra guerra, breve ma sanguinosa, e un'altra clamorosa sconfitta, prolungata nel tempo dall'embargo. Ma l'autoesaltazione di Saddam non conosce ormai limiti: vantandosi di aver sconfitto l'Iran e di essere stato l'unico leader arabo capace di tenere testa agli Stati Uniti e a Israele, fa orchestrare un culto della sua personalità ossessivo e capillare, che arriva a permeare letteralmente la vita quotidiana dell'intero Paese. Sugli schermi della Tv e sulla stampa la sua glorificazione è continua, senza limiti; il Paese viene letteralmente cosparso di ritratti e di monumenti che lo ritraggono nelle pose più svariate, in divisa da generale o in abito civile, vestito da curdo o da beduino, con il cappello a lobbia o con la kefiya; a lui si intitolano edifici pubblici, a cominciare dall'aeroporto di Baghdad; ed arriva a presentarsi come l'erede, anzi la reincarnazione, dei re babilonesi Nabucodonsor e Hammurabi o del grande Saladino (che peraltro era curdo) e a vantare addirittura una discendenza diretta da Maometto.

Questo è l'uomo che Bush pretendeva di convincere ad andare in esilio. Questa guerra segna la fine della sua parabola; ma a lui - ha detto di recente - interessa «sapere che cosa diranno di me fra 500 anni».

Giancarlo Lannutti
Roma, 10 aprile 2003
da "Liberazione"