Ascesa e caduta di Saddam Hussein

L'asso di tutte le maniche

Dalla giovinezza nel partito Baath alla guerra contro l'Iran, l'ex rais di Baghdad ha «livellato» dall'alto, e nel sangue, tutte le contraddizioni, sociali, etniche e politiche dell'Iraq. Passando attraverso due rovinose guerre con gli Usa e fallendo come «rappresentante» dell'Occidente nell'area

L'otto agosto del 1989 il presidente iracheno Saddam Hussein, con il tradizionale mantello beduino, inaugurava a cavallo di uno stallone bianco il doppio arco di trionfo costruito nei pressi del palazzo presidenziale. Il monumento, costruito per celebrare la vittoria contro «il nemico iraniano» nella prima guerra del Golfo, terminata appena un anno prima. l'8 agosto del 1988, è composto dai due avambracci e dalle mani del rais, alti sedici metri, che stringono in pugno due grandi sciabole che a loro volta si toccano ad un'altezza di quaranta metri dal suolo. Nel punto dove gli avambracci - fusi in bronzo in Inghilterra dai calchi presi sulle braccia del presidente iracheno - escono prepotentemente dal terreno, due enormi reti fanno mostra di se alla base del monumento: all'interno cinquemila elmetti iraniani presi dai campi di battaglia dove persero la vita almeno un milione di soldati delle due parti. L'arco di trionfo, ora racchiuso nell'area diventata il cuore dell'amministrazione americana in Iraq, costruito nel momento di massima potenza di Saddam Hussein, ben esprime non solo l'ossessivo culto della personalità che ha caratterizzato, insieme alla durissima repressione interna, i trent'anni del suo potere ma anche tutti quegli elementi ideologici e mitologici che per molti anni, insieme al welfare interno «dalla nascita alla tomba», sono stati alla base del consenso di cui ha goduto in vasti strati della popolazione irachena e più in generale nel mondo arabo.

Innanzitutto Saddam Hussein, nato il 28 aprile del 1937 nel povero villaggio contandino di Oujia, nei pressi di Tikrit, non lontano da dove è stato preso dai soldati americani, è stato il frutto non solo della tormentata storia dell'Iraq ma anche della tradizionale società tribale beduina «Io e mio cugino contro il mondo». Una società centrata sui legami familiari che Saddam Hussein non ha mai tradito appoggiandosi spesso e in primo luogo, ai suoi familiari: dai fratellastri Barzan, Sabawi e Watban, ai suoi cugini come il sinistro Ali Hassan al-Majid, dai suoi figli Uday e Qosay, ai suoi generi Hussein Kamel e Saddam Kamel che alla metà degli anni novanta lo tradirono per poi misteriosamente, incapaci di vivere fuori del loro mondo, tornare in patria andando a morte certa. Anzi in un certo senso lo sviluppo e il peso assunto all'interno del regime degli esponenti del paese natale di Saddam Hussein -noto in realtà fino a quel momento per aver dato i natali a Saladino e per la costruzione di zattere adatte a portare i meloni a Baghdad lungo il fiume - ha costituito, ed è stata vissuta come tale, una rivalsa delle campagne e dei deserti dell'Iraq centrale nei confronti della sofisticata capitale Baghdad.

Anche in questo del resto Saddam Hussein ha semplicemente ripreso e sviluppato elementi già presenti nel paese durante la lunga dominazione ottomana come l'avvio dei sunniti, arabi e curdi, alla carriera militare e amministrativa, e degli sciiti ai commerci, all'agricoltura e alle professioni liberali. Saddam Hussein, che si è sempre considerato una via di mezzo tra Bismark e Harun al Rashid, ha cercato con il suo regime personale e sanguinario di dare coesione e unità all'Iraq affrontando i tre problemi di fondo del paese: il fatto che -a differenza per esempio dell'Egitto con il Nilo- il Tigri e l'Eufrate, a causa delle difficoltà della navigazione, non hanno mai dato una reale unità al paese, creato all'indomani della prima guerra mondiale dall'unione tra le tre province ottomane di Mossul nel nord a maggioranza kurda da sempre legata ad Aleppo, quella di Baghdad nel centro sunnita che insieme alle città sante sciite di Najaf e Kerbala guardava in realtà all'Iran, e da quella di Basra nel sud prevalentemente sciita, la città di Sindbab rivolta al Golfo e alle Indie. Il secondo elemento sul quale il regime ha fatto leva è stato senza dubbio quello delle debolezza politica e militare del paese, terra di pianura senza difese naturali da sempre invasa, minacciata e occupata da due enormi vicini, l'Iran con una popolazione di tre volte superiore (60 milioni contro i 20 dell'Iraq) e la Turchia con oltre 67 milioni di abitanti. Oggi, ma anche in passato, dai tempi di Senofonte ad Alessandro magno, dalle battaglie tra i romani e i persiani, a quelle tra gli arabi e i persiani sino all'impero ottomano e alle invasioni coloniali prima britanniche e oggi americane. Una paura quella dell'Iraq che insieme alla conspevolezza di essere stati la culla della civiltà, ha sempre prodotto un fortissimo senso dell'identità e dell'orgolio nazionale che Saddam Hussein ha saputo coltivare e utilizzare a suo vantaggio. Saddam Hussein ha così utilizzato il nazionalismo iracheno per amalgamare, spesso brutalmente, il paese dal punto di vista etnico, religioso e politico. L'Iraq infatti è un caleodiscopio di minoranze etniche, con una forte componente kurda non araba nel nord, di religioni -sunniti, sciiti, cristiani- e politiche - dai movimenti islamisti sciiti, al più forte partito comunista del mondo arabo, dal Baath ai movimenti nasseriani e a quelli nazionalisti. In questo ambito il regime da una parte ha fatto leva sulla richiesta di «ordine» presente nella società dopo le convulsioni, i colpi di stato e agli scontri di piazza seguiti alla rivoluzione antimonarchica del 1958 e dall'altra si è presentato all'estero come il garante dell'unità del paese e di una politica «pragmatica» a livello internazionale assicurando all'occidente prima il contenimento e la distruzione del locale Partito comunista e poi la costruzione di un «argine» contro il rischio di una esportazione nella regione del Golfo e del Medioriente della rivoluzione Khomeinista.

Non a caso gli Usa videro con favore sia il colpo di stato del Baath del 1968 (in seguito al quale Saddam Hussein divenne il numero due del presidente Hassan al Bakr, del quale avrebbe poi preso il posto nel luglio del 1979), sia l'avvio della guerra all'Iran nel settembre del 1980 che segnò il definitivo passaggio dell'Iraq nel campo statunitense. Una guerra che l'Iraq fece praticamente a credito nel senso che i proventi del petrolio continuarono ad essere utilizzati nel «welfare» mentre le armi venivano comprate utilizzando i prestiti occidentali e del Golfo. Ma l'ingenuo tentativo di Saddam Hussein di divenire il referente locale dell'Occidente si infranse a pochi giorni dalla «vittoria» contro l'Iraq. Kuwaitiani, sauditi, americani, inglesi e israeliani decisero che, risolto il problema Iran ora anche l'Iraq andava distrutto. All'inizio con l'arma dei debiti. L'Iraq cosi nel 1989-90 si trovò davanti alla richiesta del Kuwait, e non solo dell'emirato, di un rimborso di tutti i crediti concessi a Baghdad durante la guerra. Una richiesta impossibile da soddisfare a meno di non voler distruggere il paese e il consenso che il regime si era costruito all'interno. Da qui la scelta di invadere nell'agosto del `90 il Kuwait, dopo un ambiguo via libera dell'amminsitrazione Usa, con tutto quel che ne è derivato. Il sostegno degli Usa all'Iraq durante gli anni ottanta (mentre i neocon del tempo sostenevano l'Iran) in quegli anni arrivò sino al punto di tacere sull'uso da parte dell'esercito iracheno di gas asfissianti contro le truppe iraniane nella penisola di Fao e lungo tutto il fronte sino al nord dove nella città di Halabja (occupata due giorni prima dall'esercito iraniano e dai peshmerga kurdi) vi furono oltre 5.000 vittime. La guerra all'Iran venne usata da Saddam Hussein sia per schiacciare la forte opposizione sciita che chiedeva l'istituzione di una repubblica islamica in Iraq sia i movimenti separatisti kurdi alleati dell'Iran nel nord del paese.

A livello ideologico il regime cercò inoltre di creare una comune mitologia nazionale che riferendosi al passato mesopotamico pre islamico e pre arabo, fosse in grado di unire il paese al di là delle divisioni etniche, politiche e soprattutto religiose. Un collante ideologico contro il quale si sono scagliati oggo gli occupanti Usa lasciando mano libera ai saccheggiatori dei musei dedicati proprio a quel'antico passato, sciogliendo l'esercito e introducendo per la prima volta a livello istituzionale il confessionalismo etnico e religioso.

Ora l'uscita di scena di Saddam Hussein, da una parte pone ora fine al tentativo, giacobino, «europeo» e sanguinoso, di tenere unito il paese ad un prezzo insostenibile per la popolazione, e dall'altra ridà la parola agli iracheni ai quale spetterà ora di trovare una nuova, più umana, strada per difendere la propria sovranità e la propria indipendenza.

Stefano Chiarini
Roma, 15 dicembre 2003
da "Il Manifesto"