La cattura di Saddam Hussein

La legalità, una farsa americana

Gli Stati uniti rifiutano di riconoscere la legittimità della Corte penale internazionale, di fronte alla quale gli attuali esponenti dell'amministrazione repubblicana e i loro complici dovrebbero per primi rispondere dei gravissimi crimini commessi scatenando la «guerra preventiva» contro l'Iraq

L'arresto di Saddam Hussein, a parte il suo valore simbolico e l'enorme vantaggio elettorale che concede al presidente Bush, notifica la situazione dell'Iraq occupato? Il potere esercitato dalle forze di occupazione e l'autorità del governatore Paul Bremer acquistano una maggiore legittimità politica e giuridica? Il Governing Council, installato dagli Stati uniti, è da considerarsi ormai come il solo organo legittimo per avviare il popolo iracheno sulla strada della democrazia costituzionale? C'è chi sostiene che, dopo l'arresto di Saddam, tutto diverrà più semplice e lineare, e la «resistenza» del popolo iracheno si estinguerà rapidamente. Quanto alla sorte che toccherà all'ex dittatore, si ritiene naturale che egli venga sottoposto ad un processo perché risponda dei crimini commessi durante i molti anni della sua dittatura. Ma chi lo giudicherà? Dei giudici iracheni o il tribunale internazionale ad hoc? O sarà anch'egli rinchiuso - perché no? - nelle gabbie di Guantanamo, visto che le ultime notizie lo danno ormai «fuori dell'Iraq»?

E agevole rispondere che dal punto di vista del diritto internazionale, la situazione irachena resta immutata dopo l'arresto di Saddam Hussein. Il potere esercitato dal personale civile e militare degli Stati uniti e dai contingenti militari presenti entro il territorio iracheno - compreso il contingente italiano - è da ogni punto di vista un potere illegale e arbitrario. E' un potere conquistato con la forza delle armi - e al prezzo di non meno di 30 mila vittime irachene - in una guerra che ha violato nel modo più grave sia la Carta delle Nazioni unite, sia il diritto internazionale generale.

A ben poco vale invocare la risoluzione 1511 del Consiglio di sicurezza che, secondo alcuni interpreti occidentali, incluso il governo italiano, avrebbe «sanato» l'illegittimità originaria dell'occupazione militare. In realtà quel documento non ha - e non avrebbe comunque potuto - cancellare a posteriori la gravissima lesione del diritto internazionale di cui si sono resi responsabili Stati uniti e i loro alleati. Non solo: la risoluzione ha imposto agli occupanti dei termini temporali precisi, come condizione di illegittimità del potere esercitato in Iraq, entro i quali procedere all'approvazione di una Costituzione e a elezioni democratiche. Si possa mai dubitare che queste condizioni siano sufficienti. Ci si può chiedere se sarà davvero possibile dar vita a un processo politico che conduca ad una stabilizzazione in qualche modo democratica del paese, superando l'immenso vuoto di potere legittimo che la guerra ha determinato e dipanando il fitto intreccio degli interessi in conflitto. Forse sarebbe stato necessario esigere l'allontanamento degli occupanti e la loro sostituzione con forze neutrali.

Quanto al destino di Saddam Hussein, sarebbe una ripugnante farsa giudiziaria l'organizzazione di un processo di fronte ad una Corte che non offra le massime garanzie di legittimità e di indipendenza. La farsa è in preparazione da tempo. Gli Stati uniti stanno già addestrando giudici iracheni che dovrebbero sotto il loro controllo allestire qualche cosa che assomigli a un processo - e nasconda la loro volontà di vendetta e di annientamento morale del nemico - contro gli esponenti del regime sconfitto, Saddam Hussein compreso. Sarebbe una farsa tanto più tragica se si tiene presente che gli Stati uniti rifiutano di riconoscere la legittimità della Corte penale internazionale, di fronte alla quale gli attuali esponenti dell'amministrazione repubblicana e i loro complici dovrebbero per primi rispondere dei gravissimi crimini commessi scatenando la «guerra preventiva» contro l'Iraq.

Danilo Zolo
Roma, 15 dicembre 2003
da "Il Manifesto"