La cattura di Saddam Hussein

Il nemico-amico degli Stati uniti

Gli stessi uomini che prima lo avevano aiutato nella guerra contro l'Iran lo bollarono come nemico numero uno.

Il colpo di scena, che già era nell'aria, è arrivato. Con perfetto tempismo. La cattura di Saddam Hussein (nascostosi dove era più ovvio che fosse) dà modo al presidente Bush di presentarsi agli americani nelle vesti del condottiero che torna trionfante dalla guerra con legato al carro il nemico in catene. Chi potrebbe a questo punto dubitare della sua rielezione? Gli dà modo di far rullare in tutto il mondo i tamburi della «guerra globale al terrorismo», per annunciare la grande vittoria. E soprattutto per far dimenticare che una dopo l'altra sono cadute le «prove» con cui l'amministrazione Bush aveva motivato la guerra e l'occupazione dell'Iraq, violando ogni norma del diritto internazionale e scavalcando lo stesso Consiglio di sicurezza dell'Onu. Per far dimenticare lo scandalo della Halliburton, la società diretta da Dick Cheney prima di assumere la carica di vicepresidente, che non si è accontentata di accaparrarsi senza gara i più lucrosi contratti in Iraq, ma ha anche speculato sul prezzo dei carburanti forniti all'esercito Usa, tanto da costringere lo stesso presidente Bush tre giorni fa a dichiarare che essa deve restituire il maltolto. Per far dimenticare che, occupando l'Iraq (prezioso per le sue ricche riserve petrolifere e la sua posizione geostrategica in Medio Oriente), le forze statunitensi si sono inoltrate in quella che sempre più somiglia alla palude vietnamita. Che cosa avverrà ora? Una delle opzioni, hanno dichiarato funzionari dell'amministrazione, è quella di portare Saddam Hussein davanti al tribunale speciale tempestivamente costituito mercoledì scorso dal «consiglio di governo dell'Iraq» su ordine del governatore Paul Bremer: qui egli dovrà rispondere dei crimini commessi dal 17 luglio 1968 (giorno dell'andata al potere del partito Baath) al primo maggio 2003 (giorno della «vittoria» statunitense). In particolare egli dovrà rispondere di quelli commessi nella guerra contro l'Iran (1980-88) e in particolare contro i kurdi, che furono anch'essi attaccati con armi chimiche. Sottovalutano però i funzionari quanto sarebbe pericoloso se, durante il processo, venisse fuori la verità. Ha infatti più scheletri nascosti nell'armadio la Casa bianca che non lo stesso Saddam Hussein.

L'attuale segretario alla difesa Donald Rumsfeld, in veste di inviato speciale del presidente Reagan in Medio Oriente, incontrò Saddam Hussein a Baghdad nel dicembre 1983 (tre anni dopo l'inizio della guerra contro l'Iran) e, dopo il ristabilimento nel 1984 delle relazioni diplomatiche (interrotte nel 1967 in seguito alla guerra arabo-israeliana) si adoperò per accrescere le vendite di armi statunitensi all'Iraq: tra queste 115 elicotteri militari, alcuni dei quali vennero usati nel 1988 per attaccare i kurdi con armi chimiche. Ma l'aiuto statunitense non si limitò a questo. Nel 1992 un'inchiesta del Senato Usa scoprì che tra il febbraio 1985 e il novembre 1989 erano state effettuate «61 consegne di colture batteriologiche all'Iraq» dalla «American Type Colture Collection Company», una società i cui laboratori erano adiacenti al centro militare di Fort Detrick. E, come è stato confermato da ex ufficiali dei servizi segreti militari (The New York Times, 17 agosto 2002), nel quadro di un programma segreto elaborato dal Pentagono, oltre 60 ufficiali della Dia (Defense Intelligence Agency) fornirono inoltre al comando iracheno foto satellitari dello schieramento delle forze iraniane, piani tattici per le battaglie e indicazioni degli obiettivi da colpire con gli attacchi aerei. Questa «decisiva assistenza alla pianificazione delle battaglie» continuò anche dopo che «le verifiche effettuate dal Pentagono confermarono che il comando iracheno aveva integrato le armi chimiche in tutto il suo arsenale e le usava nei piani di attacco preparati o suggeriti dai consiglieri statunitensi». Ancora più imbarazzante è il fatto che, in quel periodo, l'attuale segretario di stato Colin Powell era consigliere per la sicurezza nazionale e il padre dell'attuale presidente, George Walker Bush, era vicepresidente. Anche se portavoce dell'amministrazione condannarono l'Iraq nel 1988 per l'uso di armi chimiche, Bush, Powell e altri «mai ritirarono il loro appoggio al programma segreto» con cui gli Stati uniti aiutavano Saddam Hussein a fare la guerra anche con le armi chimiche.

«Nella guerra Iran-Iraq - scrive The New York Times - gli Stati uniti decisero che era assolutamente necessario contrastare l'Iran», ritenuto allora il più pericoloso per gli interessi statunitensi in Medio Oriente. Ma, terminata la guerra nel 1988, essi cominciarono a temere che l'Iraq, grazie anche all'assistenza russa, acquistasse un ruolo dominante nella regione. Così quando l'Iraq - uscito dalla guerra con un grosso quanto costoso apparato militare e un debito estero di 70 miliardi di dollari, per la maggior parte verso Kuwait e Arabia saudita - si preparò a invadere il Kuwait, gli Stati uniti (che conoscevano nei dettagli il piano) lasciarono credere, in un incontro tra l'ambasciatrice April Glasbie e Saddam Hussein, che l'atteggiamento ufficialmente morbido di Washington rispecchiasse la sua intenzione di restare fuori dalla faccenda. Saddam Hussein compì di conseguenza un colossale errore di calcolo politico.

Gli stessi uomini che prima lo avevano aiutato nella guerra contro l'Iran - a partire da George Walker Bush, che da vice-presidente era divenuto presidente nel 1989, e da Colin Powell, che da consigliere per la sicurezza nazionale era divenuto presidente dei capi di stato maggiore riuniti - lo bollarono come nemico numero uno. Era il momento del «crollo del Muro di Berlino» (9 novembre 1989), seguito dal dissolvimento del Patto di Varsavia (1 luglio 1991) e della stessa Urss (26 dicembre 1991). Proprio nel momento in cui, rimanendo l'unica superpotenza mondiale, gli Stati uniti avevano bisogno di un nuovo nemico, il primo di una serie, con cui motivare la loro nuova strategia di dominio.

Tommaso Di Francesco, Manlio Dinucci
Roma, 15 dicembre 2003
da "Il Manifesto"