Dopo il sequestro delle due militanti di “Un ponte per...”

«Primo, liberare gli ostaggi»

Fabio Alberti rivendica l'identità pacifista. «Basta bombe sulle città»

Qualche ora dopo la notizia del rapimento di Simona, Simona, Mahnaz e Ra'ad, Fabio Alberti era stato sincero con i compagni che gli si stringevano intorno, per sapere, per condividere l'angoscia: «Questa è una cosa più grossa di noi». L'angoscia e la rabbia restano, in chi presiede l'organizzazione per cui lavorano le «sorelle» rapite, ma il senso di responsabilità umana e politica giustamente prevale. Al presidente di «Un ponte per» abbiamo chiesto di raccontarci come vive questa esperienza tremenda e cosa si può fare per tentare di favorire un esito positivo, la liberazione senza condizioni dei militanti pacifisti presi in ostaggio.

Fabio, come avete vissuto la notizia del rapimento?

Nonostante fossimo perfettamente coscienti dei rischi connessi al nostro lavoro a Baghdad, in una realtà totalmente destabilizzata, non ci aspettavamo un'azione come quella che ha portato alla cattura, nomi alla mano, delle nostre compagne. Avevamo messo in conto incidenti, casualità, ma non questo. E' sconcertante prender atto di essere stati scelti, proprio noi. Abbiamo sempre pensato e continuiamo a pensare che la nostra sicurezza siamo noi stessi, la nostra identità, la nostra biografia, la nostra presenza dal `91 in Iraq con iniziative umanitarie note a tutti. I bambini e le bambine che questa mattina (ieri per chi legge, ndr) hanno manifestato a Baghdad per chiedere il rilascio degli ostaggi ne sono la testimonianza vivente.

Perché proprio delle militanti di una ong come la vostra? Come rispondete a questa domanda che sicuramente vi sarete fatti?

Questa e un'altra: quali obiettivi si pongono coloro che hanno messo in atto questa azione terroristica? E' difficile rispondere, non abbiamo notizie né indiscrezioni di chi possano essere, nonostante abbiamo attivato tutti i nostri canali, una rete importante di amici che come noi operano per la pace in quel martoriato paese. Non c'è una rivendicazione credibile, non ci sono richieste. Più facile è rispondere alla domanda: quali conseguenze avrà l'azione? Temo che spinga alla riduzione delle presenze internazionali, si vogliono togliere di mezzo i testimoni di pace. Per fortuna una cosa si è capita, anche i media mi sembra che l'abbiano capita: chi siamo noi, e qual è la nostra unica risorsa. L'unica cosa che abbiamo da offrire, a chiunque, siamo noi stessi e il nostro lavoro. E chi l'ha capito, qui come nel resto del mondo, ci sta offrendo la sua solidarietà. Dunque, che altro possiamo fare se non attivare una diplomazia della pace?

Voi sì, ma il governo? Cosa vi aspettate dal governo Berlusconi?

Che assolva ai suoi obblighi istituzionali, che lo faccia in prima persona, con discrezione, in silenzio, senza grandi annunci. Serve un'iniziativa politica che agisca a livello internazionale, coinvolgendo governi di altri paesi che in un modo o nell'altro sono «interni» alla vicenda irachena. Persino il governo iracheno che è quel che sappiamo ha un dovere istituzionale. Se non si aprissero canali di confronto, se non si arrivasse alla liberazione degli ostaggi, sarebbe certo un fallimento per il mondo pacifista ma anche di tutti i governi dei paesi implicati. Chiedere questo impegno, da parte nostra, non vuol dire rinunciare alla nostra assoluta dissociazione dalle scelte di guerra del governo. Scelte che rendono in qualche modo implicato in quel che sta avvenendo lo stesso governo italiano. Voglio essere più chiaro: ci sono le responsabilità materiali e dirette precise di chi ha compiuto questo atto terroristico ma in un contesto di guerra, di questa guerra, non può non essere chiamato in causa anche chi l'ha voluta e chi l'ha sostenuta. Il rapimento delle nostre compagne e dei due iracheni, potremmo dire, è un effetto collaterale di questa guerra.

C'è un nesso tra la richiesta di ritiro delle truppe italiane e la liberazione degli ostaggi?

Nessuno. Non è da oggi, né sotto ricatto che il movimento pacifista chiede il ritiro delle truppe e non come atto fine a se stesso ma come primo passo per l'avvio di un ruolo diverso dell'Italia sullo scacchiere internazionale, sulla via della pace. Non c'è legame dunque, anche se il nostro governo - se ha a cuore una soluzione positiva per la sorte di due sue connazionali - qualche passo potrebbe pur farlo. Faccio un esempio: non credo che il massacro della popolazione civile causato dai bombardamenti di Falluja aiuti l'avvio di una trattativa positiva. Almeno devono essere sospesi i bombardamenti indiscriminati sulle città. Lì ci sono vittime civili, come lo sono i pacifisti rapiti. Prima di tutto viene la salvezza degli ostaggi. A prescindere devono essere ritirate le truppe d'occupazione.

Domani (oggi per chi legge, ndr) a Roma ci sarà una grande fiaccolata per chiedere la liberazione degli ostaggi. Chi ti aspetti di vedere in piazza?

Gli stessi che si sono impegnati contro questa guerra e quelle che l'hanno preceduta. Poi, chi si è accorto che la scelta di schierarsi con Bush e mandare le nostre truppe è stato un errore. Infine, chi pensa che nelle guerre, almeno, si debba far di tutto per salvare i civili.

Se potessi mandare un messaggio ai rapitori, cosa diresti?

Non so chi siano. Se sono persone che pensano con queste azioni di liberare l'Iraq, direi loro che sbagliano sul piano umano e non avvicinano di certo il raggiungimento del loro obiettivo. Se invece fossero persone o poteri che non hanno a cuore la libertà e la sovranità dell'Iraq, francamente non saprei cosa dirgli.

Loris Campetti
Roma, 9 settembre 2005
da "Il Manifesto"