Luiz Inacio Lula da Silva, il presidente più votato nella storia del Brasile ed il secondo al mondo

Una vittoria per tutta l'America latina

C'è aria nuova in America Latina. Dopo una rincorsa durata quasi vent'anni, dopo quattro incredibili campagne elettorali e con una testardaggine che sembrava predestinata a sfiorare, senza mai afferrare il frutto delle lotte di tutti questi anni, Lula ha vinto. L'entusiasmo con cui è stata accolta la notizia, per molti ampiamente attesa dopo il brillante primo turno, va oltre i rituali festeggiamenti per i sostenitori di un candidato alle elezioni. Lula non ha vinto solo per sé, ma soprattutto ha vinto, come lui stesso ha dichiarato, con i consensi di un popolo "che non ha avuto paura di essere felice". I dati della vittoria del Presidente Da Silva (ma noi speriamo che lo chiamino così solo nelle occasioni obbligate del protocollo ufficiale!) spiegano meglio di ogni altra considerazione il senso di questa vittoria. Lula ha vinto in tutti gli stati del Brasile, raggiungendo percentuali trionfali in aree di enorme importanza ( 79% a Rio de Janeiro, 75% nello stato dell'Amazonas, quasi il 70% a Bahia e a Minas Gerais, oltre il 65% nelle città di Sao Paulo e Brasilia), aree particolarmente significative perché erano mancate all'appello delle precedenti consultazioni elettorali determinandone la sconfitta. In queste regioni si concentrano le zone povere del paese, e sono state proprio queste ad avvertire la possibilità di un cambiamento e di una rottura con i dogmi del neoliberismo. Altrettanto significativo è il rallentamento avuto nelle tradizionali roccaforti del Pt dove si sono riscontrate le percentuali più basse (sempre però oltre il 50%) e dove, come nello stato del Rio Grande do Sul, l'ultimo sindaco di Porto Alegre, Tarso Genro, ha subito una cocente sconfitta. Si tratterà di indagare su una modificazione della stessa composizione sociale del voto. Non solo un uomo della storia della sinistra alternativa va al governo in una delle principali potenze economiche del mondo, ma ci va contraendo un debito sociale con tutte quelle parti della società brasiliana che hanno costruito in questi anni l'attesa per una svolta nel paese. Ci va con i Senza terra, con i Senza casa, con i lavoratori della centrale sindacale Cut ed anche con l'appoggio di ampi settori della Chiesa, quelli che in questi anni hanno criticato a fondo le dottrine neoliberiste.

In effetti è bene dire che la vittoria di Lula segna anche la sconfitta di un ciclo, almeno in America Latina, che si era contrassegnato con l'importazione della Terza via di Blair, D'Alema e Clinton. Non bisogna mai dimenticare che D'Alema sostenne la campagna elettorale dell'ex presidente Cardoso, invitandolo come rappresentante della sinistra liberale in un infelice meeting dei clintoniani, tenutosi a Firenze qualche anno fa. Né si può sottovalutare che la drammatica crisi economica, determinata dalle politiche neoliberiste, in Argentina, in Uruguay, in Equador abbia profondamente segnato le intenzioni degli elettori.

Queste politiche erano scritte dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, ma erano ampiamente promosse da tutti i governi di "centrosinistra" esistenti, tanto che l'Internazionale Socialista bollava di eresia chiunque se ne discostasse.

Eppure in tutto il Sud America le cose non vanno come l'establishment della globalizzazione aveva previsto. Oltre alla vittoria di Lula c'è il vantaggio del leader della sinistra radicale in Equador nelle elezioni presidenziali, c'è la crescita dei consensi del Frente Amplio (di cui è parte rilevante il Partito Comunista) in Uruguay, c'è la resistenza della guerriglia in Colombia (alla faccia della presunta liquidazione della stessa in poco tempo, come aveva previsto il presidente Uribe), c'è la orgogliosa presenza di Cuba e soprattutto resta in sella Chavez, nonostante la Cia sostenga, almeno settimanalmente, un golpe nella seconda potenza dell'Opec.

Molta parte del cambiamento è però proprio nelle mani del nuovo governo brasiliano. Non è un caso che la stampa nordamericana sia, per ora, attraversata da pulsioni contraddittorie. C'è chi, come il New York Times, è già pronto con il dito sul grilletto, affermando che la vittoria del Partito dei Lavoratori ha un connotato prevalentemente antiamericano e quindi, in nome del primato della libertà del mercato bisogna contrastare Lula e la sua politica economica (a partire dalla riconsiderazione del prestito erogato dal Fmi per gennaio); chi più prudentemente, come il Washington Post, cerca di mettere in evidenza le parole moderate di Lula e di investire su un compromesso neoliberista cui una potenza economica come il Brasile sia "oggettivamente" costretto. Di tutt'altro segno i commenti di quotidiani sudamericani, come l'argentino Clarin, che parlano apertamente di una rottura con il neoliberismo statunitense, in particolare per le distanze prese dall'Alca (il trattato di libero commercio voluto fortemente dagli Usa) a favore di una ripresa del Mercosur (l'area di scambio composta da Argentina, Paraguay, Uruguay, Cile e Brasile).

Non mancheranno certo le verifiche su quali saranno gli atti concreti di una presidenza così attesa, a partire dalle prime uscite pubbliche e dalle posizioni che il Pt assumerà nel prossimo Foro di Sao Paulo, che si terrà in dicembre in Guatemala o dall'atteggiamento che avrà nei confronti di Chavez e, anche per la fortissima valenza simbolica, verso l'embargo cubano.

Di alcune cose siamo però certi. La vittoria non comporterà la scomparsa del conflitto sociale: del resto i Sem Terra lo hanno già preannunciato e guardano a queste elezioni per la speranza che incorporano, e non come ad un obiettivo raggiunto. L'esperienza del Pt è fortemente radicata nelle viscere del conflitto sociale brasiliano e la stessa sconfitta di Tarso Genro, che ha molto privilegiato i rapporti con i vecchi "amici di Cardoso" come i Ds in Italia, denuncia uno stretto controllo popolare sul mantenimento delle promesse fatte.

Infine si può trarre una confortante lezione da queste elezioni. La crisi delle politiche neoliberiste, in particolare nei paesi dove gli effetti sono stati più cruenti, apre la strada alle forze che si propongono come alternative. Si rompe insomma la gabbia psicologica del sentirsi solo testimoni e comunque in minoranza, per affrontare direttamente l'impegno del governo. In Europa la crisi del riformismo propone l'ambizione dell'egemonia a tutte le forze che si dicono di alternativa ed il prossimo Forum Sociale Europeo ne
sarà certo una ulteriore verifica.

post scriptum

Il Partido
dos Trabalhadores (PT) brasiliano, nel momento della sua massima crisi, decise di investire sul movimento e propose a tutte le anime che lo stavano costruendo di ritrovarsi a Porto Alegre. C'è qualcuno che pensa che sia solo una coincidenza?

Gennaro Migliore
Roma, 29 ottobre 2002
da "Liberazione"