La strage di Racak fu la causa scatenante l'intervento NATO in Kosovo
Fu vera strage?
O vera bugia?

Cosa accadde davvero a Racak, in Kosovo, il 15 gennaio 1999?
Fu davvero un "massacro" di civili, come si precipitò a dire il capo della missione Osce, William Walker, avviando così la guerra contro la Jugoslavia?
Non ne è affatto sicura la patologa finlandese Helen Ranta, coordinatrice del team che esaminò 40 dei 44 corpi trovati a Racak da Walker (l'atto d'accusa del tribunale dell'Aja parla di 45 vittime, cinque furono portate via dalle famiglie), tanto che non se la sente di escludere "una messa in scena".
La dottoressa Ranta ha accettato per la prima volta di farsi intervistare. Le sue dichiarazioni sono state trasmesse giovedì sera nell'ambito della trasmissione Monitor , sulla prima rete televisiva tedesca Ard.

"So bene che si potrebbe arrivare alla conclusione che tutta la scena in quella valletta a Racak sia stata preparata. Ne sono consapevole. E' di fatto possibile. E' questa la conclusione che suggerivano sia i nostri primi referti, sia gli esami successivi che abbiamo effettuato sul posto nel novembre 1999. E questa conclusione l'abbiamo subito comunicata anche al tribunale dell' Aja. L'ambasciatore Walker arrivò sabato a Racak, e fu una sua decisione personale parlare di un 'massacro'. Io ho sistematicamente evitato l'uso di questo termine".

La dottoressa Ranta non vuole nemmeno escludere che almeno una parte delle vittime fossero combattenti dell'Uck, l'armata indipendentista kosovara:

"Allora Racak era una roccaforte dell'Uck. Ci sono informazioni certe sui combattimenti che vi hanno avuto luogo tra militari serbi e Uck, non se ne può dubitare. Inoltre mi è stato detto, e ho anche potuto leggere informazioni a riguardo, che quel giorno a Racak sono stati uccisi combattenti dell'Uck".

La discussione su Racak è ripresa in Germania il 17 gennaio. La Berliner Zeitung ha anticipato il contenuto di un articolo di tre patologhi dell'equipe finlandese della signora Ranta, che sarà pubblicato dalla rivista Forensic Science International (ne ha scritto Tiziana Boari su il manifesto del 6 febbraio). I tre medici, riassumendo le conclusioni del rapporto ufficiale dell'equipe - tenuto tutt'ora sotto chiave dall'Unione europea - confermano la mancanza di prove a sostegno della tesi del massacro di "civili". Infatti non si riuscì né a indentificare le vittime, né la loro provenienza da Racak, e nemmeno a ricostruire "la posizione delle vittime nel luogo dell'incidente".

Solo in un caso i periti trovarono tracce di polvere da sparo, indizio di un colpo esploso da breve distanza come in una esecuzione. Il ministro della difesa Scharping fu tempestivamente informato di queste incongruenze.
Nei rapporti riservati del suo ministero si parlava dei combattimenti tra Uck e truppe serbe a Racak.
E si riferiva che lo stesso Walker, il 22 gennaio, aveva ammesso di non conoscere "tutte le circostanze".
Ciò non gli impedì di pronunciare a caldo il suo verdetto attorniato da una trentina di giornalisti e fotografi che confusero le tracce, arrivando a spostare i corpi per ottenere inquadrature più shoccanti.

"Con questo suo comportamento - ha commentato nella trasmissione Heinz Loquai, generale in pensione, all'epoca consigliere militare presso la delegazione tedesca alla Osce - Walker accese la miccia della guerra".

Subito dopo è andato in onda uno speciale sulle bugie della propaganda "umanitaria" nella guerra aerea contro la Jugoslavia, frutto di mesi di ricerche di due redattori di Monitor, Mathias Werth e Jo Angerer.
Esplicito il titolo: "Tutto cominciò con una bugia", quella detta dal cancelliere Schröder il 24 marzo 1999: "Questa sera la Nato ha iniziato i suoi bombardamenti contro obiettivi militari in Jugoslavia per scongiurare una catastrofe umanitaria".
Era davvero in corso una strage premeditata degli albanesi in Kosovo?
O una guerra civile con atrocità da entrambe le parti, e con sanguinose rappresaglie, come a Drenica, marzo 1998, quando i serbi massacrarono due clan albanesi legati a un leader Uck, senza risparmiare donne e bambini?
Nel marzo 1999, fino all'inizio dei bombardamenti, l'Osce aveva contato 39 morti: un terzo poliziotti e soldati serbi, un terzo combattenti Uck, un terzo civili di entrambi i gruppi etnici.

Di genocidio non parlavano né l'Osce, né i rapporti riservati del ministero della difesa tedesco:

"Negli ultimi giorni non si sono verificati grossi scontri armati... Le truppe serbe si limitano a pattugliamenti, ricerca di d'armi, controllo delle vie importanti".

Senza solidi argomenti, Scharping lanciò accuse che non trovano riscontri. Parlò dello stadio di Pristina trasformato in un "campo di concentramento" (per il ministro degli esteri Fischer non si poteva tollerare "il ripetersi di Auschwitz"), di 'S' dipinte sulle porte delle case serbe di Pristina perché fossero risparmiate.

Spiegò come i serbi incendiavano le case albanesi: aprendo una bombola di gas in cantina e lasciando una candela accesa in soffitta. I reporter sono andati a Pristina, hanno parlato con gli albanesi di un palazzo che si affaccia sullo stadio: nessuna traccia di internamenti.
Nessuno ha mai visto una 'S' dipinta su nessuna porta.
E gli incendi? Il gas è più pesante dell'aria: è fisicamente impossibile che il "sistema" di Scharping funzioni.

Guido Ambrosino
Berlino, 10 febbraio 2001
articolo da "Il Manifesto", 10 febbraio 2001