Siamo partiti per Ramallah perché sentivamo il bisogno di
essere vicini ai nostri amici palestinesi e di essere là dove loro ci
chiedevano di essere.
Il giorno prima eravamo passati in massa attraverso il
check point di Betlemme cogliendo di sorpresa i soldati di guardia ed eravamo
sfilati in quattrocento attraverso la città.
La gente si faceva sulla porta e
ai balconi e ci diceva “non è qui dovete venire, dovete andare a Ramallah dal
nostro presidente” A Betlemme si aspettavano l’arrivo dell’esercito di ora in
ora, ma pensavano che il posto importante fosse Ramallah dove c’è Arafat.
Con i tempi palestinesi un po’ elastici e quelli del gruppo
ancora più elastici, ci siamo avviati dall’albergo Ambassador di Gerusalemme
alle 9 di mattina.
Io avevo anche una missione privata da compiere, dovevo
assolutamente vedere mia sorella Piera e suo marito Jamil e portare a loro la
mia solidarietà.
Io non sono per niente abituata alla guerra.
Sul van che ci
trasportava verso i due check points
avevo un po’ di paura.
Siamo passsati dal primo ufficialmente, quello di el-Ram.
Abbiamo superato il secondo come tutti i palestinesi fanno, a piedi,
un po’ affannati, su un sentiero piuttosto scosceso e accidentato.
Non è per la
sicurezza loro che gli israeliani impongono i check-points, i check points si
superano con una certa disinvoltura se non si è vecchi, malati, partorienti o
se non si devono fare trasporti.
I check-point hanno unicamente la funzione di
molestare la gente e di umiliarla, di farla aspettare in coda per ore per poi
dire “no, oggi non ti faccio passare”, affinché per percorrere 20 chilometri ci
si impieghino sei ore e si perdano
giornate di lavoro, di studio, di vita.
Al di là del check point di Qalandya ci aspettavano altri
due vans e abbiamo incominciato l’avvicinamento alla zona effettivamente sotto
assedio.
I giovani palestinesi che ci conducevano avanzavano, spiavano dagli
angoli, facevano marcia indietro, avvistavano un carro armato, svoltavano
bruscamente a destra o a sinistra.
Ad un certo punto la situazione era un po’
tesa e abbiamo dovuto fermarci per una mezz’oretta in una zona sicura per
aspettare che passasse il momento critico.
E’ arrivata un’ambulanza con la
bandiera della Croce Rossa e si è messa davanti al nostro piccolo convoglio.
Sali e scendi, gira e svolta ancora per un po’ e alla fine eravamo in salvo
all’Hotel Ramallah dove dovevamo incontrare il gruppo dei francesi e degli
italiani che ci avevano preceduto il giorno prima.
Quelli che erano già lì ci hanno
messo al corrente di ciò che avevano fatto e di quello che si apprestavano a
fare.
I francesi avevano in mente di andare al Mukata, il cosiddetto quartier
genrale di Arafat, passando per gli ospedali per donare il sangue e vedere di
che cosa ci fosse bisogno.
Siamo partiti in un gruppo di circa cinquanta
persone, i francesi sono molto organizzati e determinati, un po’ arroganti.
Loro andavano a passo serrato, quasi di corsa.
La regola in zona di guerra è di
camminare in mezzo alla strada, di farsi vedere e di stare insieme il più
vicini possibile.
Avevano i nostri pettorali bianchi e tutto quello che di
bianco potevamo portare.
Avevo parlato con Piera al telefono e sapevo che dovevo essere nei dintorni,
ma non sapevo dove e mi prendeva l’ansia di non riuscire a incontrarla, o
vederla.
Le strade erano vuote, la città completamente deserta, si sentiva e si
sarebbe sentito per tutti i due giorni lo spaventoso sferragliare dei carri, si
sentivano gli scoppi, gli spari.
Dietro ad una curva, eravamo quasi agli
ospedali, in cima alla salita c’era un carro armato con il suo bel cannone
puntato su di noi.
Era in mezzo alla strada, tra i due ospedali che sono uno di
fronte all’altro.
Aveva una voce, il carro, che diceva “Go away”.
In tono assai
minaccioso.
Go Away, veniva fuori dal mostro, go away.
La capa della
delegazione francese, molto tosta che si chiama Claude ha lasciato il gruppo e
è andata avanti adagio, gridava “I want to talk to you”, aveva le mani come le
deve tenere la gente in questi casi , allargate ma non alte.
Diceva “I want to
talk to you” con aria altrettanto imperiosa, ogni volta che dal carro proveniva il go away.
Mi sono
ricordato in quel momento che in Africa una studiosa di leoni ci aveva detto che
se si incontra un leone aggressivo bisogna alzare la voce e gridargli di
andarsene con tono deciso.
Andavamo avanti piano piano tra un go away e un I
want ot talk to you.
Strano, ma il carro andava indietro.
Siamo arrivati
all’altezza del cancello del primo ospedale sulla sinistra e ci siamo accorti
di quello che stava succedendo.
L’esercito era lì per occupare gli ospedali,
c’erano due cingolati nel cortile e dei soldati già dentro.
Infermiere,
infermieri e dottori erano seduti per terra davanti al mezzo, con una fila di
soldati che gli puntava addosso il fucile, con i loro corpi volevano impedire
al mezzo di entrare e ai soldati di passare.
Ci siamo infilati con loro e ci
siamo messi lì davanti ai soldati.
La situazione si è inasprita quando su due barelle spinte a mano sono arivati due ragazzi morti,
giovani, uno con un buco nella tempia, e l’altro con un buco nel torace grande
come un cratere.
Il personale dell’ospedale si è messo a gridare, ha preso i
morti e li ha portati davanti ai soldati, i soldati si sono spaventati, Roberto
Giudici si è mezzo per proteggere i dottori e gli infermieri.
I morti sono
stati portati dentro l’ospedale, la tensione era alta.
Fuori alcuni
parlamentavano con i soldati del carro armato.
Poi miracolosamente soldati
hanno cominciato a ritirarsi indietro, liberando il cortile, il carro armato a
iniziato a indietreggiare, i due cingolati li hanno seguiti, I militari che erano già dentro all’ospedale sono
usciti e tutti se ne sono andati giù per la strada
verso il centro città.
Siamo stati festeggiati come dei liberatori.
Una forza
di protezione di pensionati, , studenti, impiegati, insegnanti, preti sbucati
fuori dalla curva all’improvviso avevano scacciato l’esercito.
I francesi hanno proseguito, sono arrivati al Mukata, si
sono uniti al presidente Arafat, e alcuni sono ancora là con lui.
Se non ci
fossero, forse Arafat sarebbe gia’ morto.
Noi siamo rimasti agli ospedali, la
gente temeva che l’esercito sarebbe ritornato.
E’ successo infatti nel pomeriggio quando è comparso un
carro che, ci ha visto, ha fatto un elegante giro a U e se ne è
ripartito.
Intanto noi avevamo offerto
di donare il sangue.
A poco serve il sangue perché è raro che la gente
arrivi ferita.
In genere l’esercito di occupazione fa in modo che arrivi già
morta.
Comunque la nostra offerta di sangue è stata gradita, solo che siamo
tutti mezze calzette e quasi nessuno di noi aveva un sufficiente tasso di
emoglobina, forse per la gran paura.
Ci hanno dato da mangiare, ci hanno fatto un esame gratuito del sangue, sani, ma debolucci, e ci hanno detto restate con noi.
Abbiamo deciso di passare la notte con loro, facendo turni
di guardia.
Ci hanno dato le coperte estraendole da loro magazzino e ci hanno
dato un posto per dormire con anche il bagno.
Lisa Clark e io siamo uscite in
una missione di protezione di un
infermiere che andava in una casa
del vicinato a prendere la chiave del magazzino.
Avevamo una paura tremenda.
Nel buio, anche solo attraversare la strada ci sembrava un salto nell’ignoto.
Cinque minuti di passeggiata velocissimi ci sono sembrati eterni e abbiamo
tirato tutti e tre un gran fiato quando siamo rientrati.
Poco prima avevamo
visto le infermiere di un turno con i loro veli islamici bianchi avviarsi verso casa strette l’una all’altra per
farsi coraggio e poi girare a
destra e sparire inghiottite nella
notte.
Nella notte, durante il mio turno di guardia, chiacchieravo
con questi medici e questi infermieri che ormai vivono all’ospedale perché non
possono tornare a casa.
Di notte il cecchino diventa cattivo e nervoso e spara giù dai piani alti, e i
rastrellamenti non hanno comunque mai sosta.
Sono gente dolce e colta, amante
del suo lavoro e fiera del suo ospedale.
L’esercito di occupazione sta cercando
di distruggere tutte le infrastrutture dell’Autorità Palestinese.
Nella notte
fredda, passeggiavo in su e in giù
con un tecnico della riabilitazione e parlavamo dei cosiddetti terroristi
suicidi.
Non ho trovato nessuno, mai nessuno che non fosse pronto a
giustificare, a sostenere i gesti di questi martiri.
E’ inutile starsi a
raccontare storie.
Al piu’ ti dicono che non lo farebbero personalmente, al
massimo dichiarano di non essere ancora arrivati al limite della disperazione.
Al massimo ammettono che politicamente magari è controproducente, o perfino
dannoso, ma la rabbia, la disperazione, l’umiliazione, non si possono sempre
incanalare in direzioni razionali.
Anche lui diceva quello che dicono tutti.
Ci
sono tre ragazzini, forse di diciassette, diciotto anni che si stringono
tremebondi l’uno all’altro.
Sono poliziotti, mi dicono, si sono tolti la divisa
e sono scappati dal centro.
Sono terrorizzati.
Sanno che se I militari li
prendono per loro sara’ la fine.
I medici non li possono far entrare
nell’ospedale perch’ se vengono a fare un rastrellamento e li scoprono, anche
per tutti gli ltri e’ la fine.
Gli dico di stare li, con noi, perch’
probabilmente qui l’esercito non si avvicinera’ troppo.
C’e’ anche uno stremato
giornalista palestinese con giubbetto antiproiettile.
Da oggi ce l’hanno anche
con I giornalisti e lui, essendo palestinese teme piu’ degli altri.
Qualcuno di
noi gli offre delle sardine sott’olio e dei biscotti, poi lo vedo dormire su
una sedia con la sua telecamera stretta al petto come un neonato.
La notte e’
poi passata tranquilla, solo a un certo punto si e’ visto transitare un carro,
e subito il fischietto della sentinella ha lacerato la notte.
Ma poi il carro
se ne e’ andato per i nevrotici fatti suoi e tutto e’ tornato tranquillo.
La mattina eravamo discretamene riposati.
Parte un drappello composto da Roberto
Giudici, Floriana, Giordano e o per l’albergo Ramallah dove sono arrivati altri
italiani e riportarli all’ospedale.
Floriana si e’ aggregato perche’ vuole andare a far visita alla sua amica Tea
che con il marito Isham e i due bambini vive a pochi passi dall’albergo
Ramallah.
Io mi sono agregato perche’ sono determinata a vedere la Piera.
Ed
eccoci in casa di Isham e Tea che ci fano una festa grandssima.
Ogni visitatore
dall’esterno che riesce a rompere l’assedio e’ visto come un liberatore.
Io
sono nervosissima.
Con l’aiuto di isham riesco a capire quale e’ la casa di
Jamil e Piera, proprio l’ a cento metri pi’ in basso.
E telefono e viene alla
finestra.
Grande commozione.
Ci sventoliamo bandiere bianche.
Vicinissime e
lontanissime.
Sotto nella strada ronzano troppi carri armati per potersi fidare
ad attraversare i duecento metri che ci separano.
Abita su un cruciale
incrtocio a pochi passi dalla citta’ vecchia, con il municipio davanti e la
zona e’ presidiatissima.
Ad un certo punto mi sembra che la situazione si alleggerisca, Isham mi dice, dai proviamo, ti
acompagno un pezzetto.
Corro giu’ per luna scaletta, attraverso la stada piu’
in la percorro altri cinquanta metri.
La gente si affaccia e mi prepara la
porta aperta in caso di bisogno.
La piera scenda in strada incotro a me, e
finalmente possiamo abbracciarci.
Andiamo di sopra, un te’ nervosamente, mi
accorgo di aver dimenticato le sigarette che le avevo comprato, le consegno i soldi che le ho portato,
visito l’appattamento, e sono pronta a ripartire dopo non pi’ di venti minuti.
Gia’ i carri armati stanno di nuovo scendendo la collina di fronte e in
pochissimo tempo la zona ne e’ tutta di nuovo piena.
Ma non solo, arivano dei
blindati per il trasporto truppe
che vomitano decine di militari che corrono da tutte le parti in pieno assetto
di guerra.
Preoccupati li guardiamo dal balcone.
Telefono: Piera, li vedi? Si’,
mi risponde con voce rotta.
Che vogliono? Niente di buono.
C’e’ tutto un
correre, acquattarsi, i carri si fanno piu’ sotto alla casa.
Vogliono proprio
loro, mi terrorrizzo.
Infatti altra telefonata.
Hanno preso Jamil, lo hanno
portato fuori con fucile piantato addosso.
La Piera e’ stata chiusa in una
camera con la vicina.
Telefono a tutti quelli che possono, telefono al
giornalista paolo colombo facendogli una scenata e lui mi mette giu’ il
telefono.
Isham vede che sono entrati nell’appartamento e stanno andando avanti
e indietro.
Quando perquisiscono tirano giu’ le tapparelle.
Poi sapremo che lo
fanno perche’ nessuno dal di fuori veda che stanno rubando.
Sap[remo in seguito
che hanno portato via i 500 dollari che Jamil aveva in un cassetto chiuso a
chiave.
Non hanno sfondato le porte perche’ prudentemente erano state lasciate
aperte, non hanno rubato i soldi
della colletta perche’ la Piera se li era messi in borsa, sapendo bene
che il furto e’ una prassi
abituale delle perquisizioni.
Quando tutto finisce si tira un sospiro di sollievo, il
dente e’ stato tolto.
Tanto il destino ineluttabile del Palestinese e’ quello
di subire rastrellamenti
interrogatori e arresti ogni due per tre, e quindi quando succede ci si
puo rilassare per un po.
Cala la sera, nalla casa di Isham e Tea i bambini giocano
come tutti i bambini, vanno e vengono dal vicinato, guardano la televisione,
non andranno a scuola ne’ domani ne’ dopo, ne’ chissa’ per quanto tempo,
collezionano bossoli, contano i carri armati che sferragliano, dicono parolacce se sentono il nome di
Sharon, indicano gli incendi, sentono le bombe, vedono i razzi sparati dagli
elicotteri.
La televisone e’ sempre accesa su el-Jazeera, oppure su Dubai.
Il
canale internazionale della Rai
ogni tanto trasmette quei classici servizi bipartisan in cui domina la
voce di Amos Luzzato, e si vedono vere e proprie falsita’.
Interp[retano la
consueta cerimonia funebre palestinese come una festa in onore del martire
suicida.
Isham spiega che invece tutte le cerimonie sono uguali, qualsiasi sia
la ragione della morte.
I parenti e gli amici (qui le famiglie sono tutte
allargate, con anche centinaia di persone) vanno a fare visita alla casa del morto, dove qualcuno, la madre
se e’ il figlio, canta le lodi dello scomparso, anche se e’ morto di polonite e
dice quanto era’ bello, bravo, coraggioso e valente.
Tutti si abbracciano e si
baciano, per confortarsi, I palestinesi cone tutti i popoli di qui, sono molto
corporei .
Noi grandi parliamo della difficolta’ di essere palestinesi, del doverlo negare ad ogni
controllo, di politica, di
religione, di ebrei, di arabi, di palestina, di palestina, di palestina.
Ne
dovranno passare degli anni prima che le ferite delle umiliazioni, delle
offese, degli insulti alla
dignita’, della privazione di ogni diritto possano cicatrizzare.
Il
segno restera’ sempre.
Durante la giornata un altro gruppo e’ andato in aiuto a
Moudstafa Barghouti al Medical Relief Committee.
Moustaph ha telefonato dicendo
che ha bisogno di internazionali da mandare sulle ambulanze per proteggere I
medici e gli infermieri che girano portando medicine e aiuti in cibo.
Infatti I
militari fermano le ambulanze e, se I palestinesi sono soli, li malmenano, li
picchiano, li arrestano, li minacciano o semplicemente impediscono loro di fare
il loro mestiere.
La televisione
trasmette in dietta la scena del fermo di una di queslle ambul;anse.
Riconosco
uno dei nostri, Francesco, dallo
zainetto rosso e dal pettorale di Action for Peace.
Sono tutti inginocchiati
contro un muro con le mani dietro la nuca.
Poi li lasciano sedere.
Evidentemente i prigionieri ottengono il permesso di fumare e capiamo che si
tratta di un’azione morbida.
Li fanno sedere per terra, poi dopo un po’ li
portano tutti via.
Chissa’ dove?
Sappiamo che Luisa, Albino, Lisa, Alberta, Walter sono invece in
trappolati al Medical Relief, dove I soldati hanno accerchiato l’edificio e
intimano a tutti di uscire altrimenti
bombardano.
I soldati sono convinti che nell’ospedaletto siano nascosti
dei poliziotti armati.
Ora, essere poliziotti comporta necessariamente essere
armati, ma qui l’esercito ha gia’ giustiziato con esecuzioni sommarie diversi
poliziotti.
Le regole non ci sono piu’ Il medico Mohamed esce fuori a dire che
non c’e’ nessun uomo armato.
Lo prendono come scudo e lo portano in giro a fare
la perquisizione.
Ad un certo punto in cantina trovano una porta chiusa della quale nella confusione non si
trova la chiave.
Cio’ basta per intimare a tutti di abbandonare l’edificio con
le mani alzate, uomini di qui, bambini di la’ donne con I bambini.
E poi
cominciano a sparare colpi di cannone.
Dall’edificio vicino provengono degli
spari.
Cannoneggiano anche quello.
Un uomo, un civile, salta dalla finestra, il
dottore e Luisa vanno per soccorrerlo, ma gli viene intimato di non
avvicinarsi.
C’e’ una vera e propria rissa attorno al ferito con I militari che
lo tirano da una parte e I nostri
che lo tirano dall’altra.
Andiamo a dormire mentre verso Betunia il cielo e’ rosso
fuoco e le bombe assordano.
Stanno assalendo la sede della forza di protezione
palestinese, dove sono asserragliati 400 palestinesi con donne e bambini.
Andranno avanti per tutta la notte, tenendo svegli tutti tranne me che dormo il
sonno dell’innocenza.
Fuori dalla finestra a cinque metri dal mio letto, staziona un grosso carro armato.
Al risveglio ci telefonano che arrivano a prenderci.
Parlo
un’ultima volta al telefono con Piera.
La saluto dalla finestra.
Le raccomando
stai attenta.
Mi raccomanda stai attenta.
Ritorniamo a piedi indietro
all’ospedale, camminando in mezzo alla strada, senza guardare in giro, senza
rispondere alla gente che si affaccia sulle porte chiedendo, implorando un po’
di cibo, pane, latte, acqua.
Mandate qualcuno, venite a vedere, la mia mamma e’
anziana, malata.
Non possiamo fermarci.
Come sempre tutti gridano welcome,
agitano le due dita a V.
Arriviamo all’ospedale.
Arriva qualcuno dicendo che fuori in
strada c’e’ una donna ferita.
Un cecchino le ha sparato mentre se ne tornava
dopo una medicazione.
E’ in terra, tre dei nostri cercano di avvicinarsi per
soccorrerla.
Sparano anche su di loro per tenerli lontani.
Poi la finiscono.
Continua ad arrivare gente.
Qui non si capisce piu’ se siamo
noi a proteggere l’ospedale o l’ospedale a proteggere I giornalisti, I
poliziotti, gli internazionali.
Un gruppo
di noi decide di tornare a Gerusalemme.
A piedi se necessario.
Luisa ci
organizza una guida, ma dobbiamo raggiungerla perche’ e’ troppo pericoloso per
lei venire fino a qui.
Ci aspetta alla stazione televisiva palestinese, che da
mesi e’ stata fatta saltare in aria e ne restano solo dei ruderi anneriti.
L’attraversamento della citta’ spettrale, sotto un pioggia sferzante, e’
piuttosto impressionante.
Abbiamo vaghe indicazioni della strada da percorrere,
ma non siamo sicuri di dove andare.
La gente si affaccia e grida avete bisogno
di aiuto? Noi sappiamo che e’ meglio non rispondere per non mettere in pericolo
noi e loro.
Dopo una camminata di un’oretta, alla stazione televisiva non
vediamo nessuno, poi vediamo venire su per la strada una ragazzina con uno
straccio bianco e un piccolo ombrello.
Lei e’ la nostra guida.
Ne arriva anche
un’altra, senza ombrello.
Ci
guidano per la strada delle montagne, cosi’ dicono, che non dobbiamo rivelare a
nessuno.
Attraversiamo campi
sentiamo il profumo del timo, ci sono i fiori di primavera gialli e rosa, ci
teniamo sotto gli ulivi ben potati
e fioriti quando ci sono, un pastore con un gregge fa un po’ di tragitto con noi, a cavallo di un
asinello.
Dico al Massimo: siamo come Ulisse che scappa da Polifemo insieme
alle pecore.
Il fango del terreno argilloso si appiccica alle scarpe e si
scivola.
Attraversiamo fossi e ci arrampichiamo per muretti.
Sembriamo una
misera armata brancaleone, guidata da due giovanne d’arco piccoline e magre,
con l’ombrello.
Alla fine vediamo davanti a noi il paese di Qalandia.
Abbiamo aggirato il check point e siamo ormai in salvo.
La gente viene fuori
dalle case, thank you, welcome, segni di vittoria.
Ancora qualche chilometro e
arriviamo al check point di
el-Ram.
I soldati non ci fermano, ci dicono delle parole di scherno, che
non capiamo, ridono di noi.
Effettivamente simo proprio buffi, tutti infangati
e bagnati come pulcini.
Al di la’,
ci e’ stato annunciato, dovrebbero esserci le macchine consolari e anche la
stampa.
Sono certa che invece non vedremo nessuno.
Il console di Gerusalemme si
e’ sempre distinto per il suo indomito coraggio.
Prendiamo un taxi.
CON LA PALESTINA NEL CUORE.