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«Il paesaggio sfida qualsiasi descrizione. Un'incarnazione dell'orrore, una visione dopo un
uragano. Case distrutte, in tutto o in parte, rottami di cemento e di ferro, grovigli di fili
elettrici. Auto polverizzate dai carri armati o dai missili aggiungono una dimensione di barbarie
a questo spettacolo spaventoso. Un puzzo acre di cadaveri aleggia sulle macerie».
Chi scrive queste drammatiche parole è Amnon Kapeliouk, giornalista israeliano fra i più noti,
autore nel dicembre 1982 del dossier: "Sabra e Chatila - Inchiesta su un massacro", che all'epoca
fece scalpore mettendo in luce in modo documentato e impietoso le responsabilità degli ambienti
militari di Tel Aviv e dell'allora ministro della Difesa (e oggi primo ministro) Ariel Sharon.
Ma il brano sopra citato non si riferisce al massacro di Sabra e Chatila: Kapeliouk lo ha scritto
nel maggio scorso su "Le Monde Diplomatique" al termine di una nuova inchiesta, questa volta
nel campo profughi di Jenin, teatro di un nuovo "crimine di guerra" - come lo definisce senza
mezzi termini egli stesso - commesso dall'esercito di Israele.
In questi giorni ricorre il ventesimo anniversario della tragedia di Sabra e Chatila, e il fatto
che Amnon Kapeliouk sia costretto a ricordarlo occupandosi di un'altra tragedia la dice lunga
su come vanno le cose in Medio Oriente.
Dopo venti anni, vediamo vanificati e consumati i passi avanti, le speranze o forse le illusioni
che hanno caratterizzato l'ultimo decennio del secolo scorso; e questo ci aiuta a cogliere il
senso di quel massacro di venti anni fa, a mettere in luce l'infame disegno strategico che lo
rese possibile e che rende oggi possibile quanto sta accadendo sotto i nostri occhi.
Molto opportuna dunque l'iniziativa della casa editrice Crt di ripubblicare integralmente il
libro di Amnon Kapeliouk, uscito allora a cura della rivista "Corrispondenza internazionale"
per la traduzione di Giancarlo Paciello (autore anche di un recente e documentato saggio su:
"La nuova Intifada", edito dalla stessa Crt). La nuova edizione (maggio 2002, pagg. 119, euro
10,00) è del tutto identica alla precedente ed è corredata da una prefazione di mons.
Hilarion Capucci e da una introduzione di Stefano Chiarini, promotore del Comitato "per non
dimenticare Sabra e Chatila" che in questi stessi giorni ha promosso dall'Italia una folta delegazione
sui luoghi del massacro.
Di Sabra e Chatila è stato scritto tanto, anche su queste colonne, che è superfluo rifarne
in dettaglio la storia. Introducendo il 16 settembre nei campi profughi i miliziani al comando
di Elie Hobeika, il comando e il governo di Tel Aviv sapevano benissimo quali fossero le intenzioni
dei falangisti, che non le avevano minimamente nascoste; e lo stesso vice-inviato americano
nella regione Morris Draper cercò invano di impedire che ai miliziani fosse dato via libera.
La strage andò avanti per oltre 40 ore a colpi di arma da fuoco, di coltello, di ascia; i soldati
israeliani impedirono a chiunque (in particolare ai giornalisti) di avvicinarsi ai campi ma
anche di uscirne, ricacciando di fatto indietro chi cercava di fuggire, e ne illuminarono di
notte il cielo con i bengala per agevolare i movimenti dei miliziani.
Il massacro venne fermato solo alle 10 del 18 settembre, quando la notizia era diventata ormai
di pubblico dominio.
Il numero preciso delle vittime è tutt'ora ignoto, i calcoli e le stime più attendibili lo collocano
intorno ai tremila morti, ma potrebbero essere anche di più.
L'esecrazione e la protesta della opinione pubblica e del movimento pacifista israeliano - che
portò il 25 settembre nelle strade di Tel Aviv 400mila manifestanti - costrinsero il governo
a istituire una commissione d'inchiesta, la Commissione Kahane, che il 7 febbraio 1983 approvò
un rapporto contenente severe censure nei confronti in primo luogo del ministro della Difesa
Sharon (che fu costretto a lasciare l'incarico) ma anche del primo ministro Beghin e dei vertici
militari.
Ma a parte la costituzione di Sharon - rimasto peraltro nel governo a diverso titolo - nessuno
dei responsabili della strage ha mai pagato il suo debito con la giustizia, salvo - in un certo
senso - il capo falangista Elie Hobeika, ucciso nel gennaio scorso a Beirut in un oscuro attentato,
che tutti in Libano (e non solo) hanno attribuito ai servizi israeliani, preoccupati di chiudere
la bocca a un testimone scottante e divenuto per di più inaffidabile, alla luce delle sue successive
vicende politiche e personali.
Proprio in quei giorni era attuale l'ipotesi di un processo contro Sharon di fronte alla giustizia
del Belgio.
L'inchiesta di Amnon Kapeliouk è più scarna di quella della Commissione Kahane ma nella sostanza
più approfondita e soprattutto priva di reticenze. Frutto di un lavoro iniziato il giorno successivo
al massacro e protrattosi per due mesi, ricostruisce nei minimi dettagli le circostanze di quanto
accade in quei terribili giorni e le decisioni, le mosse e gli atteggiamenti delle autorità
militari israeliane, soprattutto quelle impegnate "sul campo"; valga in proposito come esempio
la frase di un ufficiale riportata da Kapeliouk secondo la quale «chi fa entrare una volpe nel
pollaio non si meravigli poi se i polli verranno divorati».
Non è da stupire dunque se Kapeliouk, pur sottolineando che «nessuno può ignorare il contributo
positivo del rapporto (della Commissione Kahane, ndr), che illumina alcuni aspetti della complicità
e della responsabilità di molti capi militari e civili israeliani», dia però dell'operato della
Commissione un giudizio nel complesso alquanto critico.
Il relativo capitolo, pubblicato in appendice, si intitola non a caso: "La montagna ha partorito
un topolino" e si conclude con queste parole: «Il rapporto della Commissione Kahane ha, senza
dubbio, dei meriti ma presenta altresì gravi lacune. Non chiude questa orribile storia, in alcun
modo. Tutte le responsabilità dirette devono essere colpite. Contrariamente a quanto afferma
il rapporto Kahane, queste non sono esclusivamente libanesi».
A vent'anni di distanza queste parole mantengono la loro validità, anzi la vedono accresciuta.
E i martiri palestinesi di Sabra e Chatila - donne, vecchi, bambini, gente di ogni età e condizione
- attendono ancora giustizia.
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