Incontro con i ragazzi dell'organizzazione
Ta'ayush

Il coraggio dei pacifisti di Gerusalemme

La casa di Samuel Freed è in una palazzina bianca tra le strade ombrose e curate che affacciano sul grande parco Rehavya, l'anfiteatro naturale che abbraccia Gerusalemme Ovest e già scorge, appena al di là di una collina, i tetti del villaggio palestinese di Gilo, avanguardia della vicinissima Betlemme. La terrazza è un volo d'uccello su un pezzo di storia di questa città, a 90 gradi guarda la Knesset, il museo nazionale di Israele arrivando fino al quartiere ebraico di Giyyat Shaul, lì dove prima del '48 sorgeva Dir Yassin, un paese palestinese dal quale gli abitanti furono cacciati in una delle pagine più sanguinose del primo conflitto arabo-israeliano. Tra i vasi di fiori e le piccole sculture in vetro lavorato sventola una bandiera nera col teschio e le ossa incrociate. «E' il vessillo dei pirati - fa Samuele, 35 anni, esperto di computer col talento delle opere in vetro e visto che in occasione della festa d'indipendenza tutti hanno esposte le bandiere israeliane anche io ho messo la mia. Perché, mi duole dirlo, la pirateria è una pratica illegale secondo le convenzioni internazionali, e allo stesso modo pirata è un paese che dal 1967 se n'è infischiato delle leggi e delle risoluzioni dell'Onu, violando la legge e diventando criminale».

Israeliani e palestinesi insieme

Samuel è un attivista di Ta'ayush, un'organizzazione pacifista fondata da ragazze e ragazzi israeliani e palestinesi circa un anno fa, un gruppo attivissimo e forse il più trasversale sia nel riunire giovani arabi ed ebrei che in termini puramente politici. Gli aderenti a Ta'ayush, eà media 20-30 anni, non hanno una sede fissa, non amano stemmi e bandiere, comunicano soprattutto con internet e telefonini e precisano subito che «per quanto molti di noi possano essere militanti o simpatizzanti di sinistra noi non siamo assimilabili a nessuna forza politica. Ta'ayush è un gruppo che si impegna nell'aiuto concreto a chi ne ha bisogno pur non avendo una piattaforma politica precisa. «Non abbiamo ripartizioni né una struttura verticale, non siamo né religiosi né anti-religiosi. Partiamo dall'idea dei diritti umani, dalla convinzione che ogni essere umano ha diritto al cibo, alla libertà, e questo ha già un grande significato politico. In ogni modo partecipiamo anche a manifestazioni, meeting e eventi, ma lo decidiamo di volta in volta senza dimenticare il nostro obiettivo principale».

Si ritrovano un po' dove capita, non sono tanti ma ben organizzati e in continua espansione: «Saremo circa 500 in tutto, ma sembra che stiamo conquistando popolarità». Nella riunione alla quale assistiamo saranno una trentina, seduti in cerchio, intervengono uno ad uno con disciplina monumentale mentre biscotti e patatine passano di mano in mano, finché ce n'è.
Ordini del giorno il bilancio di una manifestazione di qualche giorno fa al check point di Kalandia, dove Ta'ayush ha avuto qualche problema, in particolare per la reazione violenta della polizia, ma anche per la presenza di alcuni gruppi palestinesi i cui slogan, inneggianti al "partito di Dio" Hizlbullah, non sono piaciuti ai pacifisti.
All'assemblea si parla in ebraico, del resto i componenti sono quasi tutti figli della borghesia israeliana o palestinese, molti gli studenti della locale università. Gli interventi si alternano, qualcuno si lamenta per la poca organizzazione dimostrata al check point Kalandia: «Avevamo detto di venire vestiti tutti di bianco e di mettere le donne in prima fila», un'altra stigmatizza la presenza di «troppe bandiere palestinesi che sembrano uno schierarsi netto, con l'effetto di allontanare le persone che si avvicinano al gruppo per la prima volta». «E poi che dire - spiega un ragazzo che la prende a ridere - io il vestito bianco ce l'avevo ma faceva talmente freddo che ho dovuto chiedere un cappotto in prestito».
Anche a Kalandia tuttavia è andata bene, i camion con gli aiuti sono passati, l'operazione è andata a buon fine. Oggi, al mattino, partiranno per Jenin con un altro convoglio, l'appuntamento rilanciato in internet è, «per chi non ha una macchina», alle 9 alla bus station.

Contro barriere e divisioni

La loro storia è un cercare di superare diffidenze e divisioni con le quali in questa terra si vive fin da bambini, abbattere il muro dell'incomunicabilità, cercare di mettersi nei panni degli altri, anche a costo di sentirsi accusati di «tradimento». Ma per Samuel non sono tanto le accuse dei suoi concittadini israeliani a pesare nel senso quotidiano della vita, «quanto la guerra, la situazione che sta precipitando, il mio paese che mostra alcuni tratti di fascismo e che è già uno Stato con forti connotazioni razziste». «Presto me ne andrò lontano, probabilmente in Italia, mi piacerebbe Venezia, dove si fa il vetro e dove la vita non si divide in ebrei, non ebrei e arabi, dove se compri una casa perlomeno sai che non è terra rubata ad altre persone».

Apartheid, razzismo, due parole pesanti per il paese nato dalla diaspora e dall'Olocausto: «Ti faccio un esempio, visto che parliamo di case. In Israele il 93% della terra si acquista sotto forma di liesing, insomma è in affitto. Il proprietario è lo Stato, o meglio l'agenzia chiamata Managers of Israel Land, la quale decide anche chi abbia o meno diritto ad averla. E una casa si può acquistare solo se si è compatibili con la "legge del ritorno", ovvero solo essendo ebrei.
Questa legge non solo esclude gli stranieri, ma anche gli stessi cittadini arabo-israeliani». Per Samuel, cresciuto da una famiglia "normale" che oggi lo considera un po' estremista, la differenza l'ha fatta «un mio compagno di scuola. Ero un buon sionista, poi questo amico ha iniziato a farmi domande, e interrogandomi ho iniziato a non vedere solo le cose come ce le insegnano qui. In Israele di solito pensiamo a noi stessi prima come israeliani, quindi come esseri umani.
Ma se inizi a percepire te stesso prima come umano e poi come israeliano ed ebreo vedi quanto profondamente razzista è questo paese». Mentre parliamo qualche sirena strilla per la strada, solo due ore fa l'ennesimo attentato terroristico, a due passi da qui. «E' orribile e assurdo che abbiano colpito proprio oggi (ieri, ndr), con la visita di Powell e tutto il resto.
Personalmente credo che i terroristi siano la mano destra di Sharon, del resto le agende politiche degli estremisti dell'una e dell'altra parte coincidono quasi sempre: entrambi vogliono la distruzione totale degli altri».

Un domani che non arriva

I giovani di Ta'ayush cercano sempre la comunicazione, ingrandirsi è un obiettivo dichiarato, e se gli chiedi se credono alla formula "due popoli due Stati" spiegano che «il gruppo non ha una posizione ufficiale anche se molti la ritengono l'unica soluzione veramente possibile».
Per Samuel è giusta anche la proposta di "Gerusalemme città aperta": «Penso che se arriverà mai una soluzione per queste terre non verrà dalla gente di qui. Siamo andati troppo lontano ormai. Oslo è fallita, gli errori sono stati tanti anche da parte palestinese, e non mi riferisco alla falsa pace proposta a Camp David.
E' chiaro però che la gran parte dei palestinesi è più disposta ad accettare il compromesso, in fondo anche nella questione del ritorno dei profughi non chiedono certo di cambiare situazioni irreversibili. Certo, c'è chi ci vorrebbe buttare tutti gli ebrei a mare, ma la richiesta della maggioranza è solo un riconoscimento dei loro diritti, della dignità di esseri umani, e magari anche le scuse di Israele: mi sembra un prezzo tutto sommato economico per la pace.
Gli israeliani invece sono vittime della loro paranoia, di una storia di due millenni di sofferenze le cui colpe non ricadono però sugli arabi. Gli israeliani non si rendono nemmeno conto che abbiamo rubato per anni la terra ai palestinesi, vedono solo le proprie sofferenze, nel "non ebreo" c'è già un potenziale antisemita. Ma ti dirò, in cinque anni vissuti all'estero ho incontrato una sola persona veramente antisemita, ovviamente senza ragioni ma solo per ignoranza.
Penso che la non eliminazione delle nostre paranoie sia il più grande fallimento del sionismo, che ha voluto creare per gli ebrei uno Stato-nazione sul modello europeo senza avere una terra per farlo. Israele è l'unico paese dove si viene attaccati in quanto ebrei, e non per un antisemitismo come quello che c'era in Europa, soprattutto dell'Est, prima della Seconda guerra mondiale.
Invece di alcune cose ci si dimentica in fretta: durante la guerra la Danimarca è stato il Paese che ha fatto di più per salvare gli ebrei, è stato davvero un grande esempio rispetto al resto d'Europa. Ma poiché ultimamente ha chiesto ad Israele di cambiare un ambasciatore famoso per le sue posizioni estremiste ho sentito gente dire "i danesi stiano attenti, non ci siamo dimenticati di quello che hanno fatto durante la guerra". Siamo andati troppo in fondo, alla cieca, con comportamenti autistici. Io sono un ottimista, dico sempre che domani ci potrebbe essere la pace. Ma ormai sono due anni che dico domani».

Ivan Bonfanti
Gerusalemme, 13 aprile 2002
da "Liberazione"