Elezioni di maggio, referendum, rapporto con il Prc

La «mia buona flessibilità»

Intervista al segretario Ds Piero Fassino.

«Non siamo più a piazza Navona, quando Moretti lanciò il suo famoso grido contro il gruppo dirigente: ora il centrosinistra può proporsi come un'alternativa credibile a Berlusconi. Il vento del paese è cambiato». Chi pronuncia questo giudizio è Piero Fassino, che abbiamo intervistato giovedì pomeriggio nel suo ufficio di via Nazionale, a Roma. Il segretario della Quercia, si può dirla così, oggi vede rosa: intravede cioè un futuro vincente sia per i Ds che per lo schieramento ulivista. «Anche per questo» specifica subito «il referendum è stato un errore politico da parte di Rifondazione. Come puntualmente ha dimostrato il suo esito». Su questo punto, si accende tra di noi un dibattito piuttosto vivace, nel merito e nel metodo. Ma ecco l'intervista.

Il vento è cambiato, soprattutto dopo il test elettorale del 25 maggio. Ma perché? Che cosa c'è alla radice di una tendenza così positiva per le opposizioni?

In primo luogo, il centrosinistra è apparso più credibile, sul piano locale: più credibili erano i nostri candidati, valga per tutti il confronto diretto, in Friuli, tra Riccardo Illy e Alessandra Guerra. Più credibile era il nostro schieramento perché più largo e più unitario del centrodestra. E' più credibile era la nostra richiesta di voto che partiva da concreti programmi politico-amministrativi. Non abbiamo "nazionalizzato" la campagna elettorale, piegandola tutta contro Berlusconi.

Tuttavia, la tua lettura del voto è molto politica, mi pare. Non è vero, cioè, che si è trattato soltanto di un test "locale", come dice il presidente del Consiglio

Certo, alla nostra maggiore credibilità sul piano locale si è aggiunta la minor credibilità del Governo. Siamo a metà della legislatura: dopo due anni, c'è una delusione diffusa, e il voto è servito anche ad esprimere un giudizio politico sulla situazione generale del Paese. Un giudizio che fotografa un mutamento dei rapporti di forza già visibile nel 2002: l'onda del centrosinistra si è estesa, da Trieste alla Sicilia. Dovunque siamo cresciuti, non solo dove abbiamo vinto, ma anche là dove abbiamo perso. Dovunque il centrodestra è andato indietro, anche là dove è riuscito ancora a tenere il comune o la provincia.

In questo dato, non è visibile, prima di tutto, la forza della mobilitazione e la crescita dei movimenti di questi ultimi due anni?

Direi di sì. Noi raccogliamo anche il risultato di due anni di ricostruzione dell'opposizione, che ha camminato su molte strade - dalla battaglia della Cgil sui diritti alla mobilitazione della società civile e dei movimenti, fino all'esplosione del movimento per la pace. Anche la ripresa forte di iniziativa politica e nel Paese dei partiti del centrosinistra, a partire dai Ds. Insomma, se tu chiedi «che cosa c'è dietro» il successo di maggio, ti dico che c'è stato e c'è anche un gran lavoro, una diffusa iniziativa politica. Non siamo più, insomma, a piazza Navona: ora il centrosinistra può porsi come alternativa politica credibile.

Anche alla luce di questo giudizio, non credi che il referendum sia stato un'occasione mancata, proprio per il rafforzamento dell'opposizione sociale e politica al centrodestra?

Il referendum era sbagliato, fin dall'inizio: proprio perché era in controtendenza rispetto alla costruzione di uno schieramento largo...

Se il referendum servisse a "duplicare" gli schieramenti politici, più o meno staticamente come sono, non sarebbe più quello strumento correttivo delle leggi (e degli schieramenti nazionali) che a stessa Costituzione prevede.

Non parlo solo di schieramenti politici, anche se penso che doveva pur dire qualcosa, fin dall'inizio, che la grande maggioranza dei Ds, la Margherita, lo Sdi e l'Udeur fossero contrari. Penso al fatto che erano contro anche la Cisl, la Uil e una parte della Cgil. Che era contro una larga parte delle associazioni di categoria: non solo la Confindustria, ma le cooperative, la Cna, la Cia. Insomma, il referendum era in partenza minoritario.

Eppure, una larga parte dell'elettorato del centrosinistra, e segnatamente dei Ds, è andata a votare, seguendo non le nostre indicazioni, ma quelle della Cgil, della Fiom, dell'Arci, di larga parte dei movimenti. A questi undici milioni di elettori che cosa dici, adesso? Che hanno sbagliato tutto?

No certo. Dico che all'interno di un centrosinistra largo e unitario, è legittima la scelta compiuta da una parte dell'elettorato Ds di votare Sì. Nell'animo di questi elettori, le ragioni del voto erano positive: erano convinti che fosse uno strumento di lotta contro Berlusconi e contro la precarizzazione dei rapporti di lavoro. Non era così: quel referendum non era in grado di avere la maggioranza dei votanti.

Detto tutto questo, visti gli esiti, ti senti un «vincitore» del 15-16 giugno?

Non mi sento affatto un vincitore. Ho lavorato per la riduzione del danno, contro un'iniziativa che consideravo, a ragione, sbagliata e perdente.

Ma alla domanda, diciamo così, di giustizia sociale, di nuovi diritti del lavoro, contenuta nei Sì, i Ds come pensano di rispondere?

La battaglia per le riforme e contro la precarizzazione va avanti: anzitutto contro la 848 e 848 bis. Io sono a favore della flessibilità, non della precarietà che propone il ministro Maroni.

Qual è la flessibilità giusta, dal tuo punto di vista?

Quella che coniuga i diritti (pensioni, reddito, maternità. tutele, contrattazione, rappresentanza) con la modernizzazione. Io la chiamo buona flessibilità.

Veniamo ai rapporti possibili, e auspicabili, tra Prc e Ulivo. Da un lato, e differenze e le distanze) sono molte, dall'altro lato c'è la comune necessità di battere il centrodestra. Qual è la tua opinione generale?

Applico un semplice sillogismo, quasi cartesiano. In un sistema politico bipolare vince chi mette in campo la coalizione più larga possibile: per questo, l'Ulivo ha bisogno del massimo di alleanze, anche a sinistra. E viceversa Rifondazione, se non vuole stare ai margini della lotta politica, deve andare ad un patto con l'Ulivo.

Un patto elettorale, o una vera intesa politico-programmatica?

Per quanto sia difficile a realizzarsi, credo che sia necessaria un'intesa di programma. La posta in gioco è il governo del Paese: un accordo soltanto tattico, o di desistenza, sarebbe meno credibile agli occhi degli elettori. Ed è anche evidente che non basta un accordo, se così si può dire, tra stati maggiori: è importante che il confronto si apra ai movimenti e a tutte le articolazioni della società civile che si riconoscono nel centrosinistra.

Un'ultima qustione: i Ds stanno andando verso una rimarchevole unità interna, anche dal punto di vista della gestione?

I Ds sono un partito pluralista: una ricchezza anche per l'insieme della coalizione, che guadagna in stabilità e autorevolezza se il partito principale è forte e autorevole. L'essenziale è che il pluralismo si sposi ad una comune assunzione di responsabilità: come è accaduto e sta accadendo in questi ultimi mesi. Con la minoranza di sinistra abbiamo lavorato, durante la campagna elettorale, in spirito unitario, senza alcun appello alla disciplina.

Il candidato unico dell'Ulivo è Prodi? Perchè non un Ds?

Il centrosinistra dispone di molte personalità autorevoli, ma oggi Prodi è il candidato che a livello nazionale, ha maggiori probabilità di vincere: è il più unificante, ha già vinto e dopo questi anni alla guida dell'Europa è ancor più autorevole.

Rina Gagliardi
Roma, 21 giugno 2003
da "Liberazione"