Dibattito aperto sull’art. 75 della Costituzione. Una proposta per discuterne

Referendum, due possibili riforme per combattere l’astensionismo

Necessità di valorizzare il referendum quale forma di espressione di democrazia diretta

Sono comparsi su Liberazione diversi articoli che sollecitano una riflessione sull’istituto referendario al di là dello sfavorevole esito di quello sull’estensione dell’articolo 18 alle piccole imprese e sull’elettrosmog. Forse vale la pena di aprire una discussione, e a questo scopo sono dedicate queste note. In un’intervista al nostro giornale, Luigi Ferrajoli ha insistito nella necessità di valorizzare il referendum quale forma di espressione di democrazia diretta, ma ha aggiunto che bisognerebbe lasciare le regole che lo governano così come esse sono. Sono assolutamente d’accordo con la prima affermazione ma molto meno con la seconda. Cercherò quindi di tracciare alcune linee di una possibile riforma dell’istituto referendario che mi paiono indispensabili proprio al fine di una sua salvaguardia e di una sua valorizzazione.

Partiamo da un dato: dal 1995 nessuna proposta referendaria ha raggiunto il quorum dei votanti. Si può anche ritenere che la ragione stia nella cattiva qualità dei quesiti proposti, ma, essendo S stati questi ultimi assai diversi tra loro, una simile tesi è assai dubbia. E’ più probabile, ed è quello che io credo, che la somma di un’astensione crescente, manifestazione di un fenomeno di crisi del sistema democratico, sommata ad una scelta del no che si è nascosta dietro l’astensione, sia la vera causa del fallimento delle prove referendarie negli ultimi dieci, o quasi, anni. In sostanza l’arma dell’astensione ha acquisito un vantaggio difficilmente superabile, al punto da rendere la scelta del referendum un’arma spuntata. Se quindi vogliamo difendere questa forma di espressione della democrazia diretta, senza - almeno per ora - affrontare il tema (certamente assai più complesso) di un ampliamento dei poteri del referendum nel senso non solo abrogativo ma anche in quello propositivo, sono necessarie delle modificazioni del dettato costituzionale e della legge ordinaria.

La prima riguarda la necessità di anteporre il giudizio di ammissibilità del quesito ai sensi della Costituzione, ad opera della Corte costituzionale, alla raccolta delle firme.

Questa scelta renderebbe assai più impegnativa l’azione di raccolta delle firme da parte dei cittadini, sul cui effetto positivo non vi sarebbe alcun motivo di dubitare, e quin di potrebbe anche giustificare, se lo si vuole, un incremento del numero delle firme necessarie per indire il referendum.

Se mezzo milione di firme sembrano oggi poche si può anche prevedere un raddoppio, sapendo però che è necessaria una modifica costituzionale a questo riguardo.

Il giudizio della Corte di Cassazione deve invece rimanere successivo alla raccolta delle firme poiché deve valutare la congruità delle modalità eseguite con la legge e l’autenticità delle medesime.

Ma il punto centrale, come è ormai è chiaro a tutti, è un altro e riguarda la questione del quorum. Questo, il cinquanta per cento più uno degli aventi diritto al voto – a questo punto anche gli italiani residenti all’estero – venne deciso perché, essendo il referendum abrogativo di una legge votata a maggioranza dai parlamentari - e in presenza di numero legale, cioè della maggioranza più uno dei componenti del parlamento – doveva avere il conforto della maggioranza del corpo elettorale.

Ma, in realtà, all’elezione dei membri del Parlamento non partecipa la totalità del corpo elettorale. Anzi quest’ultimo è in declino e nelle ultime elezioni politiche si è attestato attorno all’ottanta per cento.

Si potrebbero perciò avanzare, e consegnare alla discussione, due possibili ipotesi di riforma, il cui dichiarato obiettivo è quello di impedire che il ricorso all’astensione schiacci ogni possibilità di modifica della legislazione.

Prima ipotesi

La prima ipotesi è di considerare come corpo elettorale su cui calcolare il quorum la cifra effettiva che ha dato vita alla composizione delle camere. In termini pratici ciò significherebbe nelle condizioni attuali ridurre il corpo elettorale effettivo all’ottanta per cento.

Questo non eliminerebbe l’effetto somma tra la scelta dell’astensione e quella del no al quesito referendario, ma lo conterrebbe sensibilmente.

Seconda ipotesi

La seconda ipotesi è quella di non considerare affatto il quorum dei votanti ma di stabilire che un quesito referendario ottiene la vittoria se supera il venticinque per cento più due dei voti validi.

In altre parole si supporrebbe che il corpo elettorale fosse sempre pari al cento per cento, ma, appunto, se il sì supera la metà della metà vince comunque indipendentemente dal numero dei votanti.

E’ chiaro che in questo caso la scelta dell’astensione sarebbe del tutto depotenziata, ovvero sarebbe ridotta a quella che essa sarebbe in elezioni politiche, cioè quella di lasciare in mano altrui la decisione.

Si potrebbe obiettare che questo potrebbe favorire la promozione di referendum da parte di maggioranze politiche.

Ma, poiché esse avrebbero la possibilità di fare passare leggi a loro favorevoli sulla base dei rapporti di forza parlamentari, non si capirebbe il loro vantaggio.

In ogni caso, perso per perso, all’opposizione converrebbe comunque trascinare la battaglia fuori dalle aule parlamentari, a livello di massa. Se poi una simile modificazione favorisse una componente della maggioranza che volesse ricorrere al giudizio popolare per rimuovere resistenze all’interno della sua coalizione di governo, meglio ancora.

Meglio un giudizio popolare con effetti reali e immediati, che non farraginose ricomposizioni di divergenze in base a pure logiche di potere.

Alfonso Gianni
Roma, 21 giugno 2003
da "Liberazione"