Il segretario di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti, lo dice con un sorriso compiaciuto, quasi lusingato: «Finalmente uno squarcio di luce e l'opportunità di parlare di politica. Quella vera...»

«Questo movimento è nuovo»

Intervista dopo gli interventi di Sergio Segio e Marco Revelli

Il segretario di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti, lo dice con un sorriso compiaciuto, quasi lusingato: «Finalmente uno squarcio di luce e l'opportunità di parlare di politica. Quella vera...».

Sergio Segio ha colto nel segno?

Diciamo che Segio, persona che stimo, e il mio amico Marco Revelli hanno imbucato una lettera sbagliandone il destinatario che ritengo non sia e non possa essere il Movimento. E spiegherò poi il perché. Ma non c'è alcun dubbio che il tema del rapporto tra lotta armata e cultura politica può essere una straordinaria occasione offerta alla sinistra e non solo per affrontare un nodo cruciale della cultura del '900. La violenza. Vede, credo che Segio abbia usato un verbo di estrema precisione, parlando di infiltrazione, perché il termine evoca il tentativo di innestare nella carne viva dell'esperienza politica, un virus coltivato altrove, in una segreta, e la capacità di quel virus di entrare in cortocircuito con culture non libere dal germe della violenza. Il resto, ovviamente è di scarso se non nullo interesse.

Cosa è di scarso interesse?

Una certa patologia della discussione seguita all'intervista di Segio, in cui vedo affollarsi i soliti attori. I consueti tentativi strumentali della destra di piegare il senso e l'approdo di un dibattito che si è aperto; le altrettanto consuete e prevedibili voci di una certa sinistra riformista interessata soltanto a definire la propria diversità rispetto a una sinistra radicale; le beghe interne al Movimento e ai suoi leader. Ripeto, a me tutto questo annoia. Mentre trovo interessantissimo il merito dei tre termini della discussione. Terrorismo, Violenza, Movimento.

Cominciamo allora dal primo. Nelle nuove ma vecchie Br c'è traccia di un album di famiglia?

La lunga esperienza torinese mi ha insegnato che il terrorismo nasce in una sfera autonoma della politica. Non sono la società e il conflitto che generano la lotta armata. Semmai, e al contrario, è nella società che si pongono le condizioni perché quel virus si infiltri. Detto questo, vedo nel tentativo eversivo brigatista un segno tragico, ma irrilevante, di un'impotenza politica. Propria, per altro, di tutti i terrorismi. Nei pochi documenti recenti delle Br che ho letto, ho trovato un po' di sociologia, l'assenza di temi di una qualche consistenza. E ancora: un segno di disperazione esistenziale.

E l'album di famiglia?

Se con l'album di famiglia vogliamo evocare il tema della violenza politica propria della storia della sinistra e del movimento operaio, e dire dunque che chi abbiamo di fronte è figlio della nostra storia, sarò netto. Tutte le culture politiche che escono dall'esperienza del '900 hanno il loro album di famiglia. Tutti i pensieri forti, religiosi e politici, contengono un irrisolto problema con la violenza. Noi siamo figli oltre che del crocifisso, della Bibbia. Ed è nella Bibbia che troviamo l'idea dell'annientamento del nemico. Le culture terzomondiste sono imbevute di violenza, lì dove arrivano a teorizzare che "l'identità del colonizzato passa per l'uccisione del colono". Nell'intera storia del movimento operaio è presente la distruzione dell'avversario. Dunque, tutti e ripeto tutti, sono chiamati oggi a fare i conti con il concetto di violenza. A me, la prima volta, lo insegnò Pietro Ingrao. Vent'anni fa.

Come e dove?

Ingrao era presidente della Camera e venne alla Fiat, a Torino. Ora, non ricordo esattamente la circostanza. Se dopo la scoperta che uno dei nostri delegati apparteneva alle Br o dopo l'ennesimo, sanguinoso, agguato. Mi sembra di vederla ancora quella sala sprofondata in un silenzio sospeso e Pietro svelarci la più semplice e decisiva delle verità. Disse: «Noi siamo nati per dare valore alla vita. Le lotte della classe operaia hanno lo scopo di migliorare, anche solo di un nulla, la vita di ciascuno di noi. Vi pare che si possa accettare sia pure in ipotesi il progetto o l'idea di chi vuole cancellarne anche soltanto una di vita?». Ecco, Ingrao già allora demoliva due capisaldi di una certa cultura socialista e comunista del novecento. Primo: che il valore della vita di una persona debba essere misurato in quanto simbolo del potere che rappresenta. Secondo: che nella lotta all'eversione si possa procedere per aggregazioni omogenee, dunque in ordine sparso. Le cose non stanno così. Il terrorismo è il nemico di tutti. E tutti insieme lo si combatte.

E dopo la "lezione" di Ingrao, cosa le è accaduto?

La racconto con un episodio credo significativo non solo del mio percorso, ma di quello del mio partito e del suo approdo. Conosce "La battaglia di Algeri" di Pontecorvo? Bene, ho visto quel film almeno dieci volte. Ne conosco a memoria le sequenze. Ora, per una vita mi sono riconosciuto, di più, mi sono immedesimato nella bellissima algerina che si fa saltare in un bar affollato di vita e di civili nella parte francese di Algeri, durante l'operazione di insurrezione - anzi no, chiamiamo le cose con il loro nome - durante l'operazione terroristica contro le truppe francesi. Istintivamente, politicamente, ero con lei. Sarei voluto essere lei, se soltanto ne avessi avuto il coraggio. Ero, lo dico senza timori, corresponsabile politico di quel massacro. Oggi, mi capita di rivedere quella sequenza e quella complicità si è dissolta.

Perché?

Perché il Brecht che diceva «vogliamo un mondo gentile, ma per averlo non possiamo essere gentili», non mi appartiene più, né appartiene più alla storia della sinistra e del Movimento di questo secolo. Perché oggi, la scelta non può essere altra che respingere ogni atto di violenza. In un mondo in cui la violenza si riassume nel binomio guerra preventiva-terrorismo, non può aver diritto di cittadinanza alcuna violenza politica. Perché in quel binomio è inevitabilmente risucchiata.

Questo dibattito a sinistra, nel Movimento e fuori, fatica ad affacciarsi e, soprattutto, è in grave ritardo. Perché?

Lo dico senza alcuno spirito polemico, ma credo che oggi, paghiamo gli errori di chi, a sinistra, ha pensato di poter chiudere i conti con le eredità del '900, semplicemente offrendo di sé un'idea di rispettabilità. Dichiarando chiusa una pagina di storia non parlandone più. Il problema è quello del cambiamento. Se si smette non dico di condividere, ma semplicemente di ascoltare un pezzo di società perché la si ritiene impresentabile, quel pezzo di società resterà prigioniera della sua solitudine e disperazione. E allora, in assenza di interlocutori nelle cui parole si legga un progetto di cambiamento, difficilmente si prosciugherà completamente quell'acqua in cui il virus della violenza potrà avere un suo luogo per attecchire.

Che non è il Movimento?

Che non è e non può esserlo. Per un motivo molto semplice. Questi ragazzi sono estranei alla storia del novecento. Sono di un'altra era. Gli è estraneo il concetto operaio del potere come terreno di conquista prima che di cambiamento. Il loro Palazzo d'Inverno non è Palazzo Chigi. Sono privi dell'idea stessa di avanguardia. No, il Movimento è antidoto a quel virus. Bisogna solo aiutarlo e ascoltarlo.

Anche quando scende in piazza con caschi e mazze?

Penso che esista un solo metro per riconoscere, in una manifestazione, la differenza tra un'espressione di inaccettabile violenza ovvero di legittima tutela dei propri diritti sia pure attraverso strumenti di coazione. E questo metro di giudizio è una donna incinta. Se una donna incinta è costretta a scappare dalla piazza, allora vuol dire che quella piazza non ha legittimazione. E' accaduto a Roma, nella coda del corteo del 4 ottobre scorso e l'ho stigmatizzato. Continuerò a farlo ogni volta che sarà necessario.

Carlo Bonini
Milano, 2 novembre 2003
da "La Repubblica"