Riforme istituzionali, primo sì al Senato.

La destra sporca la carta di nero

Per la Casa delle libertà nasce la nuova Italia, per le opposizioni è solo una vergogna

Occhi fissi sulle lancette dell'orologio. Come nello spot della Breil. Alle tre del pomeriggio il Senato approva le riforme costituzionali. Quelli della maggioranza hanno spaccato il secondo. Anche il paese, ma questo è un dettaglio trascurabile. «Oggi il governo poteva cadere, si poteva aprire una crisi molto grave - ricorda infatti il ministro Maroni - Invece tutto è andato meglio del previsto». O così o pomì. La Lega incassa la deevolution, e torna buona buona nei suoi appartamenti. Il governo è salvo, la Carta Costituzionale no. Alla destra non importa poi molto, della Costituzione s'intende. Silvio Berlusconi è tutto un sorriso: «Ve l'avevo detto io che la Casa delle libertà è unita». Pentitevi, uomini di poca fede.

Fino ad oggi erano state le opposizioni a portare gli striscioni nell'austero emiciclo di palazzo Madama. Questa volta lo fanno i nazional alleati. Dai banchi di Fini & c. spuntano dei cartelli con scritto "Nasce la nuova Italia". Chissà che ne pensano i loro elettori, quelli che dio patria e famiglia non si mettono mai in discussione. Lo show non riesce. Non è spettacolare, patetico piuttosto. Come vede spuntare i tricolori in miniatura dai banchi della desta, Marcello Pera interviene: «Incredibile, inaccettabile». Se è per questo, anche incomprensibile. Ma tant'è, le scritte spariscono in attesa del voto finale. «Quella sulle riforme è stata la discussione più lunga che si ricordi - sottolinea il presidente del Senato - ne stiamo discutendo da oltre due mesi e non si ricorda nulla di simile». Una bugia, che serve a nascondere la vera posta in gioco: o la deevolution o cade il governo.

Ridono i paladini padani. La Lega è in festa, sono così contenti che non sentono nemmeno le voci che si alzano dai banchi delle opposizioni: «Vergogna, vergogna e ancora vergogna». «La Costituzione è stata ridotta a gomma da masticare». «Chiedete scusa ai padri costituenti». Un giudizio unanime, seppur di minoranza. Oddio, a ben vedere anche di Domenico Fisichella. Il senatore di An vota contro la proposta di riforma della Costituzione che, dice citando Einaudi, «rappresenta la sconfitta maggiore che potesse toccare agli ideali di autonomia locale e di riduzione dei compiti del governo centrale». Mica noccioline. Come Fisichella, si comporta anche Roberto Meduri (An), che in aula dice: «No ai ricatti di chi ha chiesto questo voto entro oggi, pena la sua uscita dal governo». Una maggioranza unita, non c'è che dire. Si abbracciano talmente forte che sembra si picchino. Anzi, si picchiano sul serio: il ministro Castelli si avvicina al senatore Meduri con fiero cipiglio e fare minaccioso. Fra di loro c'è uno scambio di battute, non sembrano convenevoli. Meduri viene fermato dai colleghi di partito. Tutto finisce bene, per un pelo.

Quando passa l'articolo sulla devolution, l'opposizione lascia l'aula per protesta. Alle Regioni vengono affidate le competenze esclusive su sanità, organizzazione scolastica, polizia locale e ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato. Patatrac. A seduta appena iniziata era mancato il numero legale. Cosa che ha per un attimo impensierito la maggioranza. La Lega è stata chiara: «Se non passa la riforma, domenica stessa usciamo dal governo». Comunque, dopo il primo incidente di percorso, l'assemblea riprende a votare senza problemi. Purtroppo.

I senatori delle opposizioni ci hanno provato. Compatti. A turno leggono una dichiarazione fotocopia a sostegno degli emendamenti: «A nome di tutte le opposizioni esprimo voto favorevole a questo emendamento per migliorare una legge che riteniamo lesiva del carattere democratico e unitario della Repubblica italiana». O, nell'altra versione: «Esprimo voto contrario a questo emendamento (o articolo) in quanto parte essenziale di una legge che consideriamo gravemente lesiva del carattere democratico e unitario della Repubblica italiana». Non basta. E perfino la diretta televisiva - annunciata come dimostrazione del rispetto delle regole democratiche -non copre tutti gli interventi. Un'altra ferita. Anche perché i capigruppo di Forza Italia e An, Schifani e Nania, travolti dalla loro foga oratoria ripercorrono le tappe del federalismo ai tempi del centrosinistra. Rifondazione era contraria anche allora. Figuriamoci oggi. Ma Gigi Malabarba nelle case degli italiani non c'entra. Niente diretta tv per lui. Parlano Angius (Ds), Bordon (Margherita) e Marini (Sdi) .

Scende la sera, tutti a casa. I senatori di An rimettono i tricolori in miniatura nelle loro borse ed escono da palazzo Madama. Chissà che se ne faranno. Probabile che li nascondano.

Frida Nacinovich
Roma, 26 marzo 2004
da "Liberazione"