La rottura tra la Margherita, la Fed e l'Ulivo

Bertinotti rilancia le primarie e critica Rutelli, la Spd e Cofferati

L'idea è ambiziosa: il riformismo moderato oggi vuole intercettare il bisogno di cambiamento di alcuni settori sociali, garantendo però, nello stesso tempo, il recupero di alcuni elementi del berlusconismo.

Rutelli si svincola, Fassino si arrabbia, Prodi insiste a dispetto dei santi. Le vicende dell'"area riformista" riempiono le cronache politiche. Vicende che non riguardano solo la (ex) Fed, un po' tutta l'Unione è tirata in ballo. «E' vero, ma fino ad un certo punto. Perché, certo, i media sono concentrati esclusivamente sul terremoto che sta attraversando quell'area. Ma questa è solo uno delle tante "crisi" prodotte dalla fine del berlusconismo, dalla ridislocazione di forze, interessi, pezzi di ceto politico».

Col segretario di Rifondazione comunista si fa il punto dopo giornate difficili. Ma una volta tanto, proviamo a seguire lo schema imposto dai media. Partiamo da Rutelli, Marini e la Fed che non c'è più, insomma.

Che accade, Bertinotti?

Io credo che tutto ciò che sta avvenendo ruoti attorno ad un problema. Inevaso. Per loro, insomma, la questione era ed è di definizione strategica. Per farla ancora più semplice: la domanda era - ed è - cosa vuol dire essere riformista? Veniamo da un periodo in cui tanti si sono definiti così, ci sono troppi riformismi sotto il cielo. E allora, penso che la prima cosa che avrebbero dovuto fare sarebbe stata quella di capire, di definire quale fosse l'idea di società che avevano in mente, quali categorie volevano rappresentare.

Invece, cosa hanno fatto?

Hanno pensato che si potesse evitare questa fase, ricorrendo ad una scorciatoia. Puntando solo su un'idea organizzativistica. E hanno ripetuto: unità, unità, unità. Senza definire a cosa sarebbe dovuta servire quest'unità. Ma, insomma: quando i socialisti francesi, all'inizio degli anni '70, decisero di cambiare passo e prospettiva, diedero vita al congresso di Epinay. E ridefinirono la loro strategia. Nel caso italiano di cui stiamo parlando, hanno pensato che mettere assieme diversi riformismi sotto un'unica sigla fosse il toccasana per qualsiasi problema.

Però quella mini-coalizione fra diversi partiti è riuscita a diventare il primo partito italiano.

Ed è normale che ciò sia avvenuto. Di fronte allo sfascio del governo delle destre, si è teso a privilegiare, nell'opposizione, il soggetto più forte, più grande. Poi, però - come hanno dimostrato le ultime regionali - il berlusconismo è andato in crisi. Crisi nel suo blocco sociale di riferimento, crisi di consenso elettorale. Crisi nei rapporti fra le forze di maggioranza che esprimono tendenze politiche divergenti. E allora lo scenario cambia.

Come?

Perché se prima le differenze fra riformismi - chiamiamole così - potevano restare occultate, oggi vengono allo scoperto. E abbiamo un riformismo moderato che sceglie di candidarsi ad essere raccoglitore privilegiato di ciò che viene spinto fuori dalla crisi centrifuga del berlusconismo.

Si candida a raccogliere i voti di Forza Italia, è questo?

Voti, ma non solo voti. Il riformismo moderato, Rutelli, si candida ad essere un interlocutore privilegiato dei settori dispersi dalla rottura del blocco sociale vincente nel 2001, si candida a diventare un referente per i poteri forti, addirittura per i centri ecclesiastici. Di più: in virtù di queste alleanze, lui - il riformismo moderato e non più un indistinto riformismo - si candida ad essere il timone dello schieramento.

E' quello che tutti chiamano neocentrismo. Non è così?

Sì, ma attenzione: non è il "solito" neocentrismo. Insomma, non credo che nessuno abbia intenzione di dar vita ad un polo autonomo, come pure qualcuno aveva progettato. L'idea è più ambiziosa: dentro l'alternanza, imposta dal maggioritario, il riformismo moderato oggi vuole intercettare il bisogno di cambiamento di alcuni settori sociali, garantendo però, nello stesso tempo, il recupero di alcuni elementi del berlusconismo, magari depurato dei suoi aspetti meno presentabili. E' insomma, una risoperta ma anche una rimodulazione del neocentrismo che oggi ha come obiettivo prevalente il condizionamento dell'Unione.

E Prodi è leader da farsi condizionare?

Immagino che la domanda vera - visto che me la rivolgono praticamente ovunque - sia: è in ballo la leadership di Prodi?

Sì, anche. E' in ballo o no?

No, assolutamente no. La leadership non è alla prova.

Esiste però una questione legata al ruolo di Prodi in questo terremoto o no?

Beh… indiscutibilmente sì. Nel senso che il leader dell'Unione dovrebbe evitare di farsi imbrigliare in queste sabbie mobili. Non credo, insomma, che sia il caso che prenda parte a queste querelle. Col rischio che resti impigliato nelle maglie della Margherita. Sia chiaro: io non vedo per Prodi un ruolo "al di sopra" delle parti, non avrebbe senso. Sentiamo, però, il bisogno di una guida, di qualcuno che dia forma e sostanza all'Unione. Ai suoi processi democratici, alla definizione dei modi con cui averrà la scrittura del programma. Perché è indiscutibile che l'Unione vada potenziata, nella sua capacità attrattiva. Sì, il ruolo di Prodi lo vedo lì.

Molti pensano però che Prodi intervenga nelle "cose" dei riformisti perché avrà bisogno, tanto più se guiderà il paese, di un partito suo.

Non trovo nulla di assurdo che un gruppo di persone che si ritrovano nelle scelte, nelle idee del candidato premier pensino di organizzarsi in una forma partito. Nulla da dire, insomma, se i prodiani si organizzanissero per Prodi. Troverei sbagliato il contrario: e che cioè se Prodi entrasse nelle dispute per organizzare i prodiani. Lui, deve essere il leader dell'Unione: insomma, non dev'essere prodiano. E a questo punto una cosa vorrei aggiungerla. No, non per il gusto della polemica retroattiva che non avrebbe senso. Comunque, se davvero Prodi sentiva (e sente) come un ostacolo il peso delle segreterie di partito, sia rispetto alla definizione del programma sia rispetto alla gestione del possibile futuro governo, una soluzione ci sarebbe stata. A portata di mano: le primarie. Le avremmo fatte e il leader, Romano Prodi, avrebbe avuto maggiori garanzie e anche maggiore possibilità di iniziativa autonoma. Forse anche una più forte legittimazione. Lo dico non perché sono un cultore delle primarie, ma perché capisco il problema. Se fossimo andati alle primarie, il processo di costruzione dell'Unione avrebbe potuto usufruire di una dialettica di base più chiara: tra un polo neomoderato, una sinistra riformista, una sinistra radicale.

In quest'analisi mancano i diesse? Come si comporteranno?

E' indubbio che sfidati debbano reagire. Ma lo possono fare in molti modi diversi. Entrando in competizione con la Margherita nella capacità di intercettare i voti in libera uscita delle destre ("i veri moderati siamo noi") o al contrario privilegiando, assecondando quel bisogno di trasformazione che è cresciuto in questi anni. Possono insomma insistere con la cultura politica che hanno espresso in questo decennio - che privilegia solo la governabilità, che diventa addirittura un valore assoluto - o possono decidere, finalmente, di fare i conti col loro insediamento, con il loro elettorato. Con le domande di cambiamento. In soldoni: possono decidere se fare i conti o meno con la sconfitta di Schroeder.

Già, la sconfitta in Renania della Spd. Cos'è accaduto davvero nella roccaforte socialdemocratica?

Ricordiamoci di come la Spd ha ricevuto il secondo mandato. Vistosi in forte difficoltà Schroeder ha puntato sul rifiuto della guerra e ha dato, soprattutto, un forte rilievo alle questioni sociali. Nella pratica di governo ha contraddetto, e contraddetto pesantemente, quelle proposte. E ora paga, paga elettoralmente. Paga indipendentemente da ciò che offre la geografia politica tedesca. L'elettore insomma si domanda: chi è che è in grado di sostituire Schroeder, la Cdu? E allora votano la Cdu, pur di punire il premier. Se ci si pensa però quel che è avvenuto in Germania è ancora più grave. Perché lì, un governo socialdemocratico che attua politiche di destra, ha di fatto stravolto la dialettica democratica. Non si vota più scegliendo destra o sinistra. Si vota scegliendo governo o opposizione. Di fatto, impedendo agli elettori la possibilità di una scelta libera fra opzioni diverse e alternative. Venuta meno la sinistra, insomma, non c'è più la possibilità di una scelta vera tra diverse strategie E francamente mi sembra molto grave.

Voti che puniscono i governi, dicevi. E' avvenuto anche in Italia, un mese e mezzo fa alle regionali. Dopo però ci sono state le consultazioni di Catania e l'altro giorno quella di Bolzano. Dove ha vinto la destra. In modi diversi, alcuni grotteschi - a Bolzano per dieci voti - ma ha vinto la destra. Che significa? Un'inversione di tendenza?

Sono voti che mi preoccupano. Ma non perché possano segnare un'inversione di tendenza rispetto alla fine del berlusconismo. Quell'epoca è finita, finita davvero. Ma sono segnali che ci dicono che la crisi della coalizione di destra, può trovare anche diverse linee di fuga. Può incontrare una prospettiva localistica, un progetto neocorporativo. Può trovare uno spazio di galleggiamento in attesa che altre forze si ridislochino. Sono segnali, insomma: la crisi del berlusconismo non regala il paese all'opposizione. L'opposizione il diritto a governare se lo deve conquistare. Con un progetto d'alternativa.

A proposito, la vicenda di Bologna resta di grande attualità e appare come un conflitto tutto a sinistra. Sul quale, però, i vertici del Prc finora preferiscono tacere…

E infatti non intendo esprimere un giudizio su una vicenda che corre il rischio di essere vista nella chiave sbagliata - personalistica per esempio. Però, sullo sfondo di questa crisi, emerge un problema più generale: l'autonomia del conflitto sociale, e anche dei singoli partiti, rispetto ai governi. Per noi, questa autonomia è un cardine della nostra concezione della politica e dell'alternativa. Un governo progressista, in ogni caso, non può mai escludere: al contrario deve sempre cogliere il conflitto, anche il più aspro, come un'occasione per allargare la propria capacità di rapporto con la società. Deve sempre leggere la "verità interna" che comunque è sempre all'interno di un conflitto. Al punto che se in consiglio comunale verrà presentato un documento di condanna delle lotte per la casa, noi voteremo contro. A meno che non si voglia usare un'esperienza di governo cittadino per sperimentare nuovi modelli - per esempio, una sorta di neoblairismo all'italiana, comunque fondato su "law and order".

Stefano Bocconetti
Roma, 24 maggio 2005
da "Liberazione"