Intervista a Franco Giordano segretario nazionale del PRC

Giordano: «Ok verifica, ma senza garanzie. Per la maggioranza è l'ora della verità»

Salari, prezzi e diritti. I temi caldi del confronto. E sulla Sinistra: occorre fare presto. Altrimenti, rischiamo di diventare tutti residuali

Franco Giordano sta trascorrendo a Parigi questi (per lui rari) giorni di tregua e di riposo quasi forzato: gli torneranno utili per prepararsi alle durezze del 2008 e del gennaio 2008 in specie. In questa intervista, con il segretario di Rifondazione comunista abbiamo parlato di molte cose e, giocoforza, delle scadenze ravvicinate della politica. La verifica? «Le possibilità concrete di una svolta ci sono, ma se mi chiedi garanzie non le posso dare a nessuno». I temi essenziali? «I salari, cioè intanto la chiusura immediata del contratto metalmeccanico. I prezzi, cioè un intervento forte dello Stato, un po' come fece in Francia l'allora ministro Sarkozy nel 2004. La precarietà, dove intanto è essenziale ricostruire una griglia organica di diritti. I diritti civili, dove temo sia ormai evidente l'inaffidabilità laica del Pd e del suo gruppo dirigente». Il processo unitario a sinistra? «I tempi devono essere rapidissimi, se non vogliamo disperdere il patrimonio accumulato con la manifestazione del 20 ottobre e l'assemblea generale della Nuova Fiera». Non inganni la natura apparentemente "perentoria" di queste (ed altre) affermazioni: Giordano, tra i pochissimi politici italiani di formazione ingraiana, è uno che coltiva anche e soprattutto l'arte del dubbio - e della complessità. Ma la fase attuale gli appare davvero drammatica, nelle sue tendenze di fondo, nei pericoli che avanzano di "declino irreversibile" della politica e di frammentazione sociale: da qui, come direbbe Ingrao, l'urgenza del fare e del provarsi, in tutti i modi, a costruire anticorpi, argini, una nuova soggettività antagonista - insomma, quella alternativa generale di società che finisce oggi per costituire la sola àncora di salvezza immaginabile per la società. Ma ecco l'intervista.

Nel suo messaggio di fine d'anno, il presidente della Repubblica ha negato la tesi del "declino" dell'Italia e ha anzi sostenuto che ci sono le energie necessarie per uscire dalla crisi. Ti sembra questa un'analisi condivisibile?

Credo che il presidente Napoletano abbia in mente soprattutto la sfera dell'economia, e che la sua diagnosi "ottimista" sia relativa, appunto, alle possibilità di ripresa economica del Paese. Ma quando si parla di "declino", si ha da intendere, secondo me, una dimensione che va ben oltre l'economia: ed in questo senso ho la sensazione che sia un atto un declino culturale profondo. Una crisi che macina le basi stesse della coesione sociale e del senso comune, e tende a frammentare tutto, i corpi sociali come le idee - e perfino l'"io individuale", sempre più diviso. Un processo che si riflette su tutti gli altri terreni - economico e sociale, prima di ogni altro - e che ha tra le sue radici (e paradossalmente anche tra i suoi effetti) una svalorizzazione del lavoro a dir poco drammatica, come tutti abbiamo potuto vedere nella tragedia più che esemplare della Thyssen Krupp. Parlo dell'Italia, naturalmente, oltre la congiuntura politica, e mi pare che la società stia davvero per implodere.

Quali sono le ragioni specifiche di una situazione così cupa? Quelle più autoctone e "nazionali", voglio dire, che si intrecciano ai processi già ampiamente analizzati di natura generale, la globalizzazione capitalistica, il disordine mondiale, le guerre, i fondamentalismi?

E' evidente che in Italia i fattori che tu citi operano con particolare forza e, direi, "virulenza": per esempio, dal punto di vista culturale, oltre che da quello sociale e politico, l'egemonia del mercato, assunto come paradigma del benessere ed anzi come principio informativo e dominante di tutta l'organizzazione sociale, sta producendo effetti devastanti. Ma da noi, diversamente da altri grandi paesi europei (Francia, Germania, per altro certo non indenni dai fenomeni della così detta postmodernità), agiscono anche poteri che stanno prendendo il sopravvento per assenza di anticorpi adeguati: penso alle gerarchie ecclesiastiche, ai vertici della Chiesa Cattolica, che mai come in questo periodo sono stati tanto forti, tanto capaci di incidere sulla politica concreta. E penso ai poteri malavitosi, alla grande criminalità organizzata, specie al Sud, che tendono a crescere, a controllare territori e pezzi rilevanti dell'economia. Questi poteri, scusa il bisticcio, sono oggi più potenti di quanto non siano stati negli ultimi decenni: perché non trovano di fronte a sé una alternativa culturale adeguata, socialmente radicata, un contropotere massiccio quale è stato (lo dico senza nostalgie di sorta) il Partito Comunista Italiano. A contrastare il loro dispiegarsi, ci sono, insomma, tanti movimenti, spesso generosi e coraggiosi, molte iniziative di sinistra, un certo numero di campagne d'opinione: che, però, nel loro insieme, non configurano - non riescono ancora a configurare - "un altro Paese".

Insomma, vuoi dire che non configurano una Sinistra grande e dotata della forza e dell'efficacia necessarie?

Esattamente. Manca una sinistra non solo capace, come tale, di presentarsi alle elezioni e di prendere molti voti. Non solo capace di agire nella sfera della politica e delle istituzioni. Ma gramscianamente capace di produrre egemonia in quanto portatrice di cultura della trasformazione. Questo è, da tempo, il mio personale rovello: la ricostruzione di una soggettività politica che sia in grado di contrastare il declino di cui dicevamo. Anzi tutto prospettando un'idea altra di società, e quindi misurandosi con la forza dei poteri forti, promuovendo battaglie sociali e civili generali, intervenendo nel "senso comune" disgregato. Se non nasce questa nuova soggettività, le lotte singole, anche le più determinate, e la generosità dei movimenti, tendono a rifluire, o a farsi parziali. Ed essa può nascere, deve nascere, in tempi rapidissimi, e non può imitare i vecchi modelli: non può essere una sorta di "heri dicebamus", come se la lunga sconfitta di questo trentennio fosse soltanto una parentesi, secondo la (pessima) lezione di Croce sul fascismo. Deve essere, appunto, il nuovo spazio pubblico dove riprende vita la cultura della trasformazione, e la sua connessione con il "qui ed ora" della battaglia sociale e politica.

Tutto giusto, Franco, tutto condivisibile. Ma non stai un po' sottovalutando la portata dell'impresa, le sue asperità materiali, se così si può dire? Nelle ultime settimane, nella discussione sul governo Prodi e sulla riforma elettorale, tra le forze che compongono il panorama attuale della sinistra sono tornate a manifestarsi differenze significative. Come le si supera, in concreto?

I contrasti tra noi, il Pdci, i Verdi e Sinistra democratica (e di ciascuna di queste forze con le altre) ci sono: sarebbe inutile negarlo, e sarebbe idealistico non vedere i problemi che abbiamo di fronte. Detto questo, però, non ti sembri astratto il mio giudizio di fondo: tutto questo ha la sua rilevanza, soprattutto nella sfera quotidiana, ma riguarda l'epidermide. E' schiuma. Ha a che fare con differenze tattiche, che a loro volta sono relative alla collocazione contingente e al mondo separato della politica. Se guardiamo invece alla sostanza, se mettiamo al centro - scusa se ripeto, ma credo proprio che "repetita iuvant" - l'urgenza di una nuova cultura della trasformazione, se insomma affrontiamo il processo di costruzione di un a sinistra unitaria e plurale con l'occhio rivolto alla società, scopriamo che si tratta di un bisogno largamente diffuso, e condiviso, al di là delle appartenenze - e anche al di là della pulsione all'autoriproduzione di sé che tende logicamente ad esserci e ad agire come fattore di freno. Ci servono, ci sono essenziali, in sostanza, passi lunghi. Altrimenti, rischiamo di diventare tutti residuali. O meglio ininfluenti - e questo, in tutta evidenza, è un rischio che si avverte, per la sinistra, in tutta Europa.

Quanto all'innovazione che tu auspichi, anzi che giudichi necessaria nella costruzione di questa nuova soggettività unitaria e plurale, non c'è il consueto rischio, invece, che tutto si riduca, appunto, ad un auspicio, o al massimo a un'intenzione?

Anche qui: il rischio che tutto rimanga solo una chiacchiera, c'è, e come, così come quello che spinge le vecchie strutture, i gruppi dirigenti, quelli ristretti e quelli "larghi" a non cedere spazio a nessun altro. Con questa consapevolezza, e con queste avvertenze, dobbiamo provarci - per amore e per forza. Paul Ginsborg ci ha proposto un'idea che mi pare feconda: il nuovo soggetto politico dovrà modellarsi su uno schema binario, costituito, per un verso, dalle forze politiche organizzate, e dalla società auto-organizzata, autorappresentata, per l'altro verso. E' una riflessione che ci dovrà impegnare molto seriamente.

Veniamo alla "famigerata" verifica. Il tema da cui partire, o meglio, da cui ripartire, è il lavoro - e il salario. Nonostante Padoa Schioppa…

Lo diciamo da sempre, ma ora mi pare che nessuno possa più agevolmente negare la drammaticità - sociale ed esistenziale - della condizione lavorativa, in quanto tale. Il lavoro non vale più nulla, specie il lavoro operaio, al lavoro sono oggi negati non solo il riconoscimento necessario, ma perfino i diritti elementari, ed ora anche il diritto alla vita. La tragedia della Thyssen Krupp, da questo punto di vista, concentra in se stessa, come in un tragico caleidoscopio, tutti i problemi del lavoro operaio: i salari troppo bassi, gli straordinari (e quindi gli orari di lavoro) che si allungano a dismisura, i ritmi che si fanno insopportabili, la sicurezza che viene meno - e la soggettività operaia che viene distrutta, cancellata, umiliata. Dunque, oltre le lacrime di coccodrillo versate da Confindustria, c'è una prima cosa urgentissima da fare: chiudere il contratto metalmeccanico, consentire all'aumento (110 euro) chiesto dai sindacati, ricominciare a mettere al centro della politica la dignità e i diritti del lavoro. Senza consentire alle pretese confindustriali che chiedono di legare il salario alla produttività: se sono vere le cifre dell'Istat, secondo cui nell'ultimo quinquennio i salari hanno perso 1900 euro e nello stesso periodo i profitti sono aumentati dell'85 per cento, una tale pretesa ha tutta l'aria di una truffa. Inammissibile, come l'ipotesi politica generale che muove il padronato e, temo, il Partito Democratico: che è poi quella di far saltare il contratto nazionale. In sostanza: al primo punto, ci sono i salari, da aumentare in termini consistenti, oltre il semplice recupero dell'inflazione, anche attraverso la detassazione. Per tutte queste ragioni, esprimo una radicale avversità alle posizioni espresse in questi giorni dal ministro del Lavoro, Cesare Damiano.

Contratti, detassazione delle retribuzioni, insomma un intervento vero di redistribuzione della ricchezza. E poi?

Non poi, ma contestualmente, è urgente la questione del caroprezzi. Qui serve un intervento dello Stato forte e determinato: forse sarà l'aria di Francia che mi influenza, ma penso a quel che fece Sarkozy nel 2004, quando, di fronte all'allarme del carovita, convocò tutte le associazioni dei commercianti e lanciò un ultimatum: sei mesi di tempo per frenare i prezzi, o lo Stato era comunque pronto ad intervenire d'autorità. Ha funzionato abbastanza - è la prova che la politica, lo Stato, possono esercitare un potere non soltanto repressivo, come vuole la tendenza sicuritaria attuale. Inoltre, per tutelare ulteriormente le classi più povere, si può operare sulle tariffe sociali, sull'energia, sul blocco ai prezzi dei beni di prima necessità.

Non mi pare che il ministro Padoa Schioppa concordi con questa idea di una redistribuzione sostanziosa, e non contingente, della ricchezza…

Al ministro Padoa Schioppa voglio dire soltanto una cosa: non possiamo procedere come se giocassimo a guardie e ladri. Dove lui fa la guardia all'economia, al rapporto debitoPil, alla sanità dei conti, e noi siamo - saremmo - quelli che cercano di rubare risorse ai supremi interessi dell'economia, per diffonderle ai nostri "rappresentati". Non è così, non può essere così: questa è una rappresentazione dialettica di comodo. Falsa. La verità è che la redistribuzione sociale, l'aumento dei salari, il blocco dei prezzi, il varo di un piano che contrasti la precarietà servono al Paese, nel suo insieme: non sono una prerogativa della sinistra, non sono soltanto rivendicazioni sindacali. Se una parte crescente del Paese, a cominciare dalla classe operaia, è sempre più povera, marginalizzata, inerme, privata di diritti, è la qualità di ciò che chiamiamo "sviluppo" a risentirne, gravemente. E' il paese che si marginalizza e si deprime, come dicono i sociologi. E', in ultima istanza, la democrazia che fa giganteschi passi indietro.

E quindi?

Quindi, il punto essenziale è uscire dallo schema miope e corporativo del padronato, un padronato che persegue interessi a breve e non è in grado di pensare in grande. Anche Confindustria, come larga parte della società italiana, tende a vivere in un ipertrofico presente, il suo - e ad uccidere il tempo, trasformando il classico "carpe diem" (che era poi la capacità di cogliere l'attimo e di affermare comunque la propria capacità di scelta) nel più banale "prendi i soldi e scappa". Appunto, il governo dovrà pur scegliere, non tra noi, sinistra, e i moderati dell'Unione, non tra la sinistra politica e Confindustria, ma tra la rappresentanza politica di Confindustria, con le sue pretese, i suoi ricatti, la sua invadenza, e gli interessi generali del paese. Questo mi pare sia il punto che sfugge al ministro dell'economia. Vale anche, tutto questo, sul cruciale capitolo della lotta alla precarietà, sul quale si dovrà ripartire da dove ci si è fermati, inopinatamente, nel protocollo sul Welfare - magari guardando, oltre che ai vertici confindustriali, ad alcune realtà imprenditoriali, dove già si applica il termine massimo dei trentasei mesi come somma di contratti interinali e contratti a termine.

E il doloroso capitolo della laicità, cioè dei diritti civili?

Anch'esso, come del resto il nodo paceguerra e le prospettive della formazione e della ricerca, sarà parte integrante della verifica…

…o del "punto", come dicono da palazzo Chigi..

….lo dicono nel tentativo di ridimensionare la portata di una discussione, e di un bilancio, che noi non intendiamo certo come rituale, o formale. Ma, tornando ai diritti civili e alla laicità, il problema più serio è diventato quello della totale inaffidabilità laica del Pd e del suo gruppo dirigente: quando una senatrice pur umanamente rispettabile come Paola Binetti invoca Dio per spiegare le sue posizioni o le sue scelte di voto, come nemmeno fa il più esasperato degli integralisti islamici, non è possibile, non è accettabile che una tale farneticazione assuma lo status di un'interlocuzione politica obbligata - o peggio privilegiata. Non è sensato un tale spostamento di asse nel cammino che ci separa, a tutt'oggi, da alcune leggi chiave della modernità civica. Dovremo riparlarne, a lungo, durante e dopo la verifica…

Ultima domanda: abbiamo qualche speranza di farcela? O le sorti del governo Prodi sono segnate?

Se guardo ai numeri del Senato, non posso che trarne una conclusione negativa: in ogni caso, questo governo e questa maggioranza sono a rischio costante, anche del ricatto dei singoli o delle giravolte dei microgruppi. Ma se uno si sforza di guardare oltre, e di mettersi in connessione con il malessere profondo della società, le conclusioni possono essere diverse, e la nostra forza ben maggiore. Come dicevo prima, noi non rivendichiamo obiettivi "di parte", non innalziamo le nostre bandierine: proponiamo il tema generale di una politica capace di invertire il trend del declino e della sfiducia di massa. Non sarà facile per nessuno, se si avvia una discussione vera, "bocciare" le nostre proposte. Insomma, questo è il momento delle scelte vere, per il governo e per questa maggioranza. Le possibilità concrete di farcela ci sono. Ma se mi chiedi garanzie, non sono in grado di darle a nessuno.

Rina Gagliardi
Roma, 2 gennaio 2008
da “Liberazione”