Politica e storia.

Viaggio nella Destra italiana

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Dall'attentato a Palmiro Togliatti fino alla strage di Bologna, dal neofascismo del doppiopetto e manganello a quello della mitraglietta. Il Msi è stato per decenni un partito fascista, populista, bombarolo, che univa l'attività di propaganda nei piccoli centri e nei quartieri delle metropoli.

Uno dei momenti simbolici della Repubblica Italiana - più che Prima, neonata - accadde nell'afa del 14 luglio 1948 quando lo studente con simpatie fasciste Antonio Pallante, esplodendo quattro colpi di revolver dietro Montecitorio, feriva gravemente l'uomo simbolo del comunismo italiano: Palmiro Togliatti. Il segretario del Pci operato d'urgenza si salvò. Si disse che in quelle ore poteva scoppiare quella rivoluzione che neppure l'insurrezione armata della Liberazione riuscì a determinare. Enfasi ebbero la ribellione spontanea delle piazze, scioperi, scontri e occupazioni, carabinieri in mano ai dimostranti, Valletta ostaggio degli operai Fiat. Tutto vero peraltro, come le Prefetture assaltate, la trentina di morti e i circa mille feriti nei giorni di tumulti placati dalle scalate all'Izoard e al Galibier del vecchio Bartali, poi indicato da Pio XII come il perfetto atleta cattolico salvatore della nazione. Il Togliatti degente, per suo conto, aveva tranquillizzato i militanti dando disposizioni a Secchia perché non si spingesse l'acceleratore sui moti di piazza. Di Pallante si disse che era un giovane fanatico che aveva agito per proprio conto ed è certo che così fu per quella ma non per altre storie.

Il contrappasso quasi riservava al pacificatore post bellico, che come Guardasigilli aveva attuato l'amnistia, la beffa di rimanere vittima dell'odio squadrista che il doppiopetto dei fondatori del Movimento Sociale Italiano non solo non estirpavano ma fomentavano col pensiero e l'azione. Quarantacinquemila fascisti vennero scarcerati dopo l'amnistia Togliatti del giugno 1946, molti più di quelli effettivamente passati per le armi dall'insurrezione dell'aprile ‘45 fino alle punizioni delle Volanti Rosse o di semplici italiani che autonomamente regolavano i conti coi fascisti. Conti parzialmente privati, come quelli di Milton nel celebre romanzo fenogliano perché riguardavano persecuzioni parentali di cui i Cervi rappresentano solo l'esempio più noto e tragico.

Basta girare ancora oggi per la Bassa e leggere le lapidi, se le amministrazioni locali in mano a Lega e PdL non le hanno fatte rimuovere. Nel ravennate e ferrarese oppure a ovest nel cuneese, nelle Langhe, in Lunigiana campagne e colline sono disseminate di cippi che ricordano i giovani d'Italia impiccati dalle pavoliniane Brigate Nere e passati per le armi dalla Decima di Borghese o dai loro protettori della Wehrmacht. Se ne contano migliaia.

Basta questo per comprendere perché per un periodo fu versato il “sangue dei vinti”, cosa che volutamente Pansa non spiegava nel suo libro astoricizzato. Se certi fascisti e collaborazionisti subirono le violenze, protratte nei mesi del “triangolo della morte”, di fatto la Repubblica antifascista nata dalla Resistenza diede ampio asilo ai nostalgici d'ogni genere. A cominciare dai saloini Almirante e Romualdi che a sei mesi dal referendum pro Repubblica e dall'aministia che li liberava riorganizzavano il neofascismo siglato Msi, in totale spregio con quanto stabilirà l'anno seguente la XII norma della Costituzione.

Il mondo diviso in blocchi, l'Alleanza Atlantica in un Mediterraneo trasformato in avamposto della flotta Usa che aveva da poco concluso il conflitto, la Guerra Fredda videro una parte del fronte vincitore (gli apparati militari e i Servizi) utilizzare e riciclare le fazioni dei vinti (molti appartenenti alle SS nella Germania diventata Federale, militari e paramilitari fascisti in Italia) in quelle strutture istituzionali (Pubblica Sicurezza) e celate (Gladio) rivolte a controllare un sistema sottoposto alla giurisdizione strategico-militare statunitense.

Nei Corpi Speciali dell'Esercito, negli apparati dei Servizi, in quelli paralleli dove il Pentagono e la mano della Cia muovevano le proprie pedine uomini del neofascismo hanno trovato posto e protezione, mettendo i loro servigi a disposizioni di trame tutt'altro che democratiche.

I buchi neri della Storia recente sui colpi di Stato tentati e abbandonati dai De Lorenzo e Borghese, la strategia della tensione che ha straziato per quindici anni il Paese seminando centinaia di vittime e feriti, ha visto una trama fittissima fra onorevoli in doppiopetto e stragisti.

E se Almirante si circondava di mazzieri per far finire gli studenti come Paolo Rossi alla Sapienza nel 1966, l'Ordine Nuovo di Rauti ospitava i Concutelli, i Ferrari, i Signorelli, i Saccucci e un'alternanza di entrate e uscite dal partito caratterizzava Stefano Delle Chiaie e i camerati di Avanguardia Nazionale presentati nelle elezioni locali e nazionali dalla casa madre missina. Così facilmente itineranti fra la Spagna franchista e il Cile di Pinochet con lasciapassare che più che dalle questure arrivavano dalle ambasciate, in primis da Palazzo Margherita di via Veneto. Come certi attivisti di Ordine Nero, uno era lo stragista del treno Italicus Tuti, organizzatori dei campi che solo dopo Pian del Rascino finirono all'attenzione della cronaca e della Magistratura.

Il Msi è stato per decenni un partito fascista, populista, bombarolo, che univa l'attività di propaganda nei piccoli centri e nei quartieri delle metropoli. Diviso fra attivisti magari fanatici e maneschi animati da intenti sociali, capipopolo descamisados come il Ciccio Franco della rivolta di Reggio, capibastone nelle regioni in mano alla malavita con legami diretti coi politici di governo locale e nazionale dei quali si mostravano premurosi guardaspalle sociali. Le intimidazioni e le aggressioni degli avversari risiedono nel mai rinnegato passato squadrista duminiano rispolverato e adattato a disegni e velleità eversivi di voler fare come i colonnelli di Papadopoulos e i generali di Pinochet.

La P2 gelliana tentava questo e un pezzo dei partiti “democratici” giocando col fuoco la coadiuvava, mentre il neofascismo del doppiopetto e manganello, sostituito dalla mitraglietta, prestava i suoi servigi muscolari. Godeva nel pensare a una cilenizzazione del Paese finché la mano d'oltreoceano mutò piani e ordini e la versione squadrista più feroce, quella dei Nar di Fioravanti e Mambro giocata come al solito fra Servizi e malavita, venne scaricata nonostante avesse ben eseguito la strage più sanguinaria dell'intero ciclo del terrore. Quell'esplosione che fece della stazione di Bologna un cimitero.

Dalla strategia della tensione agli “anni di piombo”, fino agli anni '90, laboratorio del post-fascismo, quando la svolta di Fiuggi separava, almeno nelle piazze e nelle apparizioni ufficiali, i naziskin dagli ex missini delle istituzioni grandi e piccole.

In Italia la strategia della tensione - diretta oltreoceano da quella destra americana che ebbe un forte cardine nella presidenza Nixon e ambasciatori ufficiali come Grahm Martin e occulti alla Michele Sindona - con l'infinita scia di sangue di 144 morti, 744 feriti, caratterizzò anche migliaia di episodi di violenza neofascista. Singole azioni criminose magari venivano decise da piccoli gruppi o pezzi di partito però rientravano nel piano di uno Stato anticomunista che continuava ad animare una buona fetta della Dc post degasperiana, avvezza all'uso politico d'un servizievole Movimento Sociale. Di questo disegno il partito di Almirante fu parte nient'affatto marginale diffondendo teorie e pratica di chiara matrice reazionaria che nei decenni hanno assunto connotati e adattamenti consoni a più realistiche svolte di controllo autoritario del potere. E' infatti utile riflettere, pur fra le differenze di epoche storiche, sulla continuità e l'evoluzione del modello di premierato fanfaniano poi craxiano e ultimamente berlusconiano.

12 aprile 1973. Dopo l'avanzata elettorale di un'area di destra che andava dai missini ai liberali ed era incentrata su talune correnti democristiane, la ‘maggioranza silenziosa' che sperimentava convergenze fra onorevoli dc (De Carolis, Ciccardini), missini (Servello) e repubblichini presenti sotto la fiamma (Pisanò) aveva in animo di sottrarre la piazza a operai e studenti. A questo micro “PdL ante litteram” s'affiancavano le parate propriamente missine come nel giorno citato quando era atteso a Milano il comizio del sindacalista Cisnal Ciccio Franco, il capopopolo della rivolta di Reggio. Durante il corteo due militanti (Morelli e Loi) lanciarono bombe a mano sui cordoni d'un reparto Celere. L'agente di ps Marino ebbe il petto squarciato e morì. Accanto ai lanciatori sfilavano altri attivisti missini, mentre Servello e l'odierno ministro della Difesa La Russa allora facinoroso esponente del Fuan, offrivano copertura politica all'eversione di gente come Azzi, Rognoni, Vinciguerra, tutti presenti alla manifestazione bombarola.

28 maggio 1976. A Sezze, paese di tradizione antifascista, per le elezioni del 20 giugno il Msi decideva di far parlare un suo candidato impresentabile come Sandro Saccucci implicato nel tentativo di golpe Borghese del dicembre 1970. Lo accompagnava un manipolo di noti squadristi (Allatta, il figlio Benito, i romani Pirone, Aronica, Trimarchi). Di fronte al dissenso della piazza, dove i pochi sostenitori missini erano subissati dai fischi dei paesani, Saccucci tuonò “Non volete sentirmi con le buone? mi sentirete con questa”, sfoderò una pistola e sparò. Rimase a terra senza vita Luigi Di Rosa appartenente all'organizzazione giovanile comunista. 28 febbraio 1978. Nella periferia romana di Cinecittà, a piazzale Don Bosco, quello immortalato diciotto anni prima dalla felliniana “Dolce vita”, un gruppo di neofascisti fuoriusciti dal Msi e organizzatori dei Nuclei Armati Rivoluzionari (i fratelli Fioravanti, Alibrandi) assassinava a colpi di pistola Roberto Scialabba, conosciuto come attivista di Lotta Continua e di un Centro Sociale. A questi tre momenti tragici se ne aggiungevano centinaia, a conferma degli intenti criminosi del neofascismo missino.

Perché il Msi ha avuto nello squadrismo non una variabile impazzita ma un preciso percorso curato e perseguito dai propri politici di primo piano: Almirante, Romualdi, Caradonna, Rauti sino alla generazione dei “delfini e colonnelli”, da Fini ai tanti poltronisti sistemati in quelle stanze del potere interdette ai ‘padri'. La lista (lunghissima e della quale citiamo solo qualche nome tristemente famoso) degli squadristi e stragisti che militavano nel Movimento Sociale Italiano e in strutture ispirate al suo disegno politico come il Fuan e il Fronte della Gioventù (dopo lo scippo post bellico) annovera Delle Chiaie, Graziani, Freda, Ventura, Zorzi, Saccucci, Concutelli, Tuti, Azzi, Vinciguerra, Carminati, i Fioravanti, Mambro, Alibrandi, Anselmi, Adinolfi, Guaglianone, Morsello.

Testimoniano il rapporto diretto svolto dal partito con l'eversione, all'interno del più ampio disegno di provare a reintrodurre in Italia una dittatura con colpi di mano in stile sudamericano o soluzioni d'altro genere. La militanza violenta era nel Dna di questo neofascismo come dimostrano il passato lontano e quello recente di alcuni esponenti degli anni dei successivi successi e dell'orgia del potere. Gli onorevoli Gramazio, Buontempo, Storace, prima delle performance rissaiole nell'emiciclo di Montecitorio e delle lottizzazioni in stile doroteo, vantavano un attivismo armato più di bastoni che di dialettica.

Come loro altri che sarebbero diventati ministri della Repubblica: La Russa e Alemanno, quest'ultimo distintosi in aggressioni e assalti per i quali venne arrestato dalle Forze dell'Ordine e denunciato. Non menavano mani e spranghe Fini e Gasparri per via della reciproca valutazione che i rischi non si confacevano alla carriera, venendo per questo derisi e malvisti da molti camerati muscolari. La distinzione dei ruoli, però, era perfetta: il Msi necessitava di uomini di facciata per bilanciare quello che le sezioni sfornavano quotidianamente: ossessiva propaganda (lautamente finanziata da imprenditori che preferivano non comparire e altri che, come Ciarrapico, si mostravano facendone un vanto) e continui attacchi all'incolumità fisica prima che democratica degli avversari politici. Interi quartieri di Roma e Milano, dove aggressioni e uccisioni raggiunsero fino ai primi anni Ottanta picchi elevatissimi, risultavano invivibili. In questo rinnovato clima i neofascisti diventavano anche bersagli e venivano uccisi alla stregua dei militanti di sinistra; accadde ai fratelli Mattei, Mantakas, Ramelli poi a Pedenovi e agli attivisti di Acca Larentia.

I contrasti e gli scontri si trasformavano in attentati con vittime fra gli stessi missini incrementando l'odio e marchiando i Settanta con l'epiteto di “anni di piombo”. Alla destabilizzazione mirava non solo chi teorizzava un conflitto a livelli sempre più duri, e dunque armati, ma quella politica governativa che con la teoria degli “opposti estremismi” trovava un formidabile alibi per non far luce sulle manovre oscure del Palazzo. Non si spezzava quel garantismo che lo squadrismo cercava e riceveva dalla casa madre missina, né il nutrimento finanziario proveniente dal conservatorismo economico, come alcuni industriali liguri foraggiatori neppure tanto celati della costellazione paramissina. La quale, a metà anni Settanta, iniziò pure a essere colpita dalla magistratura.

Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo, Terza Posizione vennero sciolte ma nulla accadde al Msi per la cui messa fuorilegge fu avanzata un'iniziativa di referendum popolare aggirato dal Parlamento sull'onda del “compromesso storico” strisciante.

Certo sciogliere significava ben poco quando a sigle cancellate ne subentravano di nuove. La vicinanza di certi settori clericali e imprenditoriali fornivano ampie coperture e se alcuni neofascisti venivano incarcerati altri trovavano protezioni internazionali nei fascistissimi Paesi ai cui governi prestavano servigi. I soliti Delle Chiaie, Saccucci, Ghira si ritrovarono alla corte di Franco. Delle Chiaie riparò anche da Pinochet. E c'era chi indisturbato riusciva a fare business come il trio D'Inzillo, Fiore, Morsello. Pur avendo mandati di cattura riuscirono a espatriare nella civilissima Londra e con l'Agenzia per la Gioventù Europea quindi Meeting Point e Easy London, acquistavano case date in affitto a giovani che giungevano da ogni luogo a lavorare e studiare nella capitale britannica. La truffa era immediata: invece dell'appartamento promesso gli si aprivano stamberghe comunque costose le cui quote d'affitto venivano riscosse da minacciosi skinheads. Chi si ribellava trovava botte e coltellate.

Eppure si riscontrarono pochissime denunce e sul losco affarismo di 1.300 appartamenti, più pub e locali dove si sono radunati per anni razzisti e nazisti d'Europa e d'oltre Atlantico con tanto di concerti e pubblicazioni apologetiche, nessuno ha indagato né all'epoca della Thatcher né coi governi laburisti. Roberto Fiore pensava al futuro e finanziava la nuova creatura politica italiana: Forza Nuova. Ormai gli anni Ottanta erano trascorsi, il laboratorio del post-fascismo e la svolta di Fiuggi separavano, almeno nelle piazze e nelle apparizioni ufficiali, i naziskin dagli ex missini delle istituzioni grandi e piccole. Si preparavano le nuove strategie per modernizzare la versione autoritaria del potere.

Fine anni ottanta, la riorganizzazione passa dalle curve degli stadi. Poi gli anni '90, col Congresso di Fiuggi (gennaio '95) che battezza la trasformazione in partito costituzionale, per quanto non tutti gli esponenti di An amassero quella metamorfosi. E infine, l'oggi, fatto di postfascisti diventati berluscones e ora liofilizzati nel Pdl, alleati leghisti e ultrafascisti che convergono da anni nel blocco amalgamato dal Cavaliere

Prima dello sdoganamento berlusconiano, segnato dal plauso alla candidatura di Fini a sindaco di Roma e dal successivo accordo elettorale alle politiche di marzo ‘94, il Msi era un partito di presenza nostalgica che raccoglieva un milione e mezzo di voti, oscillando fra il 5.9% del 1987 e il 5.3% del '92. L'identità neofascista restava invariata ma apparentamenti come quelli col Front National di Le Pen, con tanto di gemellaggi nei comizi fra Nizza e Roma, rappresentavano più una ricerca di partner per uscire dall'isolamento in patria e in  Europa che un reale futuro. Quello scambio conduceva il partito verso un'area di ultradestra segnata da programmi xenofobi e razzisti di foggia magari diversa dagli abiti steieranzung di Heider, ma della  medesima stoffa. Fini che indossava cravatte, prima in  regimental italico poi mondanamente variopinte anche quanto comiziava davanti a camerati guarniti di caschi, bastoni e pistole, soffriva nel vedere il Msi costretto a banchettare solo in certe giunte locali. La grande politica costituiva l'ambizione del segretario e di diversi esponenti del partito. Berlusconi, nuovo uomo forte della scena italiana, lo intuisce e trasporta la famiglia missina nel Palazzo.

A fine Ottanta gli scontri e le uccisioni con gli avversari di sinistra scemavano e accanto a talune conferme di legami fra estremismo nero e malavita non si verificarono particolari ritorni violenti. Il neofascismo s'apprestava a perseguire due strade per nulla contraddittorie. Da una parte si riorganizza fuori dal Msi con molteplici sigle (Forza Nuova, Fiamma Tricolore, Azione Sociale, poi La Destra), dall'altra tiene i piedi nella casa originaria avviata a continue trasformazioni, magari organizzandosi in corrente alla maniera della “Destra Sociale” del già rautiano Alemanno. I due percorsi come per il passato non si contrappongono. Le curve degli stadi sono state il primo laboratorio per una nuova ondata squadrista che ha lì stabilito enclavi in cui la società civile e politica permettevano quello che non doveva essere tollerato. Dagli atti teppistici, agli scontri fra tifoserie, a gemellaggi in base a coloriture politiche delle curve conquistate sempre più dalla marea nera che saluta a braccio teso, urla “Boia chi molla” e “Sigh Heil”. Lì si srotolano striscioni con croci uncinate e celtiche, rune, aquile fasciste, bandiere del Terzo Reich e l'intera simbologia del nazifascismo pre e postbellico.

Pensare che gli spalti della domenica potessero diventare uno "sfogatoio" che non avesse riscontro nella vita sociale è stato l'ennesimo errore tattico della politica democratica che ha lasciato adolescenti imberbi in balìa della propaganda  eversiva di nuovi caporioni. Costoro comprendevano come la platea andasse ben oltre le decine di migliaia di giovani assiepati sugli spalti. Il romano Maurizio Boccacci, ad esempio, leader del disciolto (in applicazione della legge Mancino) Movimento Politico Occidentale, dal '93 al '97 ha lavorato a un meticoloso piano di reclutamento negli stadi e lo ha ampliato superando schemi vecchi come le curve nere dei Boys interisti o degli Irriducibili laziali. La passione calcistica diventava un pretesto utile a intercettare ogni domenica, per nove mesi l'anno, una marea di ragazzi, e attraverso simboli e comportamenti orientarne un numero crescente verso l'ideologia fascista. Due strumenti del disegno erano: creare incidenti che aggregano giovani eccitati dal vitalismo della violenza, unire le curve e le piazze in base a vicinanza di fede politica più che calcistica.

A questo sono servite le svastiche su bandiere di Roma, Lazio, Inter, Milan e decine di club le cui curve nere mimano rivalità nel pallone ma di fatto si ritrovano e si sostengono. I  morti si spostano in questi luoghi, è il caso della drammatica fine di Vincenzo Spagnolo accoltellato da un sedicenne intento a imitare un capo branco famoso nell'uso delle lame. Ma poi tornano a insanguinare le strade visto che il rinnovato neofascismo dà rapidamente dannati frutti con decine e decine di aggressioni e anche assassini come testimoniano gli omicidi di Cesare Dax e Renato Biagetti. Boccacci non è l'unico, gli si è affiancato Giuliano Castellino creando con lui Base Autonoma. In tempi più recenti lo squadrismo curvaiolo con Daniele Pinti di Forza Nuova, Francesco Ceci, Marco Turchetti (nella cui auto viaggiava Gabriele Sandri durante la tragica trasferta con la rissa itinerante nell'autogrill dell'A1 e la sua uccisione da parte di un agente di Ps) vede gli ultras di destra implicati in nuovi agguati a colpi di catene e coltello, come negli anni Settanta.

A Milano sono attivi Luca Cassani, Alessandro Pozzoli, Giancarlo Cappelli, Giancarlo Lombardi, Alessandro Todisco, nomi sconosciuti ai più che si raccordano con politici minori della destra eversiva e istituzionalizzata. Trovano in "Ambrosiana skinheads" e negli “Hammerskin” il brodo primordiale per un'infiltrazione capillare e accettata dalla società calcistica presieduta dall'illuminato ma tanto chiacchierato Massimo Moratti. E anche benedizioni e appoggi di politici locali di Alleanza Nazionale: Alberto Bozzoli, Carlo Fidanza e Roberto Jonghi Lavarini, come ben chiarisce Saverio Ferrari in “Dove batte in cuore nero” su Osservatorio Democratico delle Nuove Destre. Altre calamite usate dal postfascismo verso i giovani sono i punti aggregativi. Sperimentali continuano a essere Roma (Casa Pound, Foro 753) e Milano (Cuore Nero) dove si riciclano avanzi del mai morto cameratismo stragista. È il caso degli uomini dei Nar, Dimitri e Adinolfi, e di Terza Posizione Piso, quest'ultimo recentemente promosso coordinatore laziale del Pdl. La lista di attivisti e fatti che riporta un dossier (“L'organizzazione di An. Foro 753”) pubblicato da Indymedia è ampia.

E' grazie al passaporto democratico offerto unilateralmente agli alleati missini che Forza Italia crea quel Polo che raccoglie l'eredità del crollo dei partiti principi delle tangenti: Psi e Dc. I missini non credono ai loro occhi quando nel giro di ventiquattro mesi le percentuali elettorali salgono di otto punti. Col Congresso del gennaio '95 avevano bagnato nell'acqua di Fiuggi (secondo una rèclame anni Sessanta capace di donare vent'anni di meno) la propria trasformazione in partito costituzionale, per quanto non tutti gli esponenti amassero quella metamorfosi. Si registravano parecchie resistenze nel tagliare radici non solo da parte di chi porta nel cognome il dna fascista e di chi si sente ancora “ragazzo di Salò”, parecchi big di Alleanza Nazionale in parecchi dichiarano di avere, non solo per età anagrafica, il Ventennio nel cuore. A offrire sponda politica a memorie e riproposte "ideali" contribuiva il neopresidente della Camera, il diessino Violante, che nell'ufficialità del discorso del suo insediamento sostenne la necessità di comprendere le ragioni dei ragazzi di Salò.

La politica italiana, investita dal disegno berlusconiano della grande destra e dalla revanche d'un revisionismo storico che ossessivamente imponeva una rilettura riabilitativa del regime di Mussolini, trova in queste aperture linfa vitale. In questi anni si assiste al paradosso dei postfascisti che a parole si defascistizzano e col proprio leader prendono distanze dal passato: nel '95 approvando un emendamento contro razzismo e antisemitismo, nel '99 con la visita di Fini al campo di Auschwitz, seguita quattro anni dopo a quella in Israele. Ma dentro Alleanza Nazionale e nelle aree di riferimento persistono inquietanti esaltazioni del passato, cui seguono i servizi apologetici su gerarchi e Regime divulgati in tivù da ex giornalisti dell'organo di partito traslocati nelle strutture televisive di Stato. E ancora con le dichiarazione dei controllori politici (Storace, Landolfi) della stessa pubblica informazione, e di un ministro della Repubblica (La Russa) che nella celebrazione dell'8 settembre rilancia il paragone fra i combattenti della libertà e i saloini collaboratori dei nazisti. E' la fase in cui gli aennini hanno fatto seguire alla patente democratica consegnatagli da Berlusconi il desiderio di rivalsa verso gli orientamenti dello Stato puntando a svuotarlo dei tratti antifascisti, secondo il vecchio refrain missino e poi dell'estremismo fascista di “guardare oltre”.

La divulgazione fra l'asettico e l'apologetico del fascismo con una ricaduta sulle mode giovanili fra le quali l'uso di gadget nostalgici, non è ormai esclusiva degli ultras da stadio, inizia a radicarsi nei comportamenti comuni con il culto del capo, il disprezzo per i deboli, la “tolleranza zero” verso stranieri e diversi, e aperti toni di razzismo e xenofobia. Di essi il maggiore divulgatore, accanto all'estremismo destorso, è la Lega Nord, partito non a caso vezzeggiato da Berlusconi e incredibilmente tollerato nei comportamenti anticostituzionali dagli avversari. Come per il Msi del dopoguerra e An, la Lega usa la pratica dell'entrismo: stare nelle istituzioni, dai piccoli comuni al Parlamento, e sfruttarle per i propri interessi. Ma sul “chi usa chi?” la risposta appare chiara da tempo. Postfascisti diventati berluscones e ora liofilizzati nel Pdl, alleati leghisti e ultrafascisti convergono da anni nel blocco autoritario amalgamato dal Cavaliere. A cementarlo la conservazione d'un sistema classista, supportato anche dall'interclassismo degli interessi corporativi e minuti.  Pur con le modifiche formali la storia si ripete: poteri forti e politici - incarnati dal leader populista con velleità bonapartiste - e alleati servitori. Nel cantiere dell'Italia autoritaria i prossimi passi, fra consenso e mancanza di alternative, sono la riscrittura della Costituzione e l'attacco al Parlamento. I nostalgici vecchi e nuovi gioiscono, la cosa sa tanto di Ventennio.

Enrico Campofreda
Roma, 20 marzo2009
da “Aprile On Line” (Pubblicato in tre parti il 20/03/2009, 23/03/2009, 31/03/2009)