Milano, 12 febbraio 2012 - Assemblea regionale della FdS
“I comuni e le province dopo le ultime tre manovre economiche”

Enti locali, governo Monti, territorio e ambiente

Gli effetti dei provvedimenti del governo Monti sugli enti locali nei due aspetti principali che riguardano, direttamente o indirettamente, territorio e ambiente, spesso trascurati anche a sinistra.

Considerazioni generali

Invece di elaborare provvedimenti organici in grado di affrontare i nodi strutturali dell’Italia attuale (il dissesto idrogeologico e un inquinamento devastante per l’ambiente e per la salute, la recessione economica, la disoccupazione, il peggioramento delle condizioni di salute e vita per la maggior parte della popolazione), il governo Monti, ovvero il governo dei banchieri e di personaggi assai vicini al Vaticano, variamente connessi tra loro e con esponenti di spicco della destra politica, è intervenuto con due decreti-legge calderone, il primo dell’inizio dicembre 2011, detto decreto “Salvitalia”, e il secondo, del 24 gennaio di quest’anno, il cosiddetto decreto “Crescitalia”.

Sinteticamente possiamo dire di entrambi che gettano fumo negli occhi ( le liberalizzazioni a tutto campo amplificate dalla stampa, che nei fatti si sono ridotte a ben poco, senza toccare poteri forti e corporazioni agguerrite) , e che la loro unica vera sostanza riguarda provvedimenti che in vario modo colpiscono i ceti popolari e i ceti medi a essi contigui ( lavoratori/trici dipendenti, precari/e, disoccupati/e, pensionati/e, lavoratori autonomi a reddito medio basso).

Le manovre del governo Monti in buona sostanza non toccano caste assurdamente privilegiate rispetto a quanto avviene negli altri Paesi europei, e provocano ulteriore recessione, in quanto fanno diminuire ancor più la domanda interna, ovvero la capacità di spesa del 90% della popolazione.

Non potevamo aspettarci altro da un governo di destra, contro il quale occorre mettere in atto opposizione sociale e politica.

Due parole su ciò che sarebbe necessario al Paese e che dovrebbe essere fatto da un governo autenticamente di centrosinistra: in primo luogo:

  1. Un piano pluriennale di messa in sicurezza del territorio nazionale, che traduca in atti di indirizzo concreto e di pianificazione territoriale/ambientale vincolante quanto già previsto dalle leggi esistenti e dalle convenzioni europee sulla difesa del suolo, sul paesaggio, sulle risorse idriche e sui bilanci idrici di bacino, accompagnato da una moratoria delle costruzioni nelle aree a rischio, quali ad es. gli alvei dei fiumi e le zone franose (buona parte della penisola).
  2. Piani industriali di settore basati sulla riconversione ecologica, su tecnologie cosiddette pulite e sull’innovazione energetica nei settori produttivi a più alta tecnologia, in grado di qualificare l’Italia nella competizione internazionale sempre più serrata.

Entrambi questi tipi di provvedimenti creerebbero molti posti di lavoro, eviterebbero spreco e distruzione di risorse e innescherebbero uno sviluppo economico sostenibile, in grado di portare maggiore ben essere diffuso.

Tutto ciò al posto di una crescita sbandierata come rimedio di tutti i mali: crescita che significa solo aumento del Pil (ovvero degli scambi monetari), indipendentemente da come questo è ottenuto ( le alluvioni, l’inquinamento, la produzione di armi, gli incidenti mortali sulle strade e sul lavoro…).

Concentrandoci ora sugli effetti dei provvedimenti del governo Monti sugli enti locali, tratterò i due aspetti principali che riguardano, direttamente o indirettamente, territorio e ambiente, spesso trascurati anche a sinistra.

Province e piani territoriali provinciali. Inquadramento legislativo.

L’art. 23 del decreto “ Salvitalia” (decreto-legge 6/12/2011 n. 201) trasforma le Province da ente intermedio complessivo tra Regione e Comuni in ente guscio vuoto cui spettano esclusivamente le funzioni di indirizzo e coordinamento delle attività dei Comuni nelle materie e nei limiti che saranno indicati con legge statale o regionale, a seconda delle varie competenze.

Le Province, che avevano vivacchiato per decenni con funzioni residuali, settoriali e scoordinate (tempi in cui Ugo La Malfa tuonava per la loro abolizione, allora con qualche motivo, pur se seguendo un’impostazione errata) , erano state trasformate in ente intermedio complessivo dalla legge 142/1990, che era stata un successo del PCI e della migliore cultura del territorio dopo molti anni di impegno in Parlamento e nel Paese.

La legge 142/1990 era poi stata assunta nel decreto legislativo 2000/267, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali.

Si parla di ente intermedio come dimensione tra quella della Regione, troppo estesa per poter dar luogo a una vera e propria pianificazione territoriale e per poter organizzare servizi di area vasta, e quella dei Comuni, troppo piccoli perché nel loro solo ambito si possano affrontare le molte questioni poste dall’espansione economica, edilizia e infrastrutturale verificatasi in modo incontrollato dagli anni ’50 in poi.

Il consumo incontrollato e la cementificazione del suolo e il degrado dell’ambiente sono stati dovuti, oltre che alla speculazione immobiliare dei privati e alla frequente corruzione di politici e funzionari locali, al fatto che le competenze riguardanti la destinazione del suolo e la pianificazione territoriale erano affidate in modo spezzettato unicamente ai Comuni tramite gli strumenti urbanistici, generali e attuativi, in base alla legge urbanistica nazionale del 1942.

La legge 142/1990 aveva invece introdotto, sia pure in grave ritardo rispetto a quanto sarebbe stato indispensabile, il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale, con il compito di indicare le diverse destinazioni del suolo, la localizzazione delle principali infrastrutture e dei grandi impianti con rilevanza sovra comunale (ospedali, centri scolastici, impianti di smaltimento rifiuti e di produzione energetica, ecc.), gli interventi di difesa del suolo e di risanamento ambientale e delle acque, i parchi e le altre aree protette, con effetti in molti casi vincolanti.

La stessa legge e altre successive hanno attribuito poi alle Province altri compiti fondamentali in materia ambientale (prevenzione delle calamità, tutela delle risorse idriche ed energetiche, smaltimento dei rifiuti- che significa anche politiche per ridurne la produzione e per incentivarne la raccolta differenziata, il riciclo e il riuso -, tutela della flora – tra cui gli alberi monumentali - e della fauna), di viabilità e trasporti (gestione, manutenzione e riqualificazione delle strade nazionali extraurbane, gestione del trasporto pubblico locale), di igiene pubblica e di valorizzazione dei beni culturali.

Le Province ben governate e tecnicamente attrezzate elaborano inoltre il piano energetico provinciale (fondamentale, anche se, in quanto tale, non previsto obbligatoriamente per legge), che si occupa degli interventi per l’uso razionale dell’energia, del risparmio energetico, delle fonti rinnovabili, del teleriscaldamento, delle priorità di intervento e della relativa destinazione delle risorse finanziarie.

La Regione Lombardia, inventrice in Italia della strisciante distruzione di fatto dei grandi sistemi pubblici in materia di territorio, sanità e scuola, aveva progressivamente svilito e quasi svuotato, con le sue leggi regionali 1/2000 e 12/2005, ruolo e compiti del PTCP e ora il governo Monti pretenderebbe di cancellarlo completamente, con la scusa di abbattere i costi della politica. Ritornerò su quest’ultimo aspetto.

Intanto è bene dire due cose:

Un’uguale presa in giro sarebbe considerare valida ed efficace una funzione di indirizzo e di coordinamento delle attività dei Comuni in materia territoriale e ambientale da parte di Province ridotte a enti fantoccio, ora che la situazione del suolo e dell’ambiente si è ulteriormente aggravata, stante anche l’arretratezza culturale e politica che ancora caratterizza in buona parte il nostro Paese su queste questioni.

Si può discutere sulla reale efficacia di piani territoriali provinciali sempre osteggiati dalle forze politiche di destra e sempre insidiati dagli speculatori immobiliari e dalla grande distribuzione commerciale: ma la loro sparizione, anche se sarà camuffata dalla sopravvivenza nominale in capo alle Regioni, è di una gravità inaudita.

Di una gravità inaudita specialmente in Lombardia, nelle cui aree di pianura si registra uno dei più elevati consumi di suolo dell’intero Paese e il più grave inquinamento delle acque (Bacino di Lambro Seveso Olona in primo luogo), un inquinamento dell’aria tra i più spaventosi dell’intero pianeta, oltre alla minaccia, in parte già concretizzatasi, di numerose nuove autostrade.

Nelle aree maggiormente costruite e infrastrutturate un piano territoriale provinciale avrebbe proprio il compito – più che di decidere come organizzare razionalmente le varie attività umane su un territorio vergine - di tutelare strenuamente almeno i parchi e le altre aree protette esistenti, di valutare molto attentamente ciò che ancora serve e di localizzarlo o in edifici da recuperare o su aree già urbanizzate o, comunque, in modo da contenere la dispersione degli insediamenti e ridare forma agli abitati e in modo da evitare la trasformazione di nuovo suolo agricolo in suolo edificato: il piano provinciale dovrebbe essere, in sostanza, un piano di riqualificazione territoriale/ambientale.

Le altre funzioni della Provincia.

La Provincia ha per legge anche altre funzioni, e altre ne ha sviluppato per servire territori vasti a una scala più razionale di quella comunale:

Per questo chiamiamo la Provincia ente intermedio “complessivo”, che necessita –comunque- di raccordo pianificatorio e programmatorio con il livello di governo più ampio (la Regione) e con quelli più piccoli ( i Comuni) e con gli enti a diversa articolazione territoriale (gli enti parco e le autorità di bacino idrico soprattutto) che operano anch’essi a tutela del territorio e dell’ambiente.

Ente inutile?

La Provincia è tutt’altro che un ente inutile, ma, poiché ha un compito fondamentale in una materia – la tutela del territorio e dell’ambiente - che è di ostacolo a chi vuole continuare a speculare sul suolo, nell’edilizia, nelle autostrade, nella grande distribuzione commerciale, nello smaltimento rifiuti, e – soprattutto - ha l’unica dimensione territoriale adatta a svolgere questo compito , non deve stupire che sia stata fatta oggetto di un attacco così radicale e disastroso.

Le leggi si possono modificare o abrogare; la distruzione del territorio è irreversibile.

Si dirà: le Province sono diventate troppe, molte non hanno senso in quanto troppo piccole.

E’ vero, ma allora la soluzione sarebbe stata razionalizzarne le dimensioni, riportarle all’incirca al numero di 15-20 anni fa, prima della loro proliferazione insensata, che era avvenuta unicamente per la brama di nuovi posti di pseudo governo e sottogoverno e in base a un localismo fatto passare per necessità di una maggiore diffusione di servizi, senz’altro attuabile senza bisogno di istituire nuovi enti di governo.

Sarebbe stato sensato attuare, ad esempio, quanto previsto da Tremonti l’estate scorsa, aggiungendo però ai criteri numerici allora indicati, soprattutto la popolazione inferiore ai 300.000 abitanti, altri criteri, quali ad es. la tradizione storica, l’ampiezza e la morfologia del territorio, l’omogenea conformazione territoriale e produttiva e la necessità di non frantumare, sotto differenti organismi politici, territori costituenti fisicamente un’unica continuità urbanizzata: in Lombardia mantenere le Province di Sondrio e di Lodi, riaccordare quelle di Como e di Lecco e, soprattutto, riaccorpare la Provincia di Monza e Brianza con quella di Milano, trasformando entrambe nella Città metropolitana di Milano, articolata in Municipalità.

Il pretesto della diminuzione dei costi della politica.

Ai fini della diminuzione dei costi della politica l’abolizione delle Province è pretestuosa: in base ai dati forniti dall’Unione Province d’Italia, su 813 miliardi di spesa pubblica complessiva nel 2011 (amministrazione centrale dello Stato, settore previdenziale, interessi sul debito, Regioni Province, Comuni), le Province, con i loro 11 miliardi di euro, rappresentano l’1,35%.

Nel 2010 il personale politico delle 107 Province ammontava a circa 4.000 unità, ma, dopo l’approvazione del decreto legge 2/2010, il numero di consiglieri/e e assessori/e era stato ridotto del 20%; inoltre, con la legge 148/2011, era stata operata un’ulteriore diminuzione, arrivando così a una riduzione complessiva del 55% e cioè a 1774 persone (107 presidenti, 395 assessori/e, 1272 consiglieri/e).

Passando ora ai compensi, dopo la manovra 2011, a regime, in base a quanto previsto dal decreto 78/2010 sulla riduzione delle indennità degli amministratori provinciali, il loro costo complessivo si ridurrà a 34 milioni di euro, contro un costo di 844.000 degli amministratori regionali e di 590.000 di quelli comunali.

Per chi volesse approfondire il tema delle entrate e della spesa delle Province, nonché della loro efficienza amministrativa, esiste uno studio del dicembre 2011 elaborato dall’Università Bocconi di Milano.

Cosa impone l’art 23 del decreto “ Salvitalia” e le implicazioni di anticostituzionalità.

L’art. 23 del decreto “ Salvitalia” prevede poi che lo Stato e le Regioni, con proprie leggi, trasferiscano ai Comuni, entro il 31 dicembre 2012, le funzioni attualmente in capo alle Province, salvo le funzioni che dovrebbero essere acquisite dalle Regioni per assicurarne l’esercizio unitario.

Ma tutto ciò comporterebbe notevoli costi aggiuntivi per la Pubblica Amministrazione nel suo complesso, ingenererebbe caos nel sistema delle autonomie locali nel trasferimento di funzioni e personale, difficoltà nei loro bilanci e per la valutazione e il trasferimento del demanio e del patrimonio delle Province, provocherebbe il blocco totale degli investimenti in corso e programmati da parte di tali enti e disservizi per gli utenti prolungati nel tempo , imporrebbe la modifica della normativa fiscale e probabilmente innescherebbe un contenzioso infinito riguardante le prescrizioni dei piani territoriali approvati da enti che hanno perso le competenze in materia: esattamente il risparmio nella spesa pubblica e l’efficienza negli interventi e nei servizi pubblici di cui il Paese ha bisogno per essere “salvato”!

Abbiamo già detto della mistificazione di poter trasferire funzioni in materia di territorio e ambiente di ambito provinciale alle Regioni o, peggio, ai Comuni: sarebbe il via libera totale e definitivo al completo sfascio del territorio.

Rimarrebbero gli enti parco e le autorità di bacino, che però hanno funzioni settoriali per quanto importantissime, e non sono retti da organismi elettivi, per cui non è efficace esercitare nei loro confronti le azioni e le pressioni politiche e sociali attuabili nei confronti di enti di governo del territorio con organismi democraticamente eletti.

Dal punto di vista della rappresentatività democratica, poi, l’art. 23 riduce gli organi di governo delle Province a Consigli provinciali di non più di dieci componenti – indipendentemente dall’ampiezza e dalla complessità del territorio e dall’entità della popolazione ! -, eletti/e dai Consigli comunali e quindi con un’elezione di secondo livello ( non direttamente da elettori ed elettrici), e a un presidente eletto/a fra loro dai dieci consiglieri/e.

Tutto ciò è in contrasto con il dettato della Costituzione, secondo cui (art. 114) “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”.

La Costituzione sancisce inoltre che le Province sono “enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”, titolari di funzioni amministrative proprie, tra cui “funzioni fondamentali” stabilite da leggi dello Stato e conferite da leggi statali e regionali, e di “potestà regolamentare”; che hanno “autonomia finanziaria di entrata e di spesa”, “tributi ed entrate propri”, oltre a compartecipazioni ai tributi erariali in misura tale da poter finanziare integralmente le funzioni loro attribuite.

Le Province sono rette da organismi (il Consiglio provinciale e il/la presidente) eletti democraticamente e direttamente dalla popolazione.

Tutte queste caratteristiche, già a suo tempo discusse e confermate dal dibattito nell’Assemblea costituente, e poi con la legge costituzionale 3/2001, sono state pretestuosamente ignorate, svuotando di fatto le Province, non potendo abolirle formalmente senza una legge costituzionale.

Si tratta in ogni caso di una disciplina esposta a gravi obiezioni di illegittimità costituzionale, che la Regione Lombardia ha già impugnato davanti alla suprema Corte.

Proposte dell’UPI (Unione Province d’Italia)

Per concludere l’argomento non resta che citare le proposte, totalmente condivisibili, che l’Unione Province d’Italia ha presentato il 31 gennaio in riunioni straordinarie dei consigli provinciali in tutto il Paese, a partire dalla richiesta alle Regioni di promuovere ricorsi di fronte alla Corte costituzionale, e dalla richiesta al governo e al Parlamento di approvare una riforma organica basata su:

E’ assai corretto mettere l’accento sul “chi fa che cosa” tra i vari enti locali, anche in materia di territorio e ambiente, quando si tratta di rilasciare permessi e certificati, effettuare controlli e simili, ma è fondamentale che a monte dell’unico sportello al pubblico vi sia una cooperazione strettissima e intelligente tra i vari soggetti che in qualche modo hanno voce in capitolo: il territorio è una continuità fisica non separabile da barriere politico-amministrative, le acque costituiscono un sistema che scorre continuamente dai monti ai mari, l’aria circola portata dai venti o ristagna in assenza di venti e l’opera della Pubblica Amministrazione nel suo complesso non sarà mai efficace se non sarà organizzata in modo sistematico e cooperativo al di là dell’indispensabile articolazione in ambiti territoriali governati da enti con organismi elettivi, quindi politici, quindi titolari di scelte.

Ciò vale a maggior ragione per la pianificazione territoriale/ambientale e per la programmazione degli interventi concreti, che devono essere basate sulla partecipazione incrociata di ogni ente alla pianificazione dell’altro con cui condivide una qualunque porzione di territorio.

Su come risolvere i conflitti tra i diversi interessi in merito all’uso del suolo e le divergenze tra i possibili modi di affrontare le questioni, non resta che puntare sull’azione politica e sul cercare di far crescere una cultura della cura del territorio come responsabilità individuale e collettiva nei confronti del bene collettivo per eccellenza, al di là della proprietà privata su singole porzioni di suolo: il territorio come contenitore di tutte le attività umane, come risorsa sempre più scarsa e assolutamente non rinnovabile.

Se non noi, chi?

Distribuzione commerciale, territorio/ambiente, vivibilità urbana.

L’art. 31 del già citato decreto “ Salvitalia” dedicato alle liberalizzazioni prevede sia la totale liberalizzazione degli orari di negozi, grande distribuzione commerciale e pubblici esercizi (bar, ristoranti, locali), senza limitazione alcuna, in ogni parte d’Italia, sia la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi natura, “esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente urbano ed extraurbano e dei beni culturali”.

E’ del tutto evidente che la completa liberalizzazione degli orari potrà essere sostenuta solo dalla grande distribuzione commerciale al dettaglio, che potrà crescere ulteriormente, con ulteriori danni irreversibili al territorio e all’ambiente, quali:

  1. cementificazione di nuovo suolo agricolo in quantità rilevante, per gli spazi di vendita, i magazzini, i parcheggi, gli snodi stradali di accesso (la superficie di vendita, indicatore usato per normare e realizzare le grandi strutture commerciali, corrisponde mediamente solo a un quarto dell’intera area interessata); la cementificazione progressiva del suolo agricolo provoca il mancato drenaggio da parte del terreno in caso di piogge, sempre più violente e concentrate a causa dei cambiamenti climatici, e quindi l’alterazione del sistema delle acque e una facilitazione delle alluvioni;
  2. la perdita di forma e di confini dei centri abitati; la dispersione di costruzioni di scarsa qualità e a bassa densità in continuità fisiche interminabili, che sfigurano il paesaggio agricolo e urbano e ne annullano l’identità, le caratteristiche e la bellezza (quella che gli antichi chiamavano “l’anima dei luoghi”); la trasformazione di strade statali in strade mercato: tipiche, partendo da Milano, la Vigevanese e la Statale del Sempione;
  3. l’aumento del traffico merci su gomma per i rifornimenti e del traffico automobilistico da parte degli/delle acquirenti ( la grande distribuzione commerciale non è raggiungibile con i mezzi pubblici); ne deriva un maggior inquinamento atmosferico e acustico;
  4. la scomparsa dei negozi di vicinato in un raggio di circa 30 km, con la desertificazione commerciale di interi paesi e di periferie urbane: esistono già ora in Lombardia (anche in pianura) paesi in cui non c’è neanche un negozio, né il panettiere/lattaio, né l’edicola dei giornali; i negozi di vicinato, specialmente con una popolazione in fase di progressivo invecchiamento, svolgono una funzione insostituibile di incontro, di quattro chiacchiere e di compagnia con persone conosciute; quando fa buio, con le loro luci e con le loro vetrine colorate, costituiscono un elemento importantissimo di sicurezza per chi percorre le strade a piedi; sono un servizio sociale che dà vivibilità e allegria ai centri abitati di qualunque dimensione.

I danni territoriali delle liberalizzazioni degli orari. La chiusura dei negozi di vicinato.

Quando si parla di danni al territorio non ci si riferisce ai supermercati e ai grandi magazzini piccoli e medio/grandi ben inseriti nei contesti abitati delle parti dense delle città e nei paesi, ma di centri commerciali, ipermercati, grandi superfici specializzate per tipologie di prodotto (arredamento, bricolage, ecc.), cresciuti ai margini degli abitati estendendoli senza soluzione di continuità tra uno e l’altro.

I danni territoriali sono provocati anche dai centri commerciali all’ingrosso e dai cash and carry, aperti generalmente solo agli operatori del settore (ad es. le strutture Metro), ma queste strutture seguono logiche diverse rispetto al commercio al dettaglio e probabilmente sono meno influenzate da una liberalizzazione degli orari di apertura, per cui non ce ne occupiamo.

La liberalizzazione degli orari porterà all’ulteriore chiusura dei negozi di vicinato, ancor più soccombenti nell’impari competizione con la grande distribuzione al dettaglio, così come l’apertura di nuovi esercizi senza alcun limite non potrà interessare di fatto piccole unità produttive senza politiche pubbliche di appoggio.

Per negozi di vicinato non si intendono né i punti vendita di beni di lusso, generalmente localizzati in centro, né i punti vendita di catene costituendi grandi imprese industriali/commerciali, in grado di competere sul mercato: si intendono piccole imprese commerciali e artigianali/commerciali che danno lavoro ai/alle componenti la famiglia e a pochissimi/e dipendenti, che però nel complesso costituiscono numerosi posti di lavoro (autonomo e dipendente), e che trattano beni di largo consumo o comunque utili alla generalità della popolazione.

La progressiva chiusura dei negozi di vicinato comporta perciò anche considerevoli perdite occupazionali, mentre l’apertura di nuove strutture della grande distribuzione dà origine a pochissimi posti di lavoro, sia in assoluto sia rispetto al capitale investito.

I piccoli punti vendita di qualunque tipologia, inoltre, offrono un servizio di orientamento e di consulenza ai consumatori assente nella grande distribuzione, che risparmia sul personale dipendente, e questo aspetto ha anche una valenza economica su cui è possibile far leva.

Nei centri commerciali (non nelle altre strutture della grande distribuzione) sono presenti anche negozi, ma è del tutto evidente che con tale collocazione non svolgono le funzioni sociali di fatto svolte dai negozi di vicinato.

Considerazioni analoghe possono essere fatte anche per il piccolo artigianato di servizio (calzolai, tintorie/lavanderie, riparazioni elettriche e idrauliche, ecc.), sempre più importante sia in periodi di crisi economica, sia per la necessità impellente dal punto di vista ambientale di non sprecare materiali e di non produrre rifiuti, ma di conservare e riparare.

Gli effetti sulle condizioni di lavoro.

Per concludere sugli effetti della liberalizzazione degli orari di apertura sui lavoratori e soprattutto sulle lavoratrici – in larga maggioranza nella grande distribuzione al dettaglio – , l’allungamento degli orari non potrà che aumentare il lavoro a turni già massacrante e i disagi nel rientro a casa (soprattutto nelle ore serali e notturne), peggiorando le condizioni di salute e di vita di relazione in tutte le sue forme, e costringendo a un maggior uso dell’auto individuale nel tragitto casa-lavoro.

Non a caso la protesta è esplosa con scioperi regionali, manifestazioni, raccolte di firme, online. Anche la Cgil tenta da anni di contenere l’estensione dell’orario di lavoro soprattutto nei giorni festivi, quando, in base al cosiddetto decreto Bersani (1998), sulle aperture domenicali decidevano Regioni e Comuni, ma la preventiva concertazione con le parti sociali era obbligatoria.

Le proteste e le azioni di contrasto di numerosi Enti locali

Tre Regioni, intanto, Piemonte, Toscana e Puglia, hanno annunciato che impugneranno la norma sulla liberalizzazione degli orari di vendita davanti alla Corte costituzionale, e altre ci stanno pensando, a tutela della piccola distribuzione come servizio alla residenza e attività di interesse collettivo, ma anche perché il governo ha invaso un settore di ormai consolidata competenza regionale.

Nel Consiglio regionale della Lombardia è passata a larghissima maggioranza una mozione proposta dalla Lega Nord che chiede alla giunta di fare ricorso alla Corte costituzionale contro la deregolamentazione totale voluta dal governo.

A Milano la giunta comunale aveva approvato a metà gennaio un calendario di aperture straordinarie domenicali facoltative, contro il quale le sigle della grande distribuzione avevano fatto ricorso al Tar, il quale si è subito pronunciato a loro favore con un provvedimento d’urgenza. La sentenza è prevista a giorni.

Si dirà: ma i prezzi sono più bassi nei supermercati, negli ipermercati e soprattutto negli hard discount rispetto a quelli dei negozi di quartiere sotto casa e questo è un aspetto determinante, soprattutto nei periodi di crisi economica.

E’ vero, ma accorte politiche comunali sono in grado di far diminuire i costi per i piccoli esercizi, anche mediante il sostegno all’associazionismo, e di favorirne la presenza anche mediante interventi di riqualificazione urbana complessiva. Ritornerò su questo aspetto.

E’ quasi superfluo, a questo punto, osservare che la Lombardia è la regione italiana con la maggior concentrazione di grande distribuzione commerciale rispetto agli abitanti, e con le strutture mediamente più estese, così come è una delle regioni con la più elevata quota di suolo cementificato, e che nel 2011 è aumentato il saldo negativo tra aperture e chiusure di esercizi commerciali e soprattutto di negozi. A Milano hanno chiuso anche negozi storici, parte integrante della tradizione cittadina e del paesaggio urbano.

A Milano hanno chiuso anche molte edicole, altro elemento assai importante per chi vive la città a piedi, e fattore per diffondere informazione ( in un Paese in cui il 70% della popolazione non legge giornali), e anche cultura (libri, spesso pregevoli, a basso costo). A mio parere occorrerebbe trovare anche il modo per tutelare e incentivare la presenza delle edicole da parte dei Comuni, proprio in quanto servizio di interesse collettivo.

Non è questa la sede per enumerare i limiti e gli errori contenuti nella legislazione fin qui succedutasi sul commercio e sui connessi aspetti urbanistico/territoriali – a livello statale la legge 426/1971 prima e il decreto legislativo 114/1998 (Bersani) poi, più la legislazione regionale, assai diversificata da una realtà all’altra -.

La situazione dal punto di vista giuridico è incerta, dipendente dalle pronunce della Corte costituzionale, in materia di liberalizzazione commerciale e di mantenimento e ruolo delle Province; dai poteri in materia di territorio e di insediamenti che verranno attribuiti alle Città Metropolitane, se e quando verranno istituite (se ne parla e scrive da quarant’anni!); dal se e come verrà elaborata e approvata una legge organica sulle competenze e i poteri delle Province (alcune leggi regionali particolarmente avanzate attribuiscono ai piani territoriali di coordinamento provinciale competenze precise in materia di grande distribuzione commerciale; in una legge organica sulle Province si potrebbero proporre anche programmi commerciali d’area vasta – sicuramente sovra comunale- che razionalizzino e riqualifichino la rete commerciale complessivamente considerata, dalla grande distribuzione agli ambulanti).

Che fare?

Più utile è mettere a punto il che fare qui e ora:

  1. Opposizione sociale e politica al governo Monti e alle singole sue manovre e normative.
  2. Opposizione sociale e nelle istituzioni locali a ogni livello a nuovi grandi insediamenti mangiatori di suolo agricolo in generale, e di nuove strutture della grande distribuzione commerciale in particolare, anche se in questo caso remano contro la tutela del territorio gli oneri di urbanizzazione, assai appetiti dai Comuni a causa della continua progressiva falcidia delle risorse comunali operata dai governi centrali succedutisi nel tempo.
  3. Promozione di piani comunali - o riguardanti porzioni di Comuni confinanti che costituiscono un tutt’uno dal punto di vista fisico o riguardanti più piccoli Comuni dalle caratteristiche omogenee - di riqualificazione urbana e di rivitalizzazione socioeconomica (riqualificazione urbanistico/architettonica di spazi aperti da trasformare in luoghi “centrali” dal punto di vista qualitativo, recupero edilizio, pedonalizzazione di piazze e vie, arredo urbano, inserimento in edifici di proprietà pubblica di servizi socioculturali, di luoghi di aggregazione, di negozi ad affitti simbolici in cambio di una calmierazione dei prezzi concordata con il Comune); si tratta di creare in zone periferiche – o di ricreare in nuclei e centri storici – luoghi piacevoli e accoglienti in cui nuovi negozi costituiscano elemento di attrazione, mantenendo nel Comune risorse che altrimenti sarebbero spese nei centri commerciali situati spesso in altri Comuni.
  4. I Comuni possono promuovere, in accordo con le associazioni dei commercianti ai vari livelli, anche a livello di via:
    1. l’aggregazione di negozi di una stessa piazza o via o gruppi di vie o quartiere per far gestire collettivamente servizi gestionali, di contabilità, paghe e contributi, pubblicità e marketing, riducendo così i costi di gestione, con benefici effetti sul contenimento dei prezzi;
    2. l’aggregazione di negozi che offrono lo stesso genere merceologico per acquisti all’ingrosso delle merci da vendere o di arredi e attrezzature da rinnovare;
    3. l’aggregazione di negozi di generi complementari situati in uno stesso quartiere per la messa a punto di una carta di fedeltà cumulativa con la stessa funzione della “fidelity card” introdotta dalle grandi catene.
  5. I Comuni possono operare con sgravi e agevolazioni riguardanti i tributi locali e favorire l’apertura di negozi in edifici di proprietà pubblica (anche dell’Aler) con modalità concordate (affitti e prezzi di vendita).
  6. Consorzi o altre aggregazioni di Comuni possono operare congiuntamente per innalzare al massimo possibile e in modo omogeneo gli oneri di urbanizzazione per nuove strutture della grande distribuzione commerciale e per sostenere, in reti associative sempre più estese e solide, l’associazionismo dei piccoli esercizi commerciali con le modalità suggerite o con altre da inventare e da combinare.

Se di questi tempi è assai difficile proporre ai Comuni interventi di riqualificazione urbana, è invece sempre possibile operare per la vivibilità urbana, per il ben essere collettivo e per la tutela di una quota di occupazione,con alcune politiche e azioni che non sono contrarie alla legislazione vigente – qualunque essa sia - e che sottraggono nei fatti risorse economiche alla grande distribuzione commerciale.

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Maria Carla Baroni (Segreteria PdCI Lombardia)
Milano, 12 febbraio 2012