La Costituzione e le vicende politico-istituzionali italiane dal 1946 al 1994

3.4. 1976-1979: l’unità nazionale

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In Italia, già a partire dall’inizio degli anni settanta, quasi contemporaneamente al fenomeno dello stragismo di estrema destra, si manifestò il terrorismo di estrema sinistra, strutturato in una serie di gruppuscoli clandestini, ma principalmente nell’organizzazione denominata Brigate Rosse.

Secondo una visione estremizzata del marxismo più ortodosso e della lotta di classe, i suoi fondatori, ponendosi in una posizione molto critica verso i partiti storici della sinistra e in particolare verso il PCI, si batterono contro lo "Stato borghese", strumento del dominio capitalistico e simulacro di democrazia. Esso non poteva essere legalmente riformato, ma solo combattuto attraverso la lotta armata che avrebbe dovuto accelerare e acutizzare il conflitto di classe preparando le condizioni per la rivoluzione proletaria.

Mentre lo stragismo di estrema destra con i suoi attentati colpiva in modo indiscriminato, attraverso bombe fatte esplodere in luoghi pubblici, il terrorismo di estrema sinistra era molto più selettivo. Colpendo singoli individui, mirava a colpire "il cuore dello Stato". Ne rimanevano vittime magistrati, uomini politici, industriali, giornalisti, membri delle forze dell’ordine, attraverso azioni di guerriglia che si concludevano con il rapimento, ma più spesso con l’immediata uccisione di quelli che venivano definiti "servi dello Stato".

Dal 1974 furono decine e decine le vittime di questo terrorismo i cui ultimi colpi di coda giunsero fino verso la fine degli anni ottanta, quando ormai le BR erano isolate e depotenziate.

Verso la metà degli anni settanta l’Italia fu segnata, oltre che dai durissimi colpi dello stragismo e del terrorismo, da un momento particolarmente difficile per la sua economia a causa della grave crisi energetica e dell’elevata inflazione.

È in questo quadro che maturò l’idea del segretario del PCI Enrico Berlinguer del "compromesso storico", cioè di un incontro tra i comunisti e le masse cattoliche democratiche rappresentate dalla DC, in una prospettiva di governo unitario del Paese. Il momento era tragico e difficile e molte erano le forze oscure e palesi che si battevano contro l’avanzata delle sinistre.

L’interlocutore più sensibile nella DC verso questo progetto politico apparve l’On. Moro, dal 1976 Presidente della stessa DC, che più di ogni altro si pose il problema di una fase nuova nella vita politica italiana. Egli riconobbe la necessità della partecipazione del PCI almeno alla maggioranza parlamentare e, superata la crisi, eventualmente anche a un Governo alternativo, ponendo fine alla conventio ad excludendum che aveva caratterizzato tutti i Governi della Repubblica dal 1947.

Moro era consapevole dei danni di quella che lui stesso definì una "democrazia incompiuta" e, dall’altra parte, degli intenti sinceramente democratici del PCI di Berlinguer.

Così come negli anni sessanta era stato portato il PSI al Governo, ora era necessario allargare le basi democratiche dello Stato coinvolgendo anche il PCI, nell’intento di giungere, superata l’emergenza del drammatico momento, al sostanziale mutamento democratico delle forze di governo.

Nacque così l’idea dei Governi di unità nazionale che dal 1976 al 1979 caratterizzarono la vita politica italiana. Alla loro guida venne posto l’0n. Andreotti. La composizione ministeriale di questi Governi era esclusivamente democristiana, ma essi furono sorretti da una maggioranza parlamentare che includeva tutti i partiti dell’arco costituzionale, PCI compreso, con la sola esclusione dell’MSI.

Per molti versi sembrava ricostituita quella unità tra tutti i partiti antifascisti che aveva caratterizzato la guerra di Liberazione e la fase costituente della Repubblica, al fine di contrapporsi più efficacemente allo stragismo e al terrorismo e difendere la Costituzione stessa e le istituzioni democratiche conquistate a duro prezzo da quei partiti.

Ma nel marzo 1978, proprio nel giorno in cui l’0n. Moro si apprestava a recarsi in Parlamento per votare la fiducia al secondo Governo di unità nazionale, un commando delle Brigate Rosse annientava la sua scorta e lo rapiva.

Dopo circa due mesi e una tormentata prigionia, il presidente della DC venne assassinato e il suo corpo venne fatto ritrovare nel bagagliaio di un’automobile nel centro di Roma.

Molti dubbi rimangono riguardo agli atteggiamenti assunti e alle leggerezze dimostrate prima, durante e dopo quel tragico rapimento da parte di tutti gli organi preposti alla difesa dello Stato.

La commissione di indagine parlamentare sul terrorismo e sull’affare Moro in primo luogo evidenziò che, dopo l’ottimo lavoro del questore Santillo e del generale Dalla Chiesa che aveva determinato la decapitazione del gruppo dirigente delle BR per ben due volte, dal 1974 al 1978 ci fu un periodo di vera e propria stasi e di smobilitazione degli apparati repressivi dello Stato e che non si diede luogo alla eliminazione definitiva, pur avendone la possibilità, del terrorismo di estrema sinistra. Tanto che le BR riuscirono ad organizzare nel pieno centro di Roma il rapimento, l’uccisione di cinque uomini della scorta e la detenzione indisturbata per 55 giorni del leader della DC.

La stessa commissione di indagine evidenziò anche che il comitato di sicurezza che conduceva le indagini, nominato dall’allora Ministro dell’interno On. Francesco Cossiga, era costituito in gran parte, 8 componenti su 12 , da uomini della P2, la loggia massonica segreta di Licio Gelli, così come quasi tutta la catena di comando dei servizi segreti italiani dell’epoca.

A questo comitato di sicurezza partecipò anche un esperto della CIA che si impegnò per dimostrare che Moro non era indispensabile alla vita del Governo e della Nazione.

Per inciso, nel 1966, l’0n. Cossiga, futuro Presidente della Repubblica e all’epoca sottosegretario alla difesa, aveva partecipato, per sua ammissione, alla formazione di atti amministrativi concernenti Gladio.

Ma i punti oscuri della vicenda non si limitarono alla composizione del comitato di sicurezza. Tra gli altri, di particolare evidenza furono le segnalazioni sul covo in cui venne tenuto prigioniero Moro e di cui all’epoca non si fece nulla, e ancora la stampatrice dei messaggi delle BR che si scoprì provenire dall’ufficio dei servizi segreti che provvedeva all’addestramento dei "gladiatori".

Sono forti gli interrogativi sulla autonomia di azione delle BR in quegli anni e in particolare di quella più clamorosa. Moro era l’uomo politico che all’interno della DC più di altri sostenne l’abbandono delle posizioni maggiormente ostili all’ingresso dei comunisti nel Governo.

Uno dei suoi più stretti collaboratori, Corrado Guerzoni, a dieci anni di distanza da quei tragici fatti, in un’intervista a un quotidiano affermò: "Sappiamo perché è stato ucciso Moro: per la posizione nei confronti del PCI... Moro avrebbe garantito che anche per i comunisti sarebbe stato rispettato fino in fondo il gioco democratico, cioè che se i comunisti avessero vinto le elezioni, nulla sarebbe stato fatto per impedire, a loro danno, il rispetto formale e sostanziale del dettato costituzionale ...i nemici di Moro sapevano che egli non si sarebbe prestato a letture di comodo della Costituzione".

È pur vero che nell’ottica rivoluzionaria delle BR il compromesso storico di Berlinguer rappresentava una scelta politica da contrastare; nel 1979 le BR giunsero perfino ad uccidere il sindacalista comunista Guido Rossa. Ma è anche vero che tale scelta era probabilmente condivisa da alcuni settori del potere politico che, in dispregio dei più elementari diritti politici sanciti dalla Costituzione democratica, continuavano a nutrire un’ostinata e feroce ostilità rispetto alla prospettiva di un futuro ingresso dei comunisti al Governo.

Lo stesso Alberto Franceschini, uno dei capi storici delle BR, in un’intervista di qualche anno fa si disse certo, sia pure non suffragando con nessuna prova le sue affermazioni, che le BR: "erano state strumentalizzate dall’esterno per impedire che il PCI di Berlinguer andasse al potere".

Ancora una volta in Italia si può ipotizzare un ennesimo intervento tendente a destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare quello politico. Un altro freno al mutamento possibile.

Non c’è dubbio che il clima che si instaurò negli "anni di piombo" rafforzò le forze conservatrici. Rafforzamento documentato dal progressivo calo elettorale del PCI e dal fallimento della strategia del compromesso storico con il quale si sarebbe voluto finalmente superare la "democrazia bloccata" italiana.

Nonostante tutto, la solidarietà tra le diverse forze politiche espressa dai Governi di unità nazionale permise di superare i momenti più tragici dell’emergenza politica ed economica ed inoltre consentì, sul piano istituzionale, l’approvazione di due importanti provvedimenti legislativi di attuazione della Costituzione: nel 1977, la legge di parità tra uomo e donna sul lavoro, in attuazione dell’art. 37; nel 1978, la legge di riforma sanitaria che, nell’ambito di un progetto ambizioso e organico di prevenzione, cura delle patologie e riabilitazione, attraverso le Unità Sanitarie Locali, dava nuova concretezza al diritto alla salute previsto dall’art. 32 .

Come già precedentemente ricordato, negli anni sessanta e settanta svolse un ruolo fondamentale anche la Corte Costituzionale, eliminando dall’ordinamento giuridico molte disposizioni emanate nel corso del regime fascista, ora in palese contrasto con i principi della Costituzione repubblicana.

Frutto di quegli anni fu anche l’elezione a Presidente della Repubblica di Sandro Pertini, un appassionato partigiano socialista, già membro dell’Assemblea Costituente, che più volte denunciò le interferenze dei servizi segreti stranieri nelle vicende italiane degli anni settanta e che più di ogni altro simboleggiò l’unità democratica del popolo italiano a difesa della sua Costituzione nella tragedia dello stragismo e del terrorismo.

Graziano Galassi
Vignola, 1 maggio 1996
www.grazianogalassi.it