Ci sono parole come "razzismo" e "imperialismo" a cui
nessuno vuole essere associato pubblicamente. Ce ne sono altre come
"madre" e l'ambiente" per le quali tutti sono ansiosi di
dimostrare il loro entusiasmo. "Democrazia" è una di queste. Nei
giorni del socialismo reale perfino i regimi meno credibili, come la Corea del
Nord, la Cambogia di Pol Pot e lo Yemen, la esibivano nelle loro denominazioni
ufficiali. Oggi, a parte alcune teocrazie islamiche, le monarchie ereditarie e
gli sceiccati del Medio Oriente, è impossibile trovare un regime che non
renda omaggio all'idea di assemblee o presidenti democraticamente eletti.
Indipendentemente dalla storia e dalla cultura, le caratteristiche
costituzionali comuni a Svezia, Papua Nuova Guinea e Sierra Leone (quando vi
si può trovare un presidente eletto) collocano ufficialmente questi paesi in
una categoria, mentre Pakistan e Cuba si trovano in un'altra.
Ecco perché una disamina pubblica della democrazia è tanto necessaria quanto
straordinariamente difficile.
Non c'è un nesso logico o necessario tra le varie componenti dell'insieme
che costituisce la cosiddetta "democrazia liberale".
Gli Stati non democratici possono basarsi sul principio del Rechtstaat o Stato
di diritto, come indubbiamente fecero la Prussia e la Germania imperiali.
Dai tempi di Tocqueville e di John Stuart Mill sappiamo che la libertà e il
rispetto delle minoranze sono spesso più minacciati che protetti dalla
democrazia. Sappiamo anche, da Napoleone III, che i regimi che vanno al potere
con un colpo di Stato possono continuare a godere di un consenso maggioritario
attraverso successivi ricorsi al suffragio universale (maschile).
E né la Corea del Sud né il Cile negli anni Settanta e Ottanta suggeriscono
che esista un legame automatico tra capitalismo e democrazia. Comunque,
l'argomentazione a favore delle libere elezioni non sostiene che esse
garantiscano i diritti, bensì che, almeno in teoria, consentano al popolo di
sbarazzarsi dei governi impopolari.
E qui vanno fatte tre osservazioni critiche.
Oggi, tuttavia, "il popolo" è il fondamento e il punto di
riferimento comune di tutti i governi statali, salvo quelli teocratici.
Questo non è solo inevitabile, ma è anche giusto: se il governo ha una
qualche funzione, è proprio quella di parlare a nome di tutti i cittadini e
di prendersi cura del loro benessere.
Nell'era dell'uomo della strada, ogni governo è "governo del popolo e
per il popolo", anche se a nessun livello pratico può essere
"governo gestito dal popolo".
Questo è stato il terreno comune di liberal democratici, comunisti, fascisti
e nazionalisti, anche se le loro idee divergevano su come formulare, esprimere
e influenzare 1a volontà popolare". La propaganda di massa è stata una
componente essenziale perfino dei regimi pronti a esercitare un potere
coercitivo illimitato.
Nemmeno le dittature possono sopravvivere a lungo se viene meno la
disponibilità dei cittadini ad accettare il regime.
Ecco perché, quando è arrivato il momento, i regimi "totalitari dell'europa
orientale, seppure con un apparato statale fedele e una macchina repressiva
efficiente, sono crollati in modo rapido e indolore.
I governi dei moderni Stati territoriali o Stati-nazione si fondano su tre
punti cardine:
Negli ultimi trenta o quarant'anni questi punti cardine hanno via via perso validità.
La sovranità del mercato non è un completamento della democrazia liberale, bensì una sua alternativa.
In realtà è un'alternativa a ogni tipo di politica, dato che nega il
bisogno stesso di decisioni politiche; decisioni che riguardano gli interessi
comuni o di gruppo, e in quanto tali sono distinte dalla somma delle scelte,
razionali o meno, degli individui che perseguono interessi privati.
La partecipazione al mercato sostituisce dunque la partecipazione alla
politica.
Il consumatore prende il posto del cittadino.
Due elementi compensano il declino della partecipazione civile e dell'efficacia del processo tradizionale del governo rappresentativo.
E non sono né i dibattiti parlamentari né le linee editoriali dei
giornali a provocare il malcontento dell'opinione pubblica.
Un malcontento cosi palese che perfino i governi con le maggioranze più
solide devono tenerne conto tra un'elezione e l'altra: ne siano esempio le
proteste popolari contro le imposte sui carburanti o contro i cibi transgenici.
Quando emergono queste proteste è piuttosto inutile liquidarle come l'opera
di piccole minoranze, non elette e atipiche, anche se di solito è proprio
cosi.
Grazie ai mass media l'opinione pubblica è più potente che mai, il che
spiega il successo delle professioni specializzate nell'influenzarla.
Quel che è meno evidente è il legame cruciale tra la politica dei media e
l'azione diretta: l'azione dal basso che influenza direttamente i massimi
responsabili politici, scavalcando i meccanismi intermedi dei governi
rappresentativi.
Questo è particolarmente evidente negli affari transnazionali, dove i
meccanismi intermedi non esistono. Noi tutti conosciamo il cosiddetto effetto
CNN - la sensazione politicamente forte ma completamente disorganica -
che "si deve fare qualcosa" per il Kurdistan, per Timor Est e così
via.
Più di recente, le manifestazioni di protesta a Seattle e a Praga hanno
dimostrato l'efficacia dell'azione diretta mirata, messa in atto da piccoli
gruppi consapevoli del potere della televisione.
Questa azione è stata condotta perfino contro organizzazioni come il Fondo
monetario internazionale e la Banca mondiale, espressamente concepite per
essere immuni ai processi politici democratici.
Tutto ciò mette la democrazia liberale di fronte a quello che è forse il suo problema più serio e immediato: in un mondo sempre più globalizzato e transnazionale, i governi nazionali coesistono con forze che hanno un impatto sulla vita quotidiana dei cittadini almeno pari al loro, ma che in varia misura supera il loro controllo.
I governi, tuttavia, non possono abdicare davanti a queste forze che sfuggono al loro controllo.
Quando salgono i prezzi del petrolio, per esempio, tutti i cittadini, compresi i dirigenti &azienda, sono convinti che il governo possa e debba fare qualcosa, anche in paesi come l'Italia, dove ci si aspetta poco o nulla dallo Stato, o negli Stati Uniti, dove molti non credono allo Stato.
Ma che possono e devono fare i governi? Più che in passato essi sono sotto
l'incessante pressione di un'opinione pubblica costantemente monitorata. Ciò
limita le loro scelte.
Nonostante questo, però, i governi non possono smettere di governare. In
realtà gli esperti di pubbliche relazioni sollecitano i governi a farsi
vedere sempre intenti a governare.
Come sappiamo dalla storia britannica della fine del Ventesimo secolo, questo
non fa che moltiplicare i gesti, gli annunci e, a volte, le leggi inutili.
Oggi, inoltre, le autorità pubbliche sono alle prese con decisioni di
interesse generale di natura tecnica oltre che politica.
E qui i voti democratici o le scelte dei consumatori nel mercato non sono di
nessun aiuto. Le conseguenze ambientali della crescita illimitata del traffico
e le misure migliori per affrontarle non possono essere portate all'attenzione
dei cittadini solo attraverso dei referendum.
Queste misure possono dimostrarsi impopolari e in una democrazia è imprudente
dire all'elettorato ciò che non vuole sentirsi dire.
Ma allora, come si possono organizzare in modo razionale le finanze dello
Stato quando i governi sono convinti che ogni proposta di aumentare le tasse
equivalga a un suicidio e quando, di conseguenza, le campagne elettorali sono
una gara allo spergiuro fiscale e i bilanci dei governi sono degli esercizi di
ottenebramento fiscale?
Insomma, la "volontà popolare", comunque sia espressa, non può
determinare i compiti specifici del governo. Come Sidney e Beatrice Webb hanno
osservato a proposito dei sindacati, la volontà popolare non può giudicare i
progetti ma solo i risultati.
È molto più brava a votare contro che a favore.
E quando raggiunge uno dei maggiori trionfi negativi, come mettere fine ai
cinquant'anni di regime postbellico corrotto in Italia o in Giappone, è
incapace di fornire un'alternativa.
Staremo a vedere se riuscirà a farlo in Serbia.
Tuttavia il governo è per il popolo.
E i suoi effetti vanno giudicati in base a ciò che fa al popolo.
Per quanto possa essere disinformata, ignorante o perfino stupida, e per
quanto possano essere inadeguati i metodi per scoprirla, la "volontà
popolare" è indispensabile.
Come potremmo altrimenti giudicare il modo in cui le soluzioni tecnico
politiche per quanto accorte e tecnicamente soddisfacenti influenzano la vita
degli esseri umani in carne e ossa?
I sistemi sovietici hanno fallito perché non c'era scambio reciproco tra
chi prendeva le decisioni "nell'interesse del popolo" e coloro ai
quali queste decisioni erano imposte.
La globalizzazione liberista degli ultimi vent'anni ha compiuto lo stesso
errore. Oggi la soluzione ideale non è quasi mai alla portata dei governi.
È una soluzione su cui si sono basati i medici e i piloti degli aerei in
passato e a cui ancora oggi cercano di aggrapparsi in un mondo sempre più
diffidente: la convinzione diffusa che noi e loro condividiamo gli stessi
interessi.
Noi non gli diciamo in che modo devono prestare i loro servizi anche perché,
in qualità di non esperti, non potremmo ma finché qualcosa non va storto gli
diamo la nostra fiducia.
Pochi governi godono oggi di questa fondamentale fiducia a priori.
Nelle democrazie liberali raramente essi rappresentano la maggioranza dei
voti, per non dire dell'elettorato.
I partiti e le organizzazioni di massa, che una volta fornivano ai "loro" governi proprio questa fiducia e un appoggio costante, si sono sgretolati.
Sugli onnipresenti mass media i critici di professione, in nome di una presunta competenza superiore, attaccano continuamente l'operato del governo. Così la soluzione più conveniente per i governi democratici, e a volte anche l'unica, è quella di mantenere il processo decisionale il più possibile fuori dalla sfera pubblica e politica, o almeno di eludere il processo del governo rappresentativo.
Molte decisioni politiche saranno negoziate e decise dietro le quinte. Questo aumenterà la sfiducia dei cittadini verso il governo e abbasserà la considerazione dell'opinione pubblica per i politici.
Qual è allora il futuro della democrazia liberale? Fatta eccezione per la teocrazia islamica, in linea di principio nessun potente movimento politico pone una sfida a questa forma di governo. La seconda metà del Ventesimo secolo è stata l'età dell'oro delle dittature militari.
Il Ventunesimo secolo non sembra cosi favorevole a esse: nessuno degli
Stati ex comunisti ha scelto di seguire questa strada, mentre quasi tutte le
dittature non hanno più il coraggio di esprimere a piena voce le loro
convinzioni antidemocratiche e si limitano ad affermare di voler salvare la
Costituzione fino alla data (imprecisata) di un ritorno al governo civile.
Qualsiasi cosa si pensasse prima dei terremoti economici del 1997 1998, oggi
è chiaro che l'utopia di un mercato liberista globale, senza Stati, non si
realizzerà.
La maggior parte della popolazione mondiale, e certamente quella dei regimi liberal democratici degni di questo nome, continuerà a vivere in Stati attivi, anche se in alcune regioni sfortunate il potere e l'amministrazione statale si sono praticamente disintegrati.
Quindi la politica continuerà, e cosi pure le elezioni democratiche.
Dobbiamo affrontare i problemi del ventunesimo secolo con un insieme di meccanismi politici terribilmente inadeguati allo scopo. Questi meccanismi sono in realtà confinati entro le frontiere degli Stati-nazione, il cui numero è in aumento, e hanno di fronte un mondo globale che si estende oltre il loro raggio d'azione.
Non è nemmeno chiaro fino a che punto possano applicarsi all'interno di un territorio vasto ed eterogeneo che possiede una cornice politica comune, come l'Unione europea. Questi meccanismi politici devono vedersela con un'economia mondiale che opera attraverso unità molto diverse? le imprese multinazionali a cui non si applicano le considerazioni di legittimità politica e di interesse comune.
E soprattutto hanno di fronte un'epoca in cui l'impatto dell'intervento umano sulla natura e sul globo è diventato una forza di proporzioni geologiche. L'adozione di nuovi meccanismi richiederà misure per le quali, quasi certamente, non si troverà nessun sostegno contando i voti o valutando le preferenze dei consumatori.
Questo non è incoraggiante per le prospettive a lungo termine né della democrazia né del globo.
Dobbiamo affrontare il terzo millennio come quel personaggio di fantasia irlandese che, a chi gli chiedeva la strada per Ballynahinch, dopo aver riflettuto un attimo rispondeva: "Fossi in lei non partirei da qui" Ma è proprio da qui che dobbiamo partire.
Eric Hobsbawm è uno storico britannico di orientamento marxista. E' professore emerito di storia economica e sociale alla London University. Autore di molti saggi, ha analizzato le dinamiche economiche e la conflittualità sociale nell'età moderna e contemporanea. Le sue opere più recenti sono: "Gente non comune" (Rizzoli), "Intervista sul nuovo secolo" (a cura di Antonio Polito, Laterza); "Il secolo breve: l'era dei grandi cataclismi" (Rizzoli).