Un intervento dello storico britannico Eric Hobsbawm (NEW STATESMAN, GRAN BRETAGNA)
"La democrazia fa male?"

Non tutte le parole sono uguali

Ci sono parole come "razzismo" e "imperialismo" a cui nessuno vuole essere associato pubblicamente. Ce ne sono altre come "madre" e l'ambiente" per le quali tutti sono ansiosi di dimostrare il loro entusiasmo. "Democrazia" è una di queste. Nei giorni del socialismo reale perfino i regimi meno credibili, come la Corea del Nord, la Cambogia di Pol Pot e lo Yemen, la esibivano nelle loro denominazioni ufficiali. Oggi, a parte alcune teocrazie islamiche, le monarchie ereditarie e gli sceiccati del Medio Oriente, è impossibile trovare un regime che non renda omaggio all'idea di assemblee o presidenti democraticamente eletti.
Indipendentemente dalla storia e dalla cultura, le caratteristiche costituzionali comuni a Svezia, Papua Nuova Guinea e Sierra Leone (quando vi si può trovare un presidente eletto) collocano ufficialmente questi paesi in una categoria, mentre Pakistan e Cuba si trovano in un'altra.
Ecco perché una disamina pubblica della democrazia è tanto necessaria quanto straordinariamente difficile.

Cosa caratterizza la democrazia liberale?

Non c'è un nesso logico o necessario tra le varie componenti dell'insieme che costituisce la cosiddetta "democrazia liberale".
Gli Stati non democratici possono basarsi sul principio del Rechtstaat o Stato di diritto, come indubbiamente fecero la Prussia e la Germania imperiali.
Dai tempi di Tocqueville e di John Stuart Mill sappiamo che la libertà e il rispetto delle minoranze sono spesso più minacciati che protetti dalla democrazia. Sappiamo anche, da Napoleone III, che i regimi che vanno al potere con un colpo di Stato possono continuare a godere di un consenso maggioritario attraverso successivi ricorsi al suffragio universale (maschile).
E né la Corea del Sud né il Cile negli anni Settanta e Ottanta suggeriscono che esista un legame automatico tra capitalismo e democrazia. Comunque, l'argomentazione a favore delle libere elezioni non sostiene che esse garantiscano i diritti, bensì che, almeno in teoria, consentano al popolo di sbarazzarsi dei governi impopolari.

E qui vanno fatte tre osservazioni critiche.

  1. Innanzitutto, come ogni altra forma di regime politico, la democrazia liberale richiede un'unità politica entro la quale possa essere esercitata: normalmente si tratta dello "Stato nazione". Laddove una tale unità non esiste, la democrazia liberale non è applicabile.
  2. La seconda osservazione riguarda l'affermazione secondo cui il governo liberal democratico è sempre superiore o almeno preferibile al governo non democratico.
    A parità di condizioni non c'è dubbio che questo sia vero, ma a volte le condizioni non sono pari.
    L'Ucraina ha raggiunto una forma di governo più o meno democratica, ma al prezzo di perdere due terzi del modesto prodotto interno lordo che faceva registrare ai tempi dell'unione Sovietica.
    La Colombia è stata governata da un regime militare o da caudillos populisti solo per brevi periodi; per il resto ha avuto un governo costituzionale, rappresentativo e democratico, con due partiti rivali i liberali e i conservatori in competizione tra di loro, come da manuale. Tuttavia le persone uccise, mutilate e cacciate dalle loro case negli ultimi cinquant'anni si contano a milioni e sono molte di più di quelle registrate in uno qualsiasi dei paesi latinoamericani vittime di dittature militari.
  3. La terza osservazione è stata espressa da Winston Churchill "La democrazia è la peggiore forma di governo, eccetto tutte le altre che sono già state provate". Le argomentazioni a favore della democrazia sono essenzialmente negative. Anche come alternativa ad altri sistemi, la democrazia può essere difesa solo a malincuore.
    Per gran parte del Ventesímo secolo ciò non ha avuto molta importanza, dato che i sistemi politici che hanno provato a sfidarla erano palesemente terribili.
    Finché la democrazia rappresentativa liberale ha dovuto fronteggiare queste sfide, i suoi difetti strutturali come sistema di governo sono stati evidenti solo ai pensatori più acuti e agli autori satirici. In realtà perfino i politici ne discutevano ampiamente e apertamente, finché non è diventato imprudente dire in pubblico quel che si pensava veramente della massa di elettori da cui dipendeva la propria elezione.

La propaganda di massa

Oggi, tuttavia, "il popolo" è il fondamento e il punto di riferimento comune di tutti i governi statali, salvo quelli teocratici.
Questo non è solo inevitabile, ma è anche giusto: se il governo ha una qualche funzione, è proprio quella di parlare a nome di tutti i cittadini e di prendersi cura del loro benessere.
Nell'era dell'uomo della strada, ogni governo è "governo del popolo e per il popolo", anche se a nessun livello pratico può essere "governo gestito dal popolo".
Questo è stato il terreno comune di liberal democratici, comunisti, fascisti e nazionalisti, anche se le loro idee divergevano su come formulare, esprimere e influenzare 1a volontà popolare". La propaganda di massa è stata una componente essenziale perfino dei regimi pronti a esercitare un potere coercitivo illimitato.
Nemmeno le dittature possono sopravvivere a lungo se viene meno la disponibilità dei cittadini ad accettare il regime.
Ecco perché, quando è arrivato il momento, i regimi "totalitari dell'europa orientale, seppure con un apparato statale fedele e una macchina repressiva efficiente, sono crollati in modo rapido e indolore.
I governi dei moderni Stati territoriali o Stati-nazione si fondano su tre punti cardine:

  1. il primo è che hanno più potere delle altre strutture che operano sul loro territorio;
  2. il secondo è che gli abitanti del loro territorio ne accettano l'autorità più o meno di buon grado;
  3. il terzo è che i governi possono fornire ai loro cittadini servizi ? come l'ordine pubblico, il proverbiale "Law and order" che altrimenti non potrebbero essere erogati con la stessa efficienza, o addirittura non potrebbero proprio esistere.

Negli ultimi trenta o quarant'anni questi punti cardine hanno via via perso validità.

Da cittadini a consumatori

La sovranità del mercato non è un completamento della democrazia liberale, bensì una sua alternativa.

In realtà è un'alternativa a ogni tipo di politica, dato che nega il bisogno stesso di decisioni politiche; decisioni che riguardano gli interessi comuni o di gruppo, e in quanto tali sono distinte dalla somma delle scelte, razionali o meno, degli individui che perseguono interessi privati.
La partecipazione al mercato sostituisce dunque la partecipazione alla politica.
Il consumatore prende il posto del cittadino.

Declino della partecipazione civile

Due elementi compensano il declino della partecipazione civile e dell'efficacia del processo tradizionale del governo rappresentativo.

  1. I titoli dei giornali o le irresistibili immagini televisive sono l'obiettivo immediato dì tutte le campagne politiche, poiché molto più efficaci e molto più semplici della mobilitazione di migliaia di persone.
  2. Sono finiti ì tempi in cui il lavoro dell'ufficio di un ministro veniva interrotto per rispondere a un'improvvisa interrogazione parlamentare. Oggi è l'eventualità della pubblicazione di un servizio giornalistico a bloccare l'attività del numero 10 di Downing Street.

E non sono né i dibattiti parlamentari né le linee editoriali dei giornali a provocare il malcontento dell'opinione pubblica.
Un malcontento cosi palese che perfino i governi con le maggioranze più solide devono tenerne conto tra un'elezione e l'altra: ne siano esempio le proteste popolari contro le imposte sui carburanti o contro i cibi transgenici.
Quando emergono queste proteste è piuttosto inutile liquidarle come l'opera di piccole minoranze, non elette e atipiche, anche se di solito è proprio cosi.
Grazie ai mass media l'opinione pubblica è più potente che mai, il che spiega il successo delle professioni specializzate nell'influenzarla.
Quel che è meno evidente è il legame cruciale tra la politica dei media e l'azione diretta: l'azione dal basso che influenza direttamente i massimi responsabili politici, scavalcando i meccanismi intermedi dei governi rappresentativi.
Questo è particolarmente evidente negli affari transnazionali, dove i meccanismi intermedi non esistono. Noi tutti conosciamo il cosiddetto effetto CNN -  la sensazione politicamente forte ma completamente disorganica - che "si deve fare qualcosa" per il Kurdistan, per Timor Est e così via.
Più di recente, le manifestazioni di protesta a Seattle e a Praga hanno dimostrato l'efficacia dell'azione diretta mirata, messa in atto da piccoli gruppi consapevoli del potere della televisione.
Questa azione è stata condotta perfino contro organizzazioni come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, espressamente concepite per essere immuni ai processi politici democratici.

I governi e le altre forze di pressione

Tutto ciò mette la democrazia liberale di fronte a quello che è forse il suo problema più serio e immediato: in un mondo sempre più globalizzato e transnazionale, i governi nazionali coesistono con forze che hanno un impatto sulla vita quotidiana dei cittadini almeno pari al loro, ma che in varia misura supera il loro controllo.

I governi, tuttavia, non possono abdicare davanti a queste forze che sfuggono al loro controllo.

Quando salgono i prezzi del petrolio, per esempio, tutti i cittadini, compresi i dirigenti &azienda, sono convinti che il governo possa e debba fare qualcosa, anche in paesi come l'Italia, dove ci si aspetta poco o nulla dallo Stato, o negli Stati Uniti, dove molti non credono allo Stato.

I compiti dei governi

Ma che possono e devono fare i governi? Più che in passato essi sono sotto l'incessante pressione di un'opinione pubblica costantemente monitorata. Ciò limita le loro scelte.
Nonostante questo, però, i governi non possono smettere di governare. In realtà gli esperti di pubbliche relazioni sollecitano i governi a farsi vedere sempre intenti a governare.
Come sappiamo dalla storia britannica della fine del Ventesimo secolo, questo non fa che moltiplicare i gesti, gli annunci e, a volte, le leggi inutili.
Oggi, inoltre, le autorità pubbliche sono alle prese con decisioni di interesse generale di natura tecnica oltre che politica.
E qui i voti democratici o le scelte dei consumatori nel mercato non sono di nessun aiuto. Le conseguenze ambientali della crescita illimitata del traffico e le misure migliori per affrontarle non possono essere portate all'attenzione dei cittadini solo attraverso dei referendum.
Queste misure possono dimostrarsi impopolari e in una democrazia è imprudente dire all'elettorato ciò che non vuole sentirsi dire.
Ma allora, come si possono organizzare in modo razionale le finanze dello Stato quando i governi sono convinti che ogni proposta di aumentare le tasse equivalga a un suicidio e quando, di conseguenza, le campagne elettorali sono una gara allo spergiuro fiscale e i bilanci dei governi sono degli esercizi di ottenebramento fiscale?

Insomma, la "volontà popolare", comunque sia espressa, non può determinare i compiti specifici del governo. Come Sidney e Beatrice Webb hanno osservato a proposito dei sindacati, la volontà popolare non può giudicare i progetti ma solo i risultati.
È molto più brava a votare contro che a favore.
E quando raggiunge uno dei maggiori trionfi negativi, come mettere fine ai cinquant'anni di regime postbellico corrotto in Italia o in Giappone, è incapace di fornire un'alternativa.
Staremo a vedere se riuscirà a farlo in Serbia.

Tuttavia il governo è per il popolo.
E i suoi effetti vanno giudicati in base a ciò che fa al popolo.

Per quanto possa essere disinformata, ignorante o perfino stupida, e per quanto possano essere inadeguati i metodi per scoprirla, la "volontà popolare" è indispensabile.
Come potremmo altrimenti giudicare il modo in cui le soluzioni tecnico politiche per quanto accorte e tecnicamente soddisfacenti influenzano la vita degli esseri umani in carne e ossa?

I sistemi sovietici hanno fallito perché non c'era scambio reciproco tra chi prendeva le decisioni "nell'interesse del popolo" e coloro ai quali queste decisioni erano imposte.
La globalizzazione liberista degli ultimi vent'anni ha compiuto lo stesso errore. Oggi la soluzione ideale non è quasi mai alla portata dei governi.

È una soluzione su cui si sono basati i medici e i piloti degli aerei in passato e a cui ancora oggi cercano di aggrapparsi in un mondo sempre più diffidente: la convinzione diffusa che noi e loro condividiamo gli stessi interessi.
Noi non gli diciamo in che modo devono prestare i loro servizi anche perché, in qualità di non esperti, non potremmo ma finché qualcosa non va storto gli diamo la nostra fiducia.
Pochi governi godono oggi di questa fondamentale fiducia a priori.
Nelle democrazie liberali raramente essi rappresentano la maggioranza dei voti, per non dire dell'elettorato.

I partiti e le organizzazioni di massa, che una volta fornivano ai "loro" governi proprio questa fiducia e un appoggio costante, si sono sgretolati.

Sugli onnipresenti mass media i critici di professione, in nome di una presunta competenza superiore, attaccano continuamente l'operato del governo. Così la soluzione più conveniente per i governi democratici, e a volte anche l'unica, è quella di mantenere il processo decisionale il più possibile fuori dalla sfera pubblica e politica, o almeno di eludere il processo del governo rappresentativo.

Molte decisioni politiche saranno negoziate e decise dietro le quinte. Questo aumenterà la sfiducia dei cittadini verso il governo e abbasserà la considerazione dell'opinione pubblica per i politici.

Il futuro della democrazia liberale

Qual è allora il futuro della democrazia liberale? Fatta eccezione per la teocrazia islamica, in linea di principio nessun potente movimento politico pone una sfida a questa forma di governo. La seconda metà del Ventesimo secolo è stata l'età dell'oro delle dittature militari.

Il Ventunesimo secolo non sembra cosi favorevole a esse: nessuno degli Stati ex comunisti ha scelto di seguire questa strada, mentre quasi tutte le dittature non hanno più il coraggio di esprimere a piena voce le loro convinzioni antidemocratiche e si limitano ad affermare di voler salvare la Costituzione fino alla data (imprecisata) di un ritorno al governo civile.
Qualsiasi cosa si pensasse prima dei terremoti economici del 1997 1998, oggi è chiaro che l'utopia di un mercato liberista globale, senza Stati, non si realizzerà.

La maggior parte della popolazione mondiale, e certamente quella dei regimi liberal democratici degni di questo nome, continuerà a vivere in Stati attivi, anche se in alcune regioni sfortunate il potere e l'amministrazione statale si sono praticamente disintegrati.

Quindi la politica continuerà, e cosi pure le elezioni democratiche.

Come affrontare il terzo millennio

Dobbiamo affrontare i problemi del ventunesimo secolo con un insieme di meccanismi politici terribilmente inadeguati allo scopo. Questi meccanismi sono in realtà confinati entro le frontiere degli Stati-nazione, il cui numero è in aumento, e hanno di fronte un mondo globale che si estende oltre il loro raggio d'azione.

Non è nemmeno chiaro fino a che punto possano applicarsi all'interno di un territorio vasto ed eterogeneo che possiede una cornice politica comune, come l'Unione europea. Questi meccanismi politici devono vedersela con un'economia mondiale che opera attraverso unità molto diverse? le imprese multinazionali a cui non si applicano le considerazioni di legittimità politica e di interesse comune.

E soprattutto hanno di fronte un'epoca in cui l'impatto dell'intervento umano sulla natura e sul globo è diventato una forza di proporzioni geologiche. L'adozione di nuovi meccanismi richiederà misure per le quali, quasi certamente, non si troverà nessun sostegno contando i voti o valutando le preferenze dei consumatori.

Questo non è incoraggiante per le prospettive a lungo termine né della democrazia né del globo.

Dobbiamo affrontare il terzo millennio come quel personaggio di fantasia irlandese che, a chi gli chiedeva la strada per Ballynahinch, dopo aver riflettuto un attimo rispondeva: "Fossi in lei non partirei da qui" Ma è proprio da qui che dobbiamo partire.

Che è Eric Hobsbawm

Eric Hobsbawm è uno storico britannico di orientamento marxista. E' professore emerito di storia economica e sociale alla London University. Autore di molti saggi, ha analizzato le dinamiche economiche e la conflittualità sociale nell'età moderna e contemporanea. Le sue opere più recenti sono: "Gente non comune" (Rizzoli), "Intervista sul nuovo secolo" (a cura di Antonio Polito, Laterza); "Il secolo breve: l'era dei grandi cataclismi" (Rizzoli).

Eric Hobsbawm
London University, 5 marzo 2001
da "Internazionale" e da "rivista socialista" web "L'Ossimoro" http://www.ossimoro.it/p95a.htm