Nella primavera del 2001, oltre alle elezioni politiche per il rinnovo della Camera dei Deputati e del Senato, si svolgerà un importante test elettorale amministrativo. Per il rinnovo dei consigli comunali saranno chiamati alle urne 129 comuni sopra i 15.000 abitanti e 1149 sotto i 15.000 abitanti, per un totale di 1278 comuni. Fra questi, spiccano alcuni capoluoghi di regione, come Roma, Napoli, Milano, Torino, Ancona, Catanzaro, Cagliari, Trieste.
L'ampiezza della consultazione è tale da assumere un'evidente valenza politica. Il fatto poi, che essa avvenga in contemporanea con le elezioni politiche, ne rafforza ulteriormente il significato. Ma al di la di queste considerazioni, questo test assume una particolare importanza in quanto gli enti locali saranno destinati nel corso dei prossimi anni ad assumere un ruolo maggiore per effetto delle nuove competenze che gli sono state attribuite. Il paradosso sta semmai nel fatto che accanto a tali crescenti funzioni, le risorse disponibili sono state progressivamente ridotte per effetto di scelte di politica economica assai discutibili.
Negli ultimi 10 anni i tagli e il contenimento delle risorse trasferite agli Enti locali hanno assommato, infatti, ad oltre 60 mila miliardi mentre, nello stesso periodo e, in particolare dal 90 in poi, i comuni hanno fatto fronte alle minori risorse con aumenti delle entrate tributarie praticamente raddoppiandole. Nel complesso, quindi, ai comuni e alle province sono mancate risorse per oltre 40 mila miliardi.
Le ultime finanziarie hanno inoltre aggravato ulteriormente la condizione economica degli Enti Locali, attraverso il patto di stabilità interna in virtù del quale non solo è stata accresciuta l'imposizione fiscale locale, ma si è incentivata la dismissione del patrimonio pubblico, si è sollecitato l'incremento delle tariffe, si è limitato l'intervento nelle opere pubbliche senza contare le limitazioni poste sul piano degli organici. Inoltre con appositi strumenti legislativi si è avviata una politica di privatizzazione dei servizi che avrebbe potuto essere ancora più significativa se la fine della legislatura non avesse impedito l'approvazione del provvedimento sulla privatizzazione dei servizi a rete.
Gli effetti di tali scelte sono stati devastanti: è cresciuta la pressione fiscale sui cittadini e in modo particolare sulle fasce a basso reddito, nel frattempo si è indebolita la funzione redistributrice degli enti locali anche in virtù del ridimensionamento dell'offerta di servizi sociali, le aree socialmente più compromesse sono rimaste emarginate in assenza di investimenti adeguati in opere pubbliche, si è indebolita la funzione programmatori a dell'ente locale in modo particolare per quanto riguarda le dinamiche territoriali, mentre quote di sovranità pubblica è stata ceduta ai privati.
Tali scelte in campo politico amministrativo- sono intervenute in una fase di profonde trasformazioni sul piano socio-economico caratterizzate dal mutamento dei mercati del lavoro urbano, con l'estendersi di disoccupazione e precariato, dalla modifica della base economica delle città, con l'affermarsi di nuovi processi di terziarizzazione, dal modificarsi delle stesse culture (per l'estendersi di nuovi fenomeni come l'immigrazione, per l'allentarsi della rete di relazioni sociali, per il venir meno di una partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica).
Tutto ciò ha comportato il prodursi di un fenomeno di disgregazione sociale con l'affermarsi anche nelle città di un'egemonia moderata. I segni di tale egemonia sono rintracciabili nell'affermazione di culture localiste, nella presa che hanno avuto i richiami allarmistici al problema della sicurezza, nei rivolgimenti politici che si sono avuti in precedenti elezioni amministrative, con il passaggio alla destra di governi locali tradizionalmente di sinistra. Un nuovo blocco sociale rischia pertanto di affermarsi nelle città come coagulo di interessi che ruotano intorno alla rendita urbana, dell'estendersi di una rete di attività economiche che traggono impulso dalla stessa dismissione di funzioni pubbliche, dal prodursi di nuovi fenomeni clientelari in assenza di diritti universali certi.
Nasce da qui lo sforzo compiuto con l'elaborazione di questo programma nazionale per i comuni. Al centro vi è il tentativo, attraverso la restituzione di una funzione centrale all'intervento pubblico, di ricostruire una coesione sociale fondata sulla disponibilità di una rete qualificata di servizi, di superare gli squilibri sociali attraverso la riattivazione di una politica redistributiva, di intervenire sulla marginalità sociale favorendo politiche di inclusione, di garantire il diritto collettivo alla città recuperando luoghi di socializzazione e risanando le aree degradate e periferiche, di valorizzare le risorse locale attivando un percorso di sviluppo fondato sulla multipolarità, l'intersettorialità e le sinergie fra risorse produttive e risorse sociali, rianimando una società civile disorientata attraverso il recupero di una dialettica politica nelle istituzioni e allargando le occasioni di partecipazione.
Sempre più difficile diventa la costruzione di politiche di bilancio capaci di dare valide risposte al complesso ventaglio di problemi delle città e dei territori. La forte riduzione dei trasferimenti e il patto di stabilità, rappresentano difficoltà oggettive al mantenimento dei servizi, al finanziamento di progetti di sviluppo e a interventi anche coordinati con altri Enti sul territorio. Non solo, la stessa politica tariffaria e impositiva che è stata praticata a livello locale per compensare almeno in parte i mancati trasferimenti ha determinato un'ulteriore pressione sui redditi, specialmente su quelli medio bassi. Gli effetti di tale situazione sono già visibili a livello locale, dove si sta determinando un fenomeno crescente di polarizzazione sociale, con il prodursi di squilibri di reddito e con l'allargamento delle fasce marginali. Per contrastare queste tendenze è necessario garantire agli enti locali adeguate risorse e nel contempo assumere la redistribuzione del reddito come linea guida delle politiche locali. E' evidente che questi indirizzi richiedono una svolta profonda delle scelte di politica economica, a partire dal ripristino di adeguati finanziamenti agli enti locali, ma ad ogni modo è possibile praticare anche a livello locale scelte conformi a tali indirizzi. I punti essenziali possono essere così riassunti.
Va da subito precisato che le Autonomie Locali, soprattutto Comuni e Province, da sole non sono in grado di dare risposte adeguate al problema occupazionale. Ne consegue che gli Enti Locali nel riprogettare i percorsi dello sviluppo, devono inevitabilmente attivare progetti capaci di far scendere in campo anche altri soggetti per coinvolgerle in uno sforzo sinergico capace di attivare e mobilitare forze, potenzialità e risorse. Ciò non significa, tuttavia assumere un orientamento, come invece si è affermato negli ultimi anni, teso ad abdicare la funzione di programmazione dello sviluppo dell'ente pubblico. Né significa che l'ente locale debba rinunciare a svolgere direttamente una funzione positiva sul piano della lotta alla disoccupazione e al superamento di condizioni di lavoro precarie o irregolari. La nostra ottica è di restituire all'ente locale, pur nei limiti delle sue competenze un ruolo incisivo. I terreni privilegiati di tale intervento sono: la promozione diretta di nuove opportunità di lavoro da parte dell'ente locale, la stabilizzazione dei lavoratori che attualmente gravitano su attività promosse dall'ente pubblico, il potenziamento della dotazione infrastrutturale delle città, un'attività di promozione delle attività produttive, specie di quelle minori. Nel concreto, questi orientamenti si sostanziano nei seguenti punti:
La questione del lavoro deve essere affrontata anche attraverso la predisposizione di strumenti per la valorizzazione delle attività produttive locali e l'attivazione di nuove opportunità imprenditoriali. Ciò significa intervenire a più livelli, dalla realizzazione di un'adeguata politica infrastrutturale, a scelte adeguate in tema di pianificazione territoriale, dalla realizzazione di accordi col sistema delle imprese per la messa a valore delle risorse locali, ad un'attività promozionale dell'ente locale in ambiti che non sono di sua diretta competenza. In generale, l'attivazione di una politica di sviluppo locale implica l'assunzione di un modello che valorizzi le sinergie fra risorse produttive, ambientali, culturali presenti in loco, evitando scelte appiattite sulla valorizzazione di alcune attività a prescindere dagli effetti complessivi di tali scelte. In questa logica, lo sviluppo locale non può prescindere da settori che sono essenziali ai fini della salvaguardia dei livelli occupazionali e funzionali ad una "rigenerazione" delle città. Ci si riferisce ad attività (come l'artigianato o la piccola distribuzione) che se non opportunamente valorizzati rischiano di essere emarginate dai nuovi processi di trasformazione degli assetti produttivi. Una politica per lo sviluppo locale può quindi sostanziarsi in una serie di misure.
E' noto che nel corso degli ultimi anni si è avviato un processo di privatizzazione significativo negli enti locali attraverso la trasformazione delle municipalizzate in spa, o addirittura con la messa a gara di servizi pubblici che non di rado sono finiti nelle mani di privati. Gli effetti negativi di tali processi sono noti e hanno riguardato la riduzione dei dipendenti, l'aumento delle tariffe, la riduzione della qualità dei servizi offerti. Nel campo dei servizi a rete (acqua, energia, gas, rifiuti, trasporti, ecc.) a tutt'oggi il panorama è quindi abbastanza vario, giacché si assiste alla compresenza di diverse modalità di gestione (dalle municipalizzate, alle SPA partecipate dal pubblico e dal privato, alle società interamente private). Questa pluralità di gestioni riflette le diverse scelte operate dai singoli enti locali. Nell'ultima fase il governo ha tentato di approvare un provvedimento legislativo che rendeva obbligatorio il superamento delle municipalizzate con la loro trasformazione in una prima fase in SPA e successivamente con la messa a gara dei servizi. Tale provvedimento, che avrebbe costituito uno stimolo formidabile alla privatizzazione dei servizi locali è stato alla fine ritirato anche se è probabile la sua ripresenta nella prossima legislatura. A fronte di tale situazione, è pertanto necessaria una strategia articolata, ispirata dall'esigenza di contrastare nel modo più fermo possibile i processi di privatizzazione in corso e limitare i danni per quanto riguarda quelli già attivati. E' sulla base di tali considerazioni che rifondazione comunista, in vista delle prossime elezioni comunali, ribadisce le seguenti necessità:
Sulla questione dei servizi sociali c'è da registrare, come elemento negativo, l'approvazione definitiva da parte del Senato della riforma del Welfare. A parte i dubbi sulla costituzionalità, la legge, crea ulteriori difficoltà per i suoi contenuti e le sue finalità, proiettate sulla assunzione di logiche di mercato e sullo smantellamento del servizio pubblico. Viene, infatti, aggirato l'art 38 della Costituzione che stabilisce e riconosce l'assistenza come diritto, indicando nello Stato il garante di tale diritto.Con questa legge il diritto all'assistenza non è più certo ed esigibile. Le Regioni saranno chiamate a fissare, i criteri, indirizzi e vincoli per l'organizzazione e gestione dei servizi e amministreranno i fondi trasferiti dallo Stato senza l'obbligo di garantire l'assistenza a chi ne ha bisogno. La spinta a collocare i servizi nell'arena del mercato è forte e il percorso è tracciato.
Questo è il punto da cui dobbiamo ripartire per un serio confronto sul Welfare. L'azione del governo e della sua maggioranza su questo problema si è concretizzata non più e soltanto nel contenimento della spesa, ma sia una politica tesa ad una profonda ristrutturazione del ruolo e delle funzioni dello Stato, che vede nella sussidiarietà orizzontale il suo punto di forza, giustificando l'intervento del pubblico solo quando il privato non è in grado di garantire e soddisfare il bisogno sociale. Di fronte a questi nuovi indirizzi è necessario contrapporre una proposta che a partire dalle possibilità presenti nelle maglie della legge, recuperino la funzione del pubblico. Sul ruolo che in questo contesto viene a svolgere il Terzo Settore, è evidente che l'ipotesi di una progressiva sostituzione delle funzioni pubbliche da parte dei soggetti che fanno capo a tale ambito per ciò che riguarda la gestione dei servizi sociali è inaccettabile. L'unica funzione possibile è quella integrativa, a condizione ovviamente che siano rispettate regole essenziali in termini di qualità e modalità di gestione dei servizi e di condizioni di lavoro del personale impiegato. In particolare, si avanzano le seguenti proposte.
In un progetto di rigenerazione della città la questione del territorio e dell'ambiente assumono una valenza particolare. Non si tratta solo della necessità di rispondere a una sensibilità diffusa che è venuta crescendo in questi anni fra i cittadini; sono le stesse trasformazioni economico-sociali che hanno investito le città a imporre questi temi. In particolare, i processi di dismissione di attività produttive nelle aree centrali hanno lasciato liberi spazi riutilizzabili, la contrazione degli investimenti pubblici ha determinato l'abbandono delle aree periferiche e delle zone degradate, nelle aree centrali l'esaltazione della rendita ha comportato un'ulteriore selezione sociale dei residenti, mentre laddove non si sono mobilitati capitali privati si sono prodotti fenomeni di degrado. Nel complesso, il sommarsi di questi processi ha determinato l'estendersi di fenomeni di segregazione spaziale, con l'articolarsi nello spazio di luoghi di pregio destinati a fasce sociali privilegiate e luoghi di degrado destinati a fasce marginali. La città inclusiva, luogo di incontro e di relazione, ambito di emancipazione sociale è venuta perdendo la sua funzione progressiva. Nel contempo, le modificazioni strutturali delle città in connessione con l'emergere di nuove problematiche legate all'inquinamento hanno ulteriormente compromesso la qualità della vita urbana. L'allargamento delle aree di gravitazione urbana hanno accentuato i problemi connessi alla mobilità, l'assenza di una politica efficace ha fatto esplodere, specie in alcune aree del paese, la questione dei rifiuti, mentre l'evoluzione tecnologica e dei modelli di consumo hanno alimentato nuove forme di inquinamento (si pensi all'elettrosmog). Le città, quindi, non sono solo più sperequate territorialmente, ma sono anche meno vivibili nel loro complesso, ponendo quindi il problema di un recupero complessivo della vivibilità urbana. Di qui traggono spunto le nostre proposte, che si possono così riassumersi:
Lo sviluppo convulso delle medie e grandi città ripropone il loro modo di essere, la loro identità e la loro condizione sociale. Le profonde contraddizioni che caratterizzano la condizione di vita contemporanea evidenziano fasce sempre più ampie di povertà e di emarginazione, precarizzazione del lavoro e del disagio sociale, soprattutto giovanile e microcriminalità, marcando l'esigenza di garantire sicurezza e vivibilità. Gli impetuosi processi di trasformazione sociali ed economici caratterizzati dalle spinte speculative, dall'esasperato obiettivo del profitto, dalla rottura dei rapporti sociali e solidali, dai processi di deindustrializzazione, dall'invecchiamento della popolazione e alle volte dalle cattive amministrazioni di molte città le cui azioni di governo da una parte è rimasta insensibile alla profonda domanda sociale dei quartieri e delle periferie e dall'altra, ha alimentato o tollerato traffici e privilegi con il mondo delle imprese e della speculazione, hanno determinato un allentamento del rapporto cittadino-istituzione. La riprova è l'alta percentuale di disaffezione e astensione dal voto.Le fasce di cittadini che rivendicano diritti e cittadinanza si allargano sempre più. Ai disoccupati espulsi dalla grande industria e abbandonati dal sindacato, quelli della piccola e microimpresa, delle aziende pubbliche, i lavoratori atipici e precari, si aggiungono gli immigrati, i senza fissa dimora che rappresentano le nuove soggettività emergenti dalle periferie urbane, i protagonisti di una sofferenza individuale e collettiva diffusa che evidenziano l'esistenza di una "questione sociale" tuttora aperta e complessivamente da risolvere.La povertà urbana, ormai si evidenzia in tutte le aree del Paese, dal nord al sud caratterizzata da: una condizione degradata dei quartieri di edilizia economica popolare; l'imbarbarimento delle forme di convivenza civile che si esprime ai vari livelli della criminalità e con forme di intolleranza violenta e di rigetto; la compressione delle opportunità di socializzazione, soprattutto per i giovani e anziani; l'acutizzarsi dei problemi di marginalizzazione degli anziani soli, dei portatori di handicap, dei tossicodipendenti e degli immigrati; l'allargamento delle fasce di povertà. Per affrontare questi problemi riproponiamo l'esigenza di una lotta alla marginalità urbana e la garanzia di diritti universali. I punti essenziali della nostra proposta si possono così riassumere:
Nel disegno di riforma della 142/90 si è evidenziata una progressiva tendenza a sostituire il sistema partecipativo delle autonomie locali con un nuovo ceto tecnocratico che tende a farsi ceto politico. Questa situazione trova una classe politica spesso culturalmente impreparata a misurarsi con un sistema economico-sociale che tende sempre di più a valutare la riuscita delle scelte politiche in termini di costi-benefici e rapidità delle decisioni.La nostra azione spesso è stata di tenace opposizione ai processi di privatizzazione selvaggia e di destrutturazione dei progetti partecipativi delle comunità locali, ma non è stata finora in grado di tracciare un nuovo assetto dei Servizi pubblici locali in grado di essere riconosciuto e vissuto dalle decine di migliaia di cittadini e lavoratori che guardano al nostro partito con speranza ed interesse. Oggi ci troviamo nella necessità di definire alcuni assi con cui confrontarci per ipotizzare una riorganizzazione e riqualificazione delle strutture degli Enti Locali. È necessario innanzitutto contrastare la tendenza alla riduzione quantitativa e qualitativa del personale comunale (esplicitata persino nell'art. 91 del recente testo unico degli enti locali!) e alla sua marginalizzazione, lavorando nel contempo per un'effettiva autonomia gestionale dell'Ente da parte delle strutture, sulla base ovviamente, degli indirizzi programmatici degli organi politici. Senza tale autonomia è impossibile far crescere tali strutture e responsabilizzarle pienamente sugli obiettivi da raggiungere e sui risultati da ottenere nell'interesse dei cittadini e degli utenti dei servizi. Costituisce, infatti, per noi un'effettiva priorità, la costruzione di un'organizzazione delle strutture dei servizi comunali in nome dell'efficienza, dell'effettiva ricomposizione dei processi nel governo dell'erogazione dei servizi e nel controllo dei processi, assumendo il valore della partecipazione nell'avvicinamento del Comune alla vita dei cittadini, del decentramento della macchina comunale e anche delle decisioni della loro trasparenza. L'opportunità l'offre la L.127/97 per l'approvazione delle dotazioni organiche e la legge 265/99 che modifica alcuni aspetti dell'ordinamento delle Autonomie locali affrontando prevalentemente la nuova disciplina della potestà statutaria e regolamentare, le funzioni dei comuni minori, le unioni dei comuni, il decentramento, le funzioni della provincia, i servizi pubblici locali nonché le competenze e il finanziamento dei Consigli e delle Giunte.
In quest'ottica si rende necessario:
Esiste un nesso diretto fra l'affermazione di politiche liberiste nei comuni e riduzione degli spazi democratici. La centralizzazione delle decisioni in capo alle giunte e l'attribuzione al sindaco di un'investitura plebiscitaria, attraverso le norme introdotte con la legge 81/93, hanno dato l'avvio ad un processo di svuotamento del ruolo dei consigli. In nome di una maggiore efficienza degli organi consiliari e di una scelta consapevole dei governi locali gli esecutivi consentendo loro di operare con ampia discrezionalità, di condurre speditamente si sono via via autonomizzati, avviando operazioni di privatizzazione, costruendo interlocuzioni dirette con i soggetti economici, introducendo criteri di gestione sempre più ispirati a logiche aziendalistiche. Nel contempo, il rafforzamento del ruolo dei sindaci ha creato le premesse per il consolidamento di alcuni notabili locali divenuti inamovibili. In realtà a questa centralizzazione determinatasi a livello di istituzioni locali non ha corrisposto un rafforzamento delle funzioni pubbliche in termini di reale potere di intervento, ma soltanto il consolidamento di poteri personali. Le istituzioni locali, infatti, hanno visto progressivamente ridursi le loro capacità di intervento limitate dall'esiguità delle risorse disponibili e dalla sistematica cessione di funzioni pubbliche ai privati. Per molti versi, anzi si può sostenere che i nuovi podestà abbiano spesso agito in veste di liquidatori delle risorse pubbliche. In questo contesto non ci si può meravigliare che la partecipazione si sia affievolita, che si sia rafforzato il meccanismo della delega, che alla dialettica di posizioni politiche si sia sostituita spesso una propensione localistica. Le risposte che si possono dare vanno quindi in una duplice direzione: da un lato ripristinare un effettivo pluralismo politico riassegnando ai consigli un ruolo centrale e limitando i processi di centralizzazione decisionale e, dall'altro, nell'esaltare tutte le forme possibili di partecipazione e di controllo popolare. In questo senso la definizione degli statuti comunali rappresenta un'occasione per introdurre alcuni principi, ma anche a prescindere da questi è possibile già oggi operare per un allargamento degli spazi democratici, assumendo alcuni orientamenti che proponiamo.