Innanzitutto una considerazione di fondo sulle linee di tendenza si puo'
dedurre dalla partecipazione al voto.
I primi dati parevano indicare un'affluenza maggiore delle precedenti analoghe
elezioni.
All'annuncio di un aumento di partecipazione corrispondeva, a dimostrazione
della crisi di legittimita' in cui versa la democrazia anche in Italia, un
numero imprecisato di commenti tesi a sottolineare l'accresciuta attenzione
per i temi di questa campagna elettorale (come se ce ne fossero stati di
importanti).
Questa operazione ideologica, che voleva convincerci di un presunto ritorno
alla politica e alla partecipazione doveva cedere il passo ad un approccio ben
piu' realistico dopo aver appreso il dato definitivo dei votanti: meno due per
cento rispetto alle precedenti politiche.
Nonostante un recupero nei confronti delle elezioni europee e regionali (per altro congenito data la differente valenza politica) viene confermata la tendenza ad un aumento della non partecipazione, a cui va aggiunto il numero degli astenuti recatisi alle urne, (grosso modo analogo al 1996) pari a circa 2.700.000, oltre il sette per cento dei votanti. Un dato questo sistematicamente omesso dalle riflessioni sulla sfasatura tra politica e cittadini.
Inoltre, tra chi indica una preferenza, sono oltre quattro milioni coloro
che esprimono un voto fuori dai due poli.
Complessivamente considerando il numero dei non votanti, degli astenuti e di
coloro il cui voto non ha prodotto nessun eletto, si ottiene che per il
proporzionale alla Camera alla distribuzione dei seggi ha concorso il 58%
degli aventi diritto (28.700.000 elettori su 48.900.000).
Meno male che la quota proporzionale dovrebbe mitigare il sistema
maggioritario! Infine ragionando all'ingrosso si potrebbe dire che a Di Pietro
un senatore costa quasi 1.200.000 voti, al PRC circa 400.000, a Berlusconi e i
suoi si' e no 80.000, e poco di piu' all'Ulivo che, per eleggerne uno, deve
appena superare i 100.000 elettori.
Rifondazione Comunista appare, nonostante tutte le difficolta', un
voto davvero utile per quasi due milioni di elettori alle politiche, ma e'
necessario indagare le ragioni di questa preferenza, tentando di comprendere
la molteplicita' di vettori con cui si e' determinata questa risultante.
E' indubbio che, benche' si sia modificata e per certi versi assottigliata,
esiste una piccola quota che ancora per ragioni del tutto ideali (o
ideologiche nel peggiore dei casi) resta legata alla "bandiera
rossa", ma e' altrettanto certo che settori significativi nelle dinamiche
della lotta di classe abbiano optato per Rifondazione come scelta
antagonistica all' esistente, per continuare a mantenere aperta una
prospettiva anche in questa stretta bipolare.
In questi casi si rovescia la logica del "voto utile" del
Centro-sinistra ed emerge un mondo complesso e variegato che nuovamente
esprime livelli di conflittualita' e che va da settori operai tradizionali a
quelli della new economy e contro la flessibilita', dall'ambientalismo alle
piu' generali battaglie contro la globalizzazione di questi ultimi anni.
Tali soggetti non fanno tutti parte di una tradizione riconducibile
meccanicamente alla sinistra storica, ma iniziano a essere anche l'
espressione autentica delle contraddizioni contemporanee del capitalismo,
andando persino a scombinare i blocchi sociali sedimentatisi a partire dagli
anni Sessanta e facendo cosi' intravedere una possibile alternativa.
Tale elettorato ha effettivamente una certa "assonanza" con il
nostro partito, ma come ammette lo stesso Bertinotti Rifondazione non e'
"l'espressione compiuta di questi segnali".
I flussi di elettori che danno la preferenza al Senato, ma non alla Camera
oppure il contrario e il sostegno piu' modesto ricevuto alle amministrative
stanno li' a dimostrarlo.
Non c'e' dubbio che questo tipo di elettorato, benche' non vada enfatizzato,
sia un punto di partenza significativo, in quanto espressione del moderno
conflitto poliedrico in grado di aprire nuove prospettive di recupero di
identita' e di ricomposizione di un blocco sociale a partire dal conflitto e
da un nuovo protagonismo di settori di classe importanti.
Questo e' il dato che potenzialmente ci proietta nel futuro, se sapremo
coglierlo, sganciando Rifondazione Comunista dalle inerzie residuali e
ideologiche.
Partiamo allora da un dato largamente condiviso nel partito: la crisi
politica del Centro-sinistra.
E'evidente che da qui si dovra' ripartire con una capacita' di incidere e di
interloquire con quei settori legati alla sinistra moderata e insoddisfatti
delle scelte fino ad ora adottate. Rifondazione Comunista dovra' saper
avanzare proposte concrete di lavoro e di prospettiva per uscire "a
sinistra" dalla crisi dello schieramento ulivista, mettendo al centro il
confronto programmatico.
Nessuna altra scorciatoia politicista o organizzativista potra' eludere il
problema degli indirizzi politici.
La prima, moderata al punto da rimettere in discussione il percorso fin'ora
svolto, dalla rottura con il governo Prodi alla scissione fino alla
presentazione autonoma a queste elezioni politiche, essa potrebbe prevedere
una politica che non intende affrancarsi definitivamente da un rapporto
preferenziale con il Centro-sinistra, facendo affidamento per il prossimo
periodo di opposizione anche adagiandosi e confidando sulle risorse degli
apparati e delle strutture della sinistra moderata con l'obiettivo di
perseguire un'alleanza di basso profilo programmatico tutta tesa a uscire
dall'isolamento politico di cui il PRC e' vittima.
La proposta secondo la quale si vorrebbe uscire dalla strettoia cui ci
costringe il sistema elettorale invitando il partito a un maggiore "internismo"
al Centro-sinistra, da una parte metterebbe senz'altro al riparo un ceto
politico, dall'altra sconnetterebbe le ragioni di un partito, salverebbe il
corpo abbandonando l'anima. Sarebbe, in altre parole, un'operazione di
eutanasia: ammazziamoci cosi' smettiamo di soffrire!
Quest'opzione non sembra essere in grado di risolvere le aporie della fase, ma
apparirebbe del tutto legittima se fosse espressa con chiarezza nel nostro
dibattito interno.
La seconda strada appare senz'altro tortuosa e complessa, ma potrebbe
risultare l'unica perseguibile per tentare di coniugare autonomia e
antagonismo, mantenendo una presenza efficace in un quadro politico e
istituzionale sfavorevole.
La battaglia per la sopravvivenza di Rifondazione Comunista, dunque, se non
vuole dipendere direttamente dalle scelte e dalla natura del Centro-sinistra
dovrebbe poggiare sui soggetti sociali di riferimento. Il baricentro politico
e d'iniziativa dovrebbe allora spostarsi ulteriormente verso la mobilitazione
tra le classi subalterne e la stessa presenza istituzionale dovrebbe essere
spesa per l'irrobustimento dei movimenti sociali e del partito quale
organizzazione che si costruisce tra essi.
Questa appare l'unica variante per poter resistere al bipolarismo, costruendo
alleanze sociali che riconoscano nel PRC il soggetto politico di
rappresentanza e contestualmente per creare conflitti e mobilitazioni in grado
di modificare i rapporti di forza nella societa'.
Appare ovvio, a scanso di equivoci, ribadire che anche per questa seconda
opzione, non si possa essere indifferenti alla crisi della sinistra moderata e
ai suoi sbocchi, ma che tale crisi debba essere affrontata e incalzata da un
partito che individua come prioritario il rafforzamento del proprio
insediamento sociale e le mobilitazioni di massa come strumenti di autonomia
politica e organizzativa e quindi anche in campo elettorale, qualora le
condizioni, come probabile, lo richiedano.