Elezioni europee, 12 - 13 Giugno 2004

LA SINISTRA, L'ALTRA EUROPA

PROGRAMMA DEL PARTITO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA - SINISTRA EUROPEA ELEZIONI EUROPEE 2004

INDICE

PARTE PRIMA. UN'ALTRA EUROPA E' NECESSARIA E POSSIBILE
PARTE SECONDA. L'ALTERNATIVA AL NEOLIBERISMO
PARTE TERZA. CONTRO LA DEVASTAZIONE DELLA NATURA E DELL'AMBIENTE
PARTE QUARTA. IN DIFESA DELLO STATO SOCIALE
PARTE QUINTA. PER LA LIBERA CIRCOLAZIONE E PER I DIRITTI DI TUTTE E DI TUTTI
PARTE SESTA. PER UNA COSTITUZIONE DEMOCRATICA DELL'EUROPA
PARTE SETTIMA. LA DIFESA DELL'EUROPA E IL SUO RUOLO INTERNAZIONALE
PARTE OTTAVA. L'IDENTITA' DELL'EUROPA E LA NUOVA IDEA DI CITTADINANZA

La stesura del programma è stata curata da un gruppo di lavoro coordinato da Alfonso Gianni, di cui hanno fatto parte Sergio Bellucci, Emiliano Brancaccio, Alberto Burgio, Carlo Cartocci, Erminia Emprin, Vito Meloni, Gennaro Migliore, Roberto Musacchio, Felice Roberto Pizzuti, Riccardo Realfonzo, Andrea Ricci, Franco Russo, Gian Luca Schiavon, Luigi Vinci.

Hanno inoltre fornito un contributo al presente lavoro Marco Consolo, Elettra Deiana, Anna Maria Rivera, Giovanni Russo Spena.

La redazione finale del testo ha tenuto conto degli esiti del dibattito pubblico organizzato a Genova il 17 aprile, che ha visto la presenza di numerosi rappresentati di organizzazioni sociali, sindacali, di movimento e dell'associazionismo.

A tutte e a tutti va il nostro più sentito ringraziamento.

PARTE PRIMA. UN'ALTRA EUROPA E' NECESSARIA E POSSIBILE

1.1 Lo scontro tra civiltà e barbarievai a indice

Le prossime elezioni europee si svolgono in un clima pesantemente segnato dall'avvitarsi della spirale tra guerra e terrorismo.

Dopo il terrificante attentato di Madrid l'Europa è stretta in una morsa.

Da un lato nei Balcani si riprende a sparare e ricomincia la tragedia degli scontri etnici; nel contempo diversi paesi europei, tra cui il nostro, mantengono la loro presenza militare in Iraq al servizio dell'occupazione militare statunitense ed in una situazione nella quale una guerra mai conclusa prosegue con rinnovata e maggiorata intensità. Le forze armate dei paesi europei sono ormai impiegate in azioni di sanguinose repressione delle crescenti proteste popolari. Dall'altro lato l'Europa è presa direttamente di mira dal terrorismo.

Il massacro di Madrid costituisce per l'Europa ciò che l'abbattimento e la strage della Twin Towers ha rappresentato per l'America. Se il numero di morti è stato inferiore, ancora più terribile è stato il messaggio. In questo caso non è stato colpito un simbolo dell'opulenza e dell'oppressione capitalista nel mondo, ma treni di lavoratori pendolari. L'obiettivo non era quello di colpire il potere politico ed economico, ma di disarticolare la società civile, di spargere un terrore indifferenziato rispetto ai luoghi e ai destinatari.

La guerra preventiva, infinita e indefinita teorizzata e praticata dall'amministrazione Bush da un lato, un terrorismo nichilista che moltiplica e intensifica i suoi atti dall'altro hanno gettato il mondo nel caos e nell'odio. E' in discussione la civiltà umana, quale insieme di acquisizioni sociali, materiali e culturali costruite nei secoli attraverso lo sviluppo del confronto e della lotta delle idee e delle classi Contrariamente a quanto sostengono storici e analisti statunitensi, ma non solo, non siamo di fronte a uno scontro tra diverse civiltà, quella dell'Occidente di cui sarebbero portavoce, alfieri e difensori gli USA contrapposta a quella rappresentata o egemonizzata dall'Islam.

Siamo di fronte a uno scontro tra civiltà e barbarie. Quest'ultima, di cui abbiamo visto una terribile rappresentazione nelle guerre in corso e nelle stragi terroristiche, si alimenta di due fondamentalismi. Quello del mercato, quello della mercificazione assoluta che non conosce limite neppure di fronte ai beni più comuni che la natura ha finora messo a disposizione di tutti, né di fronte agli organi viventi siano essi animali o umani. Quello che di volta in volta si ammanta di una motivazione religiosa, e/o etnica, e sempre si materializza nella distruzione di tutto ciò che è umano o che dal genere umano è stato prodotto.

Da un lato la guerra, dall'altro il terrorismo. La risposta va dunque fornita su entrambi i fronti e contemporaneamente. Rompere la spirale tra guerra e terrorismo è la grande battaglia di civiltà che abbiamo di fronte. Ora quando più ancora di prima, l'Europa è diventata terreno di questa contesa, affrontarla e risolverla è il primo e prioritario compito che dobbiamo porci.

Tutto questo non può in alcun modo limitarsi ad una ricerca delle forme migliori di difesa dell'Europa da possibili e purtroppo probabili attacchi terroristici. Questo problema non può certamente essere né trascurato, né tanto meno evitato, come vedremo in seguito, ma soprattutto non può essere assolutizzato, né pensato come il principale, per il semplice motivo che così facendo ogni difesa risulterebbe inefficace.

L'Europa è chiamata non tanto e comunque non solo a difendersi ma a giocare sullo scenario mondiale un ruolo attivo di pace.

1.2 Ritirare le truppe dall'Iraqvai a indice

Per queste ragioni il ritiro delle truppe dei paesi europei attualmente presenti in Iraq è decisivo. Questo atto sarebbe il segno inequivocabile delle scelta di chi vuole effettivamente spezzare la spirale guerra - terrorismo, e non certo vilmente sottrarsi. Interromperebbe le catene di complicità che legano importanti paesi europei alla teoria e alle politiche della guerra preventiva avanzate dall'Amministrazione Bush. Costituirebbe una risposta forte e chiara al tentativo purtroppo in atto di fare dell'Europa il nuovo teatro delle stragi terroristiche. Permetterebbe all'Europa, come è indispensabile che anche ogni singolo paese da subito faccia, come abbiamo recentemente chiesto sia nel Parlamento europeo che in quello italiano, di adoperarsi nel contesto e nelle sedi internazionali all'avvio, sotto l'egida delle Nazioni Unite e dei paesi arabi, di un processo costituente democratico in Iraq in grado di restituire la completa sovranità a quel popolo, destinando opportuni fondi, sottraendoli alle spese militari, per effettivi programmi e aiuti umanitari per la ricostruzione. Darebbe all'Europa quella spinta e quella credibilità che finora non ha mai avuto per porsi come interlocutore di pace nel drammatico conflitto israelopalestinese, reso ancora più terribile dopo la decisione dell'Amministrazione Sharon di procedere nella costruzione del muro, di uccidere lo sceicco Yassin capo di Hamas, di minacciare ripetutamente e insistentemente la stessa vita del Presidente Yasser Arafat.

1.3 La crescita del movimento contro la guerra e il neoliberismovai a indice

Le manifestazioni mondiali del 20 marzo, che hanno visto a Roma un punto di eccellenza per qualità e quantità di partecipazioni, hanno trasmesso un messaggio inequivocabile. Nel primo anniversario dell'inizio della guerra in Iraq “la seconda superpotenza mondiale” - secondo la splendida ed efficace definizione data nei giorni successivi al 15 febbraio dello scorso anno dal New York Times - è scesa in campo ancora più forte e più diffusa di prima.

Non era affatto scontato che così dovesse avvenire. Vi era infatti chi pensava che l'avvento della guerra, malgrado che più di cento milioni di persone fossero scese in piazza in tutto il mondo per cercare di impedirla, avrebbe provocato una demoralizzazione e quindi una sconfitta del movimento per la pace.

Così non è stato. Così non è stato neppure di fronte alla strage di Madrid. Il Movimento contro la guerra e contro il liberismo ha dimostrato la sua continuità, ma ha anche sottolineato il suo radicamento nel contesto europeo.

Le prossime elezioni europee non si svolgono quindi solamente nel quadro dominato dalla spirale guerra-terrorismo, ma anche e speriamo soprattutto in quello contrassegnato da un avanzamento formidabile del movimento europeo contro la guerra e il neoliberismo, quale parte del movimento mondiale “altromondista”.

Con questo neologismo, vogliamo indicare precisamente il salto di qualità del movimento da una posizione, peraltro indispensabile, di radicale opposizione ai processi di globalizzazione, ad una che si muove nella ricerca della proposta di costruzione di una società alternativa. A questa nuova fase di maggiore maturità del movimento hanno contribuito i due Forum sociali europei, quello di Firenze del 2002 e quello di Parigi del 2003, nonché il terzo forum mondiale di Mumbay del 2004.

In questi incontri internazionali è cresciuto e si è diffuso un pensiero alternativo. Non solo, dunque, il “pensiero unico” della globalizzazione, che ha lungamente dominato la scena nell'ultimo decennio del secolo scorso, è definitivamente spezzato, ma cominciano a prendere forma un pensiero e un progetto alternativi. Naturalmente si tratta ancora di un processo, tutt'altro che compiuto e definitivo, ma nessuno può trascurare che è in corso un gigantesco processo collettivo di costruzione di una nuova visione del mondo, appunto di un nuovo mondo possibile, che si sviluppa a livello mondiale e a livello europeo.

E' un passaggio che avviene con modalità e protagonisti ben diversi che nel passato. L'apporto di singole intellettualità è indubbiamente rilevante, come pure quello di quegli intellettuali collettivi - per continuare a usare la geniale formula gramsciana - che ancora possono essere identificati in forme associative tradizionali, come i partiti o i centri di analisi e ricerca.

Ma vi è una novità essenziale che bisogna cogliere e che avrà enorme incidenza nella vita politica delle formazioni europee, e non solo, nei prossimi anni. Questa è costituita, appunto, nell'ingresso sulla scena del pensiero politico del movimento, nelle sue molteplici e articolate espressioni. Per movimento intendiamo un insieme ricco e composito, di cui fanno parte anche forme partitiche che hanno deciso di agire al suo interno in modo innovativo e senza pregiudiziali pretese egemoniche, ma che è contrassegnato in modo originale dalla presenza di forze sociali, associative, dei movimenti particolari e più generali, da forze intellettuali che tutte, allo stesso titolo, partecipano ad una creazione collettiva di pensiero e di azione.

Questa è la fondamentale barriera contro la barbarie. Qui noi, come parte della sinistra alternativa europea, ancoriamo le nostre basi. Alla crescita di questo movimento affidiamo la speranza della possibilità di vincere le lotte per la pace, di sconfiggere sia la guerra che il terrorismo, di porre le fondamentali e imprescindibili condizioni per battere il neoliberismo, per fondare una società alternativa.

Solo qualche anno fa, ad esempio agli inizi della legislatura europea che oggi si conclude, tutto questo appariva iscritto nel campo dei desideri, delle volontà, delle speranze, oggi risiede in quello delle possibilità.

In questi cinque anni la talpa dei movimenti contro la guerra e il liberismo, dei movimenti politici, intellettuali e sociali ha scavato a fondo. Ha permesso la nascita di nuove soggettività, sia sul terreno sociale che, seppure in modo più limitato, sul terreno politico.

Chiedersi come mai tutto ciò sia potuto avvenire non è quindi un esercizio ozioso. Anzi è un aspetto fondamentale dell'analisi che dobbiamo compiere per decidere cosa fare.

1.4 La crisi della globalizzazione capitalistavai a indice

La crescita di un tale movimento mondiale contro la guerra e il liberismo non sarebbe comprensibile senza considerare le dinamiche della crisi del processo di globalizzazione capitalistica. Nell'ultimo quarto del secolo che abbiamo alle spalle si è prodotto nel mondo uno straordinario processo di ristrutturazione e di globalizzazione capitalistiche. Per la sua portata, l'incidenza, l'intensità e la rapidità di diffusione, questo fenomeno merita la qualifica di una rivoluzione capitalistica restauratrice.

L'ossimoro è presto spiegato. Le modificazioni intervenute, cioè il passaggio da una produzione di massa per un consumo di massa, che hanno caratterizzato il periodo fordista-taylorista, accompagnato dall'esistenza di uno stato sociale, frutto del compromesso via via raggiunto nel corso del conflitto fra lavoro e capitale tra le lotte delle masse popolari e del capitale, ad una produzione su misura per le esigenze del mercato, accompagnato da una crescente finanziarizzazione del capitale su scala mondiale, che ha comportato processi giganteschi di privatizzazione e quindi di distruzione dello stato sociale di ogni spazio pubblico, hanno dimostrato straordinaria capacità di modificazione del sistema capitalista, ma in senso conservativo, nel senso precisamente che al culmine di questo processo, cioè nel tempo attuale, i più ricchi sono sempre più ricchi e i più poveri sono sempre più poveri. Questo avviene sia su scala mondiale, nel drammatico confronto tra paesi ricchi e paesi poveri, che all'interno dei singoli paesi, tra classi e ceti subalterni e classi e ceti dominanti. Questa ultima condizione è molto chiara negli Usa, ma il modello americano cerca di estendersi anche nel contesto europeo.

Non è un processo nuovo. E' intervenuto lungo tutti gli anni '90 del passato secolo. Ha comportato un attacco senza precedenti alle condizioni di vita della classi lavoratrici, sia dal punto di vista della loro condizione salariale che da quella del loro accesso ai servizi sociali fondamentali.

Ovviamente questo attacco ha conosciuto diversi livelli di intensità a seconda delle condizioni nelle quali ogni singolo paese si trovava, a seconda delle rispettive tradizioni del movimento operaio, sindacale, politico, democratico, a seconda del livello delle conquiste sociali già sedimentate realizzate e istituzionalizzate. Ma si è comunque trattato di un fenomeno generale che ha investito l'intera Europa.

Oggi il problema si ripresenta con rinnovate caratteristiche. Queste derivano dalla nuova fase che la globalizzazione capitalistica attraversa proprio nel passaggio di secolo. Questa, che si è sviluppata con la massima intensità dopo il crollo totale della già fragile opposizione opposta dai paesi del cosiddetto socialismo reale, conosce oggi una crisi di grandi dimensioni. Naturalmente crisi non vuole dire crollo, ma indica una fase di profonda difficoltà aperta a diverse soluzioni. Tra queste non è realistica quella di un semplice ritorno al passato, come se si potesse mettere semplicemente tra parentesi la stagione devastante delle guerre e del neoliberismo selvaggio. Come se si potesse cancellare quel processo di sfruttamento intensivo e di distruzione delle risorse del pianeta che, nelle analisi avanzate dal Pentagono americano, motiverebbe addirittura la ragione della guerra preventiva.

La scelta, assai più drammaticamente, sta appunto tra il ritorno alle barbarie e la costruzione di una società alternativa.

1.5 La crisi economica internazionalevai a indice

La crisi di cui parliamo si compone di diversi elementi. Tra questi, due ci paiono essenziali per descrivere le condizioni del mondo attuale.

Il primo riguarda la crisi economica internazionale. Tutti i tentativi di minimizzarla e per darla per superata o immediatamente superabile sono almeno finora falliti. Dall'America, all'Europa, al Giappone, fino alle Tigri Asiatica il mondo economico conosce una stagnazione che per alcuni paesi è vera recessione. Nel caso dell'Italia valenti economisti definiscono il periodo che va dal 2000 al momento presente come il periodo di stagnazione e di recessione più grave e rilevante negli ultimi 50 anni. Non solo le “magnifiche sorti e progressive” della globalizzazione capitalistica sono state vanificate dalla concreta evoluzione storica, ma anche il cosiddetto “periodo d'oro” del capitalismo, ovvero quello rappresentato dal terzo quarto di secolo del novecento, appare appartenere definitivamente ad un passato non proponibile. Questa crisi trascina con sé crolli e crack clamorosi sul piano finanziario, chiusura di aziende, processi di delocalizzazione verso zone del mondo ove il costo del lavoro è ridotto ai minimi termini, provvedimenti di flessibilità selvaggia in sostituzione di ogni norma legislativa faticosamente conquistata a tutela del lavoro, disoccupazione e precarietà, abbassamento dei valori reali dei salari, delle retribuzioni e delle pensioni, allungamento della durata della giornata e della vita lavorativa.

In sintesi siamo di fronte a un gigantesco processo di impoverimento delle masse popolari, il più grave e rilevante dal dopoguerra in poi, che è particolarmente avvertito nel nostro paese, ove la quantità di ricchezza prodotta che va ai redditi da lavoro si aggira ormai attorno a solo il 40% del Pil, più di 10 punti meno degli altri paesi europei più industrialmente sviluppati.

In queste condizioni anche le più ottimistiche previsioni che vengono diffuse in queste ultime settimane, non a caso in contemporanea con la lunga campagna per le elezioni presidenziali americane, su segnali di ripresa dell'economia di quel paese ben difficilmente potranno trasformarsi in un'occasione per una ripresa economica dell'Europa e della maggioranza dei paesi che la compongono.

1.6 La crisi di consensovai a indice

Il secondo elemento, strettamente connesso al primo, riguarda la caduta di quella specie di consenso passivo o di sospensione di giudizio da parte dei popoli e di parti delle classi lavoratrici nei confronti della globalizzazione capitalistica. Tali atteggiamenti erano anche indotti dalla speranza, coltivata dalla sinistra moderata e dai sindacati, di introdurre forme di governo e di governance più democratiche della globalizzazione, senza però intaccarne i processi e le logiche di fondo. Questa, al suo inizio e per un certo periodo veniva vista, oltre che interessatamente propagandata, se non come un'occasione di miglioramento generale delle condizioni di vita per tutti, come ineluttabile Questa illusione è svanita. La percezione generale è quella che siamo di fronte a un impoverimento non solo relativo, ma assoluto di popoli; classi e ceti sociali. Non altrimenti si può spiegare la ribellione mondiale contro i centri di governo della globalizzazione capitalistica. Dopo il fallimento di Seattle, abbiamo avuto quello di Cancun. In sostanza l'Organizzazione Mondiale del Commercio non è più in grado di assumere decisioni che passano sopra le teste dei popoli.

Questi fallimenti sono stati prevalentemente determinati dallo sviluppo del movimento m9ondiale contro la guerra e il neoliberismo. Ma certamente ha pesato anche l'atteggiamento e il comportamento di governi di diversi paesi del Sud del mondo che hanno saputo opporre una qualche resistenza ai centri di potere e di comando della globalizzazione.

Anche questo è un segno importante di cambiamento della situazione e sarebbe inconcepibile senza lo sviluppo del movimento mondiale. La crisi che ha investito da tempo il ruolo degli stati nazionali, quale conseguenza diretta del processo di globalizzazione, non ha certo invertito la sua tendenza, ma gli stati possono ritrovare una capacità di iniziativa e di assunzione di politiche indipendenti dalle forze dominanti nel mondo se riescono a stabilire un efficace livello di connessione con i movimenti e a costruire un quadro di nuove relazioni internazionali. Questa ci sembra la lezione che viene da Cancun, ma questa considerazione non è solo valida per i paesi dell'America Latina ma riguarda anche l'Europa.

1.7 I cambiamenti politici e i processi sociali in Europavai a indice

Le cose quindi possono cambiare. Lo si è visto anche nelle recenti elezioni politiche in Spagna e regionali in Francia, Lì il vento della sinistra è tornato a soffiare, anche se in primo luogo bisogna parlare di una sconfitta del liberismo, dei governi e delle destre. Il dato non deve però indurre a facili ottimismi, ma c'è, e non crediamo possa essere confinato nelle vicende specifiche e accidentali dei singoli paesi. Quindi può essere assunto come una possibile linea di tendenza che sta a noi, in primo luogo nel nostro paese, confermare e rimarcare nella scadenza di giugno. Il governo Berlusconi ha trascinato il paese in una crisi economica, sociale e democratica senza precedenti e si sta impegnando attivamente in guerre e in occupazioni militari al seguito degli Stati Uniti. Vuole trasformare l'Italia in un paese di servizio della globalizzazione, accelerando il declino e la devastazione industriale, lo smantellamento dello stato sociale, la privatizzazione delle strutture economiche e dei servizi, la flessibilità e la precarizzazione del lavoro, l'impoverimento della popolazione, mentre ha favorito solo ristretti ceti sociali e di potere. Sta modificando in senso ademocratico la costituzione materiale e formale del nostro paese. Ma tutti questi processi hanno aperto un processo di scollamento tra questa maggioranza di governo e i suoi referenti sociali, oltre che creare un'opposizione diffusa alle sue politiche antidemocratiche di guerra. Così nel paese l'opposizione a questo governo si è rafforzata, estesa, socialmente qualificata. E' quindi possibile, oltre che giusto e necessario, porsi anche in Italia l'obiettivo della sconfitta del governo e della sua maggioranza, anche ben prima della fine naturale della legislatura.

Ai processi di crisi della globalizzazione corrispondono quindi segnali consistenti di perdita di consenso e di attrattiva delle formazioni politiche e dei governi che più direttamente ne hanno interpretato le aspirazioni e gli interessi. Questo ci dicono le sconfitte delle destre spagnole e francesi in due paesi ove i rispettivi governi hanno avuto atteggiamenti e comportamenti assai diversi in politica internazionale e segnatamente sulla questione della guerra. Nella scelta degli elettori hanno dunque pesato anche altre questioni, oltre a quelle delle bugie dei governi sul terrorismo e sulla guerra. Ha pesato la questione sociale, i guasti della crisi economica, l'incertezza del futuro delle popolazioni rispetto al loro lavoro e a una pensione dignitosa. La lotta contro il neoliberismo, insieme a quella per la pace, hanno ben seminato. Nello stesso tempo queste votazioni in Europa hanno dimostrato quanto acuta e aperta sia la questione democratica.

1.8 La crisi del riformismovai a indice

Contemporaneamente si approfondisce la crisi delle sinistre moderate, delle evanescenti prospettive riformiste, dell'idea stessa di dare vita ad un governo democratico della globalizzazione capitalistica. I progetti di dare vita a formazioni riformiste soprannazionali di ampio respiro si susseguono senza apprezzabili successi, o più semplicemente sprofondano in tattiche elettorali e nominalismi di sigle. Le esperienze di governo che percorrono la strada della decurtazione dello stato sociale, come in Germania, incontrano un'opposizione popolare crescente. E' evidente che siamo di fronte ad una crisi profonda del riformismo, almeno nelle forme storiche fin qui conosciute.

Vi sono ragioni obiettive che possono spiegare questo processo. Da un lato la gravità, la profondità della crisi economica, la competitività esasperata delle imprese e dei sistemi finanziari riducono sensibilmente o addirittura tendono ad eliminare del tutto, all'interno del modello della globalizzazione capitalistica, la possibilità di una ridistribuzione anche solo pallidamente un po' più equa della ricchezza prodotta, che infatti finisce in maniera sempre crescente in direzione dei profitti e delle rendite. Dall'altro lato questo capitalismo, e ancora di più ora che si manifestano quei potenti segnali di crisi che abbiamo fin qui descritto, si mostra sempre più incompatibile con le forme stesse della democrazia, spingendo verso soluzioni istituzionali autoritarie e a-democratiche, impermeabili e insensibili alla volontà popolare e persino alla possibilità di decisione degli stessi governi, vista la loro perdita di peso e ruolo a causa della concentrazione di poteri verso i centri incontrollabili di decisione soprannazionali e le spinte alla frantumazione localista degli stati nazionali.

1.9 La guerra porta ad una drastica limitazione della democraziavai a indice

Alla guerra preventiva, infinita e indefinita corrisponde sul piano interno la logica dello stato d'eccezione che si dilata in quella dell'Europa come “fortezza” e che paradossalmente diventa regola, ove si sviluppano razzismo e xenofobia, politiche antimmigrazione e di sequestro in centri di detenzione dei cittadini extracomunitari, soffocamento e limitazione di tutti gli spazi democratici e delle stesse libertà individuali dei cittadini.

In questo quadro la lotta al terrorismo diventa facilmente pretesto per dare sfogo ad una deriva securitaria, che comporta produzione di leggi speciali, comportamenti gravemente restrittivi delle più elementari libertà personali, criminalizzazione del dissenso e drastiche limitazioni alle iniziative collettive, pressioni sulla magistratura e attacco a tutta la cultura giuridica garantista. Il tema dell'Europa concepita come una fortezza dell'Occidente si coniuga con l'idea della costruzione di un esercito europeo con scopi interventisti e offensivi, che rappresenterebbe un ulteriore grave passo nella direzione bellicista ben oltre il mutamento di ruolo della Nato già avvenuto negli anni antecedenti.

1.10 La nostra critica al progetto di Costituzione europeavai a indice

La duplice crisi, delle destre e della sinistra moderata, si è manifestata in modo evidente nella costruzione del progetto di Costituzione europea e nel fallimento dei suoi primi tentativi di approvazione. Quel progetto, determinato con una metodologia verticistica e tecnicistica, si qualifica per i suoi contenuti come il tentativo di fornire dignità e forma costituzionale al neoliberismo, ad un'Europa dei mercati e dei mercanti.. In quel quadro il cittadino europeo è solo di fronte al mercato e al potere, è considerato come una figura socialmente indeterminata e astratta, un ingranaggio in un sistema globale del quale non può decidere le regole. Non vi è in quel progetto né il ripudio della guerra, né l'affermazione del diritto al lavoro e quindi l'impegno a rimuovere le cause sociali che lo impediscono. Se quel progetto venisse approvato in quei termini ed avesse un carattere rigido, cioè non suscettibile di modifiche successive, rappresenterebbe un pesante passo indietro rispetto alle costituzioni nazionali sorte nel secondo dopoguerra e rispetto alla prospettiva della costruzione di un'Europa sociale e di pace, di un'Europa dei popoli. E ciò ci pare tanto più grave di fronte all'allargamento dell'Unione europea a nuovi paesi.

1.11 Per costruire l'Europa dei popoli ci vuole una svolta radicalevai a indice

Il nostro partito ha sempre condiviso gli obiettivi del consolidamento e dell'allargamento dell'Unione europea all'intera Europa. L'unità di paesi europei, nelle diverse forme, ha rappresentato per cinquant'anni un fattore di pace in un continente che è stato lacerato per secoli da lotte fratricide. In questo contesto lo sviluppo della lotta di classe e l'iniziativa del movimento operaio hanno favorito la crescita democratica e quella delle condizioni di vita delle popolazioni dei paesi membri. Ma il ristabilimento del primato del mercato e le politiche neoliberiste hanno rovesciato la tendenza. Oggi l'Europa è solo integrazione economica e monetaria, senza alcun ruolo nella politica internazionale e senza un'idea di modello sociale proprio. C'è bisogno di una svolta radicale. Il mondo, stretto nella morsa tra la barbarie della politica di guerra promossa dagli Stati Uniti e la barbarie del terrorismo, ha bisogno di tornare ad una costellazione di realtà politiche importanti e di dare nuovo ruolo e nuovo vigore alle Nazioni unite, e per ottenere questo c'è bisogno di una solida Europa.

Ma questo non comporta affatto la condivisione dell'idea che è di gran parte delle forze politiche nel nostro paese secondo cui per consolidare politicamente l'Unione europea bisognerebbe proseguire sulla strada seguita in questi ultimi quindici anni, in sostanza dal Trattato di Maastricht in poi. Ne' appaiono convincenti i vari e confusi progetti di avviare progetti d'Europa a diverse velocità. Rispetto al passato si sta d'altro canto diffondendo la consapevolezza di una crisi ampia e del rischio di un collasso dell'Unione europea proprio dovuti alle politiche perseguite in questi quindici anni. Occorre perciò cambiare strada.

L'elencazione dei punti significativi di crisi in sede di tenuta o di costruzione dell'Unione europea è davvero impressionante. Parimenti lo è il fatto che i vari punti e momenti di crisi si siano venuti configurando e ammassando in un periodo abbastanza breve.

Dinnanzi alla guerra degli Stati uniti all'Iraq, l'Unione europea si è lacerata tra governi che a questa guerra si sono uniti, in un modo o nell'altro, e governi che invece l'hanno criticata e non vi hanno partecipato. A questa lacerazione possiamo aggiungere, in quanto anch'essa indicativa di una subalternità di molti governi agli Stati uniti, l'incapacità dell'Unione europea di opporsi al tentativo del governo di destra di Israele di impadronirsi di nuovi territori palestinesi e di chiudere in ghetti la relativa popolazione.

Il tentativo di dare all'Unione europea entro la fine del 2003 una Costituzione è fallito apparentemente a causa delle posizioni incompatibili dei vari governi in merito agli assetti istituzionali, cioè di ripartizione dei poteri tra Consiglio europeo, Commissione e Parlamento; così come in merito alle materie che potevano essere oggetto di voto a maggioranza invece che all'unanimità e alle modalità di calcolo del voto a maggioranza in seno al Consiglio. In realtà le cause del fallimento sono più profonde e risiedono nel fatto che quel progetto non ha saputo proporre un modello sociale originale e una risposta alla crisi della democrazia.

D'altro canto l'unico attore che avrebbe potuto imporre ai governi comportamenti più coerenti, e cioè le popolazioni europee, è stato accuratamente tenuto fuori dalla partita dai governi e dalle forze politiche che li appoggiano, sia che si tratti di destre che di sinistre moderate. Così la discussione sui contenuti della Costituzione è avvenuta tra addetti ai lavori e questo è accaduto non a caso poiché i contenuti sociali della Costituzione altro non sono che la continuazione delle politiche di taglio della spesa sociale e di precarizzazione delle condizioni di lavoro imposte dai Trattati di Maastricht e di Amsterdam, dei quali i governi delle destre e delle sinistre moderate furono autori. Quindi i gravi guasti sociali determinati dalla strada fin qui percorsa dall'Unione europea in questi quindici anni sono diventati un freno alla sua costruzione politica.

1.12 Superare il Patto di stabilitàvai a indice

Il principale strumento delle politiche antisociali di questi quindici anni, il cosiddetto Patto di stabilità, cioè una politica dei bilanci pubblici orientata al pareggio, che quindi taglia le possibilità di spesa sociale e per investimenti pubblici o per la ricerca dei paesi membri, è stato recentemente contestato e in pratica messo da canto da parte di Germania e Francia, e vivacemente contraddetto anche dall'Italia, per la sua particolare insostenibilità nelle attuali condizioni di stagnazione e recessione economica.. Tuttavia anziché proporre criteri di governo economico più efficaci la Commissione europea ha denunciato questi paesi per violazione dei Trattati dinanzi alla Corte europea di Lussemburgo, aprendo così un conflitto che può solo allargare la crisi politica dell'Ue. Al tempo stesso, e in modo incoerente, la Commissione europea sta chiedendo ai governi dei paesi membri più risorse da spendere per la ricerca, la formazione, le infrastrutture, quindi sta chiedendo di allargare i deficit di bilancio.

Ovviamente la risposta dei governi, e, per essi, del Consiglio è stata negativa.

La politica monetaria dell'Unione europea, affidata alla gestione della Banca centrale europea, ha portato a una rivalutazione tale dell'euro in confronto al dollaro da danneggiare seriamente le esportazioni europee, al punto da frenare o quantomeno ridurre le possibilità di una ripresa dell'economia dei paesi europei. Questo comporta un'ulteriore diminuzione nella possibilità di spesa sociale e di investimenti a fini produttivi da parte degli stati membri e un incremento della disoccupazione. Inoltre l'inflazione in alcuni paesi europei, in particolare in Italia, ha ripreso a salire con l'introduzione dell'euro.

L'idea che è stata recentemente ripresa da parte di chi governa l'Ue per uscire dalla situazione di pesante stagnazione economica e per prevenire il rischio di un declino generale della costruzione europea, a fronte delle superiori capacità competitive degli Stati uniti da un lato e dei sistemi emergenti asiatici dall'altro, è quella di forti investimenti in infrastrutture.

Il governo Berlusconi è stato tra i propugnatori di questa idea.

Prescindendo per un attimo dal fatto che queste opere infrastrutturali non corrispondono a reali esigenze di sviluppo economico, bensì più propriamente a quelle di comitati di affari; mettendo per un momento tra parentesi che spesso queste provocano immani disastri ambientali e della vivibilità del territorio, vi è da sottolineare che non si capisce dove l'Ue e gli stati membri possano prelevare le risorse di spesa necessarie, a meno di sostituire le regole del Patto di stabilità con una politica di bilancio espansiva, che però dichiarano di non volere fare. Questo spingerà i governi, per disporre di un minimo di capacità di spesa, a tagliare sul versante della spesa sociale e, per tentare un minimo di ripresa economica, a precarizzare ulteriormente le condizioni di lavoro.

Assistiamo inoltre all'attacco alle condizioni di vita delle popolazioni contadine, il che comporta la creazione di nuovi disoccupati. Oltre il 40% della spesa della Ue è riservato all'agricoltura. L'utilizzo di queste risorse sono oggi considerate eccessive dai governi e dalla Commissione europea.

In realtà non sarebbe impossibile né difficile una politica di risparmi che tuteli il reddito contadino, le produzioni locali e la qualità delle stesse, l'agricoltura di montagna, dei vari sud e degli estremi nord, nonché il paesaggio di queste zone. Questa idea è tanto più necessaria quando il legame con il territorio è proprio la condizione per lo sviluppo stesso, come appare chiaro particolarmente nell'Europa del su e mediterranea. Ma proprio qui si vuole tagliare, poiché il grosso della spesa resta a sostegno dell'impresa capitalistica e della grande industria agroalimentare.

In conclusione, crisi sociale, crisi economica, crisi ambientale, crisi democratica, crisi degli assetti istituzionali e assenza di ruolo internazionale sono tutti processi in corso, in uno stadio più o meno avanzato, entro l'Unione europea.

1.13 La costruzione dell'identità europea e di una nuova idea di cittadinanzavai a indice

Questo intreccio di problemi richiama la necessità di riflettere anche sulla necessità di costruzione dell'identità europea. L'identità non può che risultare dall'incontro fecondo tra l'eredità culturale delle nostre società e il progetto per una realtà futura.

Ereditiamo esperienze di dolore, violenze, guerre, oppressione di popoli e di interi continenti, non dimentichiamo infatti che in Europa si è sviluppato il colonialismo ed è nato il nazismo, ma la riconsiderazione critica del nostro passato ci offre anche preziose eredità. In questo continente il cristianesimo gettò i germi della grande utopia dell'eguaglianza di tutti gli esseri umani, salvò dalla dissoluzione le idee classiche dell'umanesimo; poi la riforma protestante inventò l'individualità della persona e ancora le rivoluzioni liberali che seguirono inventerano la nozione della cittadinanza moderna. Il movimento operaio, con le sue lotte e la sua ricerca di riscatto, riscoprì, in una dimensione nuova, comunitarismo, diritti e cittadinanza, praticò, tra terribili contraddizioni, arditi percorsi di liberazione. Gli Stati europei che avevano costruito le nostre identità nazionali si contaminarono con le spinte alla riforma sociale del movimento operaio, sviluppando originali forme di democrazia sociale, ampi campi del diritto e del welfare.

Ereditiamo queste identità molteplici che sfidano il nostro presente, colpito dalla regressione di civiltà provocata dal neoliberismo.

Ma la ricerca di un'identità è gravemente esposta al non riconoscimento delle altre culture se non sa alimentarsi di una dimensione più ampia e cosmopolita. Può riproporsi come nuova nostalgica centralità e rinchiudersi in una nuova storia di fortezza assediata. Invece l'Europa, come continente di pace, mediatrice “evanescente” tra le esperienze umane così differenti nella storia attuale del mondo, potrà essere un asse, tra passato e futuro, per questa prospettiva di cambiamento.

Senza illusioni, riconosciamo che l'occidente non va in questo senso, ma sappiamo, ce lo dice un grande movimento mondiale contro la guerra e il neoliberismo, che una nuova direzione è concretamente possibile.

Ecco perché occorre cambiare strada e in fretta. Da qui sviluppiamo il nostro ragionamento e le nostre proposte.

Esse parlano di un'altra Europa, necessaria e possibile. La crisi economica mondiale propone su scala regionale il tema di uno sviluppo originale e autocentrato, fondato sull'incremento qualitativo e quantitativo della domanda interna, sul miglioramento della qualità della vita, del modello e dell'organizzazione sociali. L'avvitarsi della spirale fra guerra e terrorismo richiede all'Europa di svolgere un forte ruolo di pace, di porsi, anche per vocazione storica e culturale, come un ponte di solidarietà e di cooperazione fra Nord e Sud del mondo. L'incompatibilità sempre più evidente fra le logiche dominanti di questa globalizzazione capitalistica e le regole della democrazia, sollecitano l'Europa, sulla base anche della rilevante esperienza storica del movimento operaio europeo, a proporre e sperimentare un originale sistema di organizzazione democratica fondato sulla massima partecipazione, sulla coniugazione sempre più stretta tra forme di democrazia diretta e delegata.

1.14 La nascita del partito della Sinistra Europeavai a indice

Non siamo soli a farlo. Il Partito della Rifondazione comunista si presenta a queste elezioni europee avendo contribuito alla nascita e alla costruzione del Partito della Sinistra Europea, il cui nome compare anche nel nostro simbolo rinnovato.

Si è infatti verificato un fatto nuovo a sinistra e in Europa. Con la riunione di Berlino e il congresso di Roma è stato sancito un importante processo di unità anche sul terreno delle forze politiche della sinistra d'alternativa, in sintonia con quel grande movimento mondiale che si qualifica sulle discriminanti della lotta alla guerra e al neoliberismo.

E' una scelta che avevamo deciso da tempo, in modo esplicito nei documenti approvati nel nostro ultimo congresso nazionale, ed a cui abbiamo lavorato con tenacia negli ultimi anni. E' la scelta di assumere come propria la dimensione europea dell'agire politico, la sola che può influire su una politica sempre più mondializzata.

Si tratta di un primo passo, dell'inizio di un processo aperto all'adesione di altri partiti, formazioni politiche o di singole persone, ma costituisce già ora un salto in avanti nel rinnovamento della cultura politica della sinistra e delle sue forme organizzative. Insomma un momento importante nel processo della rifondazione comunista.

Come abbiamo detto perseguire una politica di pace comporta atti inequivocabili, come il ritiro immediato delle truppe di occupazione in Iraq, sempre più impegnate in un'azione di repressione sanguinosa delle manifestazioni popolari di protesta, ma nello stesso tempo è necessario operare per costruire un'alternativa alle politiche liberiste. Dopo avere affermato con forza l'assoluta priorità e urgenza del primo tema, cominciamo a sviluppare il nostro ragionamento programmatico per un'Europa sociale e di pace, a partire dalla delineazione di linee guida per una politica economica complessivamente alternativa a quella attualmente praticata che ha trascinato l'Europa in una condizione di recessione, di impoverimento delle popolazioni, di arretramento del suo modello di vita sociale e civile.

PARTE SECONDA. L'ALTERNATIVA AL NEOLIBERISMO

2.1 La crisi sociale ed economica europeavai a indice

L'affermarsi, nel corso dell'ultimo quarto di secolo, del modello neoliberista della globalizzazione capitalistica ha sconvolto l'assetto politico, economico e sociale dell'Europa. Il comando del capitale sul lavoro e sulla società è stato pienamente ripristinato, dopo la grande stagione delle lotte operaie e sociali, attraverso una sistematica opera di innovazione tecnologica, organizzativa, sociale, politica e culturale che ha riconfigurato il capitalismo europeo.

Quei caratteri di civiltà, peculiari delle società europee, fondati su un insieme di diritti e di protezioni sociali universalmente garantiti dal sistema pubblico del Welfare, sono stati progressivamente erosi attraverso le politiche di privatizzazione dei servizi sociali e dei beni comuni.

I livelli di protezione normativa e sindacale dei lavoratori europei hanno subito una drastica riduzione, tanto che oggi la precarietà e l'insicurezza sono comuni a tutto il mondo del lavoro subordinato. Una poderosa redistribuzione del reddito a favore del capitale ha portato la quota dei profitti e delle rendite sul prodotto totale dell'Unione Europea dal 30% ad oltre il 40%, a scapito dei salari. Particolarmente colpiti sono stati i giovani e le donne, a conferma dell'esistenza di uno stretto legame tra il peggioramento delle condizioni materiali e l'arretramento civile e culturale in atto sul terreno dei diritti e delle pari opportunità.

Accanto alla crescita delle disuguaglianze sociali, si è anche verificato un progressivo allargamento della forbice tra i redditi pro capite delle regioni più ricche e quelli delle regioni più povere dell'Unione, nonostante una forte (e per certi versi drammatica) ripresa dei fenomeni migratori. Questo fenomeno scaturisce da una carenza ormai endemica di infrastrutture e beni pubblici nelle regioni più arretrate del continente, dall'abbandono delle politiche pubbliche di localizzazione industriale nelle aree a maggiore presenza di disoccupazione e dalla tendenza delle imprese a prediligere l'investimento nei paesi terzi, spesso caratterizzati dall'assenza totale di vincoli normativi e sindacali allo sfruttamento del lavoro e dell'ambiente e da salari che non raggiungono il 30% di quelli prevalenti nelle regioni meno sviluppate d'Europa.

Le politiche economiche perseguite nei singoli Stati dell'Unione, anziché contrastare queste tendenze, le hanno al contrario favorite e rafforzate.

Infatti, se si osservano i dati sui bilanci pubblici, si nota come la gran parte dei paesi europei tende da molti anni ad accumulare avanzi primari, cioè a prelevare dai contribuenti più denaro di quanto viene speso in previdenza, sanità, istruzione, servizi e infrastrutture. L'eccesso di entrate fiscali sulle spese è destinato al pagamento degli oneri sul debito pubblico accumulato in passato. Inoltre, nell'ultimo ventennio nella UE si è verificato uno spostamento medio dei carichi fiscali dai redditi da capitale ai redditi da lavoro nell'ordine dei due punti percentuali di Pil. Infine, riguardo alle politiche di sviluppo territoriale, appare sconcertante l'enorme divario tra le urgenti necessità di finanziamento per le aree meno sviluppate d'Europa e il sempre più esiguo volume di risorse nazionali e comunitarie destinate ad esse. Paradossale in tal senso appare l'attuale orientamento dell'Unione, teso a ridurre la percentuale di risorse destinate alle aree depresse proprio in concomitanza con l'allargamento ad Est dell'Europa.

Oltre alla drammatica accentuazione delle disuguaglianze sociali, il modello neoliberista ha prodotto anche un drastico abbassamento della stessa crescita economica europea. Se già nel corso degli anni Novanta la dinamica dell'economia europea era sensibilmente rallentata rispetto ai decenni precedenti, negli ultimi tre anni l'UE è entrata in una situazione di profonda crisi economica strutturale, fatta di un continuo alternarsi di fasi di stagnazione e di fasi di vera e propria recessione. La disoccupazione è tornata a crescere, raggiungendo ormai valori prossimi al 9% della forza lavoro europea. L'orientamento fortemente restrittivo della politica monetaria e della politica fiscale, imposto dai vincoli di Maastricht e del Patto di Stabilità, ha soffocato le potenzialità di sviluppo economico dell'Europa, comprimendo la domanda interna. L'apprezzamento dell'euro ha aggravato la competitività delle merci europee, già erosa dalla concorrenza dei Paesi asiatici. La redistribuzione del reddito verso i ceti più ricchi ha prodotto un nuovo, allarmante fenomeno di dualismo dei consumi: mentre i consumi di lusso e opulenti hanno continuato a crescere, i consumi essenziali e i consumi pubblici e collettivi sono invece stagnanti o addirittura in forte calo. Questo fenomeno ha inciso negativamente sulla crescita economica, non solo contribuendo ad accentuare la carenza di domanda effettiva, ma anche generando pesanti distorsioni nella struttura dell'offerta attraverso il progressivo deterioramento delle infrastrutture e dei beni e servizi pubblici e l'accentuazione del degrado dell'ambiente e della natura.

2.2 Una nuova concezione dell'economiavai a indice

Il rilancio del processo di sviluppo economico europeo passa così non solo attraverso una tradizionale e indiscriminata manovra espansiva del livello della produzione, ma attraverso un contemporaneo mutamento della composizione della domanda e del prodotto sociale. Per uscire dalla crisi è necessaria una politica espansiva selettiva, che punti a rilanciare una domanda qualificata e ridefinita da una distribuzione più equa del reddito e a modificare la struttura dell'offerta sulla base dei nuovi bisogni collettivi.

Infatti, la sola crescita del Pil, sganciata da un attento esame della composizione produttiva e delle modalità di realizzazione dello stesso, non rappresenta una garanzia di occupazione piena e di qualità. Il pieno impiego potrà esser solo il risultato di una complessa serie di interventi politici orientati al controllo democratico delle grandi linee di politica monetaria, alla programmazione pubblica e alla rimodulazione dei tempi di vita e di lavoro.

Riguardo poi al nesso esistente tra la crescita del Pil e il benessere collettivo, è ormai ben noto che all'aumentare della ricchezza quel nesso tende decisamente ad attenuarsi e a diventare di più difficile interpretazione. Pertanto è necessario operare una netta distinzione tra regioni sviluppate e non: infatti, laddove nelle aree depresse d'Europa e del mondo si rende tuttora indispensabile puntare alla generale crescita nel livello assoluto del prodotto sociale oltre che alla sua diversa composizione, nelle zone più ricche dell'Unione occorrerà invece concentrare l'attenzione su quest'ultima, soprattutto riguardo al rapporto tra beni privati e beni pubblici. Rinunciando ad operare questa distinzione, risulterà impossibile trattare questioni di assoluta rilevanza ai fini del benessere collettivo, della giustizia sociale, e del rapporto tra società umana e natura.

Superata l'ottica meramente quantitativa e considerate le esternalità negative dei processi produttivi aggressivi rispetto alla natura, l'Europa dovrebbe farsi paladina del rispetto ambientale mediante una serie di proposte sul piano internazionale e una rigorosa legislazione interna a difesa dell'ambiente. In questa direzione appare necessario predisporre un regime fiscale che consenta l'internalizzazione ai costi della azienda delle esternalità da essa prodotte sull'ambiente circostante, operando nel contempo a determinare un nuovo orientamento complessivo delle produzioni. Accanto alle manovre strettamente fiscali sarà opportuno operare con regolamentazioni delle attività produttive prevedendo anche la sostituzione dell'agente privato con la mano pubblica nello sviluppo e utilizzo di fonti di energia alternativa.

Una nuova concezione dell'Europa implica pertanto una diversa definizione degli obiettivi, non più riduttivamente orientati alla crescita economica quantitativa ma fondati su indici più complessi di sviluppo umano, quali ad esempio quelli elaborati dall'UNCTAD, capaci di orientare a fini di benessere collettivo la struttura del nostro sistema di produzione e di rendere sostenibile il rapporto esistente tra questo e l'ambiente circostante.

2.3 La questione meridionale e mediterraneavai a indice

In questa nuova concezione i Sud d'Europa vengono ad assumere una funzione critica specifica. I sud non sono infatti marginalità, ma metafora della globalizzazione, punto nevralgico della gerarchizzazione della società e dei territori. E' tempo di ridare la parola ai Sud, ai diversi Sud del Mediterraneo La rimozione di questo tema è infatti anche nelle sinistre la dimostrazione della profonda subalternità culturale ad una concezione di un'Europa liberista e blindata contro i migranti. Un'analisi delle condizioni del Sud basata esclusivamente sulla chiave interpretativa dell'arretratezza, come viene spesso fatto da tanta parte delle sinistre, costituisce un grave errore analitico perché allude ad un'idea di sviluppo puramente quantitativa. L'intenzione del capitalismo europeo è quella di costruire una sorta di zona franca, cui viene assegnato un ruolo meramente coloniale. E' la proiezione devastante di un modello che ha negato alla radice ogni tipo di sviluppo autocentrato. E' il segno di una filiera produttiva che non compete sulla qualità del prodotto, sull'innovazione tecnologica, sulla formazione, ma sull'inseguimento del più basso prezzo della forza lavoro e sulla violenza di ogni vincolo ambientale sul territorio.

Il policentrismo di cui parliamo ha quindi bisogno di un asse prioritario, quello costituito da il rapporto Sud/Sud, Mezzogiorno/Mediterraneo. Il ruolo dei Sud d'Europa deve contrastare l'idea di un'Europa “carolingia”, cioè puramente baricentrata sul nord, deve aprirsi alle grandi civiltà mediterranee.

In questo senso possiamo parlare nel nostro paese di una nuova questione meridionale, intesa come più generale questione mediterranea.

La conferenza di Barcellona, che viene retoricamente e ipocritamente presentata come costruzione di una “regione economicamente forte nel Mediterraneo” incontra la nostra più radicale opposizione. La cosiddetta zona di libero scambio nel Mediterraneo è, infatti, la zona che sancisce e dà legittimazione alle ragioni di scambio ineguale e alla rapina neocoloniale.

Contrapponiamo alla logica della conferenza di Barcellona una scelta di rapporti Sud/Sud in modo di stabilire anelli di solidarietà, in una visione policentrica, capaci anche di sinergie produttive tra le due sponde del Mediterraneo e tra aree specifiche, basate sul potenziamento delle rispettive comunità e mercati regionali e locali, in un Mediterraneo di pace, denuclearizzato, crocevia di culture, cooperazioni e popoli.

2.4 La questione salariale e i diritti dei lavoratorivai a indice

L'abbattimento dei vincoli esistenti alla espansione dei salari e della spesa pubblica, e l'organizzazione di nuove modalità democratiche e partecipate di intervento politico nei processi economici, rappresentano le condizioni essenziali per una svolta rispetto agli indirizzi politici tuttora dominanti Nelle condizioni attuali, contraddistinte da una pesante erosione del suo potere reale d'acquisto, il salario deve tornare a porsi come una variabile indipendente dall'andamento generale dell'economia e della produttività.

La crescita salariale rappresenta, infatti, un vincolo interno, una oggettiva condizione preliminare ad ogni prospettiva di ripresa economica.

In questo senso, occorre in primo luogo spingere per una forte crescita dei salari, puntando a far si che il loro tasso di crescita arrivi anche a superare il tasso di crescita della produttività del lavoro. Questa è la condizione perché si assista non solo a una crescita assoluta dei salari reali ma anche a una crescita della quota del Pil attribuita al lavoro. In altre parole, occorre attivare un processo di redistribuzione del reddito dai profitti e dalle rendite ai salari che vada nella direzione esattamente opposta rispetto al meccanismo attualmente operante.

A tal fine è necessario operare per una ricomposizione degli interessi e delle istanze tra le diverse categorie di lavoratori, abbandonando la pratica dei regimi differenziati e potenziando le tutele normative e sindacali per tutti i lavoratori subordinati, contrastando le tendenze alla decentralizzazione della contrattazione in materia di produttività del lavoro.

La decentralizzazione si traduce essenzialmente in un indebolimento del potere contrattuale della classe lavoratrice. E' necessario che la contrattazione sia al tempo stesso generalizzata e sottoposta a un continuo vaglio democratico, sia per quel che riguarda la rideterminazione dei salari monetari alla luce dei tassi di inflazione effettivamente registrati sia per quel che riguarda la componente dei salari legata alla produttività. Appare evidente dunque che occorre superare definitivamente la stagione nella quale gli oneri della unificazione monetaria venivano scaricati sui lavoratori.

Per questo ci proponiamo l'obiettivo di un salario europeo, ovvero di una retribuzione che rispetto alle stesse mansioni e qualifiche costituisca una base egualitaria commisurata ai livelli più alti raggiunti dalla contrattazione su scala europea.

E' bene sottolineare che una forte spinta alla crescita dei salari non avrebbe solo una valenza immediatamente etica, rendendo un po' meno ingiusta la società europea. Sul piano macroeconomico essa rafforzerebbe la domanda effettiva interna, avviando un processo di fuoriuscita dalla cronica e strutturale situazione di stagnazione dell'economia europea. Sul piano della competitività internazionale delle produzioni europee, inoltre, una ripresa dei salari parlerebbe chiaro agli imprenditori. Si tratta di far comprendere loro che le politiche della competitività fondate sulla riduzione dei costi, e in particolare sulla riduzione del costo del lavoro, soffrono il corto respiro e non possono trovare spazio in un sistema sociale che si pretende civile e che vuole tendere a una maggiore democrazia economica. Insomma, la stagione di crescita salariale innescherebbe un ciclo virtuoso di investimenti in innovazioni tecnologiche, in formazione e in ricerca scientifica che farebbe crescere nel medio-lungo periodo significativamente la competitività dell'apparato produttivo europeo.

Alla logica della cosiddetta occupabilità, contenuta in diversi documenti europei e nello stesso progetto costituzionale, che consiste nel lasciare il cittadino a lottare, rendendosi più flessibile, da solo sul mercato del lavoro, va contrapposta quella del diritto al lavoro e quindi dell'obbligo per la Ue e i singoli stati di rimuovere gli ostacoli sociali che non lo rendono realizzabile. Va quindi invertita la rotta a suo tempo presa dall'Europa con la crescente deregolamentazione del mercato del lavoro. Occorre, al contrario, procedere alla reintroduzione di nuove forme di rigidità positiva del lavoro attraverso una estensione dei diritti dei lavoratori e muoversi nella direzione di una incentivazione dei rapporti di lavoro di lunga durata procedendo a una disattivazione di meccanismi contrattuali che esaltano la precarietà e la subalternità del lavoro. Il che comporta la revisione e la cancellazione delle normative europee degli ultimi anni in tema di contratti a termine e di allungamento dell'orario della giornata lavorativa.

Infatti l'estensione dei diritti dei lavoratori passa anche attraverso la ripresa su scala europea dei progetti relativi alla riduzione dell'orario di lavoro a parità di retribuzione, tenendo anche conto con la dovuta criticità di esperienze già in atto in alcuni paesi europei. I periodi di non lavoro di chi è comunque costretto a praticare un lavoro precario vanno protetti garantendo la continuità del diritto, la protezione sociale e la maturazione dei diritti pensionistici. Tenendo anche qui conto di diverse e differenziate esperienze già in atto, va generalizzata la scelta di un salario sociale, particolarmente rivolto ai giovani e ai disoccupati di lunga durata, connesso con la fornitura di servizi formativi e sociali gratuiti, in modo da permettere una vita dignitosa e la possibilità di ricerca di un lavoro vero e soddisfacente. Inoltre, va sancito per tutti il diritto alla formazione permanente. In questa ottica, la formazione deve essere vista come un vero e proprio diritto alla valorizzazione delle capacità e delle professionalità di cui ciascuno è portatore e deve essere istituzionalmente configurata come un servizio pubblico per la soddisfazione di diritti sociali costituzionalmente garantiti. L'insieme di questi provvedimenti sposterebbero in avanti il grado di civiltà della società europea.

2.5 Rilanciare l'intervento pubblico e democratico nell'economiavai a indice

Accanto alla ripresa dei salari è essenziale una ripresa dell'intervento pubblico nell'economia. Il fallimento economico e sociale del modello neoliberista ha mostrato che il mercato lasciato a se stesso è fonte di inefficienza economica e di ingiustizia sociale. Occorre battersi per una forte ripresa della funzione pubblica nell'economia sia nel senso del sostegno all'economia privata, sia nel senso dell'espansione della proprietà e delle imprese pubbliche. In particolare, va arrestata e rapidamente invertita la tendenza alle privatizzazioni, seguendo tra l'altro l'esempio di paesi come la Francia e la Germania dove la proprietà pubblica è stata sempre custodita. Altro campo nel quale occorrerà con convinzione spendere il rilancio della funzione pubblica è il settore della ricerca e dello sviluppo. A riguardo, è necessario che tutti i paesi - a cominciare da quelli in palese ritardo, come l'Italia - accrescano significativamente la quota del Pil spesa in ricerca e sviluppo. E' questa una condizione per garantire la crescita della produttività nel lungo periodo e il benessere sociale della collettività europea all'interno della scena mondiale. Il rilancio della ricerca di base, in seno all'operatore pubblico, costituirà la premessa per una nuova politica industriale in grado di guidare il sistema produttivo europeo, a cominciare dai sistemi produttivi periferici, lontano dall'impiego di tecnologie tradizionali e verso l'impiego di tecnologie avanzate e innovative.

Infine, occorre invertire le tendenze in atto a livello europeo alla costante riduzione delle spese sociali. Ancora una volta l'effetto immediato dell'incremento delle spesa pubblica per finalità sociali è evidentemente la crescita dei livelli di benessere dei lavoratori e la riduzione dell'ingiustizia sociale. Sarebbe auspicabile, a riguardo, che l'intervento dello Stato cominciasse a fissare fasce di totale gratuità dei servizi pubblici e delle prestazioni sociali per i disoccupati, per i giovani e per le fasce della popolazione caratterizzate da indigenza e povertà.

2.6 Via da Maastricht, per una svolta nella politica economica europeavai a indice

Il Trattato di Maastricht e il Patto di stabilità di Amsterdam, rappresentano due fondamentali capisaldi del palinsesto macroeconomico europeo.

Secondo la visione dominante essi sarebbero stati edificati allo scopo di assicurare la stabilità monetaria e finanziaria dell'Unione, ritenuta condizione imprescindibile per uno sviluppo sano ed equilibrato dell'economia europea. Il Trattato assegna alla Banca centrale europea il compito prioritario di combattere l'inflazione, subordinando ad esso tutti gli altri obiettivi, come il perseguimento di un elevato livello di occupazione e di uno sviluppo territorialmente e socialmente equilibrato del reddito. Il Trattato inoltre vieta alla Banca centrale e alle altre istituzioni monetarie dell'Unione di erogare moneta per finanziare gli eventuali disavanzi degli stati membri. Ed ancora, sostenendo di garantire in tal modo la sostenibilità delle finanze pubbliche dell'Unione, il Trattato impone agli stati membri di mantenere il rapporto tra il deficit pubblico e il prodotto interno lordo al di sotto del limite del 3%, mentre il Patto impegna i medesimi a far tendere i bilanci verso il pareggio o l'avanzo. Il Trattato fissa poi come obiettivo generale dei paesi membri quello di far convergere i debiti pubblici al di sotto del limite del 60% rispetto al Pil, ed infine sancisce la piena adesione dell'Unione alla libera circolazione delle merci e soprattutto dei capitali, non solo al proprio interno ma anche nelle transazioni con i paesi terzi.

Queste regole sono state sottoposte a numerose critiche. In particolare, il dibattito di teoria e politica economica ha chiarito che non sussiste nessuna giustificazione scientifica per i vincoli monetari e fiscali imposti a Maastricht e ad Amsterdam e quindi nulla impedisce in via di principio di sostituirli con altri tipi di regole. Nella critica, tuttavia, di rado ci si è posti il problema di esaminare le determinanti strettamente politiche e di classe delle regole monetarie e fiscali. In particolare si trascura il fatto che le norme dei Trattati sono state chiaramente imposte al fine di assicurare un rigoroso controllo delle rivendicazioni sociali: il palinsesto macroeconomico che deriva da esse è infatti espressamente strutturato in modo tale da impedire ai salari e alla spesa pubblica di attirare a sé le risorse monetarie e finanziarie necessarie alla loro espansione. A questo proposito, basterà esaminare i documenti e le decisioni ufficiali della Banca centrale europea per rilevare che la priorità assoluta alla lotta contro l'inflazione è stata interpretata come un'implicita autorizzazione a minacciare il rialzo dei tassi d'interesse di fronte ad eventuali aumenti delle retribuzioni e a sostenere tutte le iniziative politiche tese ad indebolire l'iniziativa sindacale attraverso la flessibilità del lavoro e il decentramento contrattuale. Inoltre, va notato come la lotta all'inflazione abbia finora autorizzato la Banca centrale europea a collocare i tassi d'interesse sistematicamente al di sopra del tasso di crescita del reddito. Un simile indirizzo è stato finora criticato solo in relazione agli effetti depressivi sul Pil, ma ben poco finora si è detto delle sue implicazioni distributive a favore dei redditi da capitale. In tal modo la BCE ha ampiamente travalicato i suoi compiti istituzionali, assumendo implicitamente un ruolo che non le compete, quello di regolatore di ultima istanza del conflitto distributivo.

Infine, è ben noto che la piena adesione del Trattato alle politiche di deregolamentazione dei mercati finanziari e di liberalizzazione dei movimenti di capitale ha sottoposto le decisioni politiche alla perenne minaccia delle fughe di capitale, favorendo in tal modo uno sbilanciamento negli assetti di potere favorevole ai percettori di rendite e profitti. L'assetto istituzionale dell'UME è responsabile anche di una rideterminazione degli assetti di potere tra capitale industriale e capitale finanziario. Quando si parla di un'Europa della moneta, per intendere che l'unificazione europea ruota principalmente intorno alla moneta unica, non può non scorgersi un altro aspetto inquietante. L'Europa della moneta è l'Europa del capitale finanziario, è l'Europa delle banche dei grandi banchieri. L'unificazione monetaria è stata accompagnata da una serie di direttive in materia di credito e banche che hanno determinato un vero terremoto negli assetti proprietari e dimensionali delle banche europee. Si è assistito a un processo di liberalizzazione dei capitali, di privatizzazione di ciò che restava della proprietà pubblica delle banche e di despecializzazione dei settori di attività. Il modello-guida in questo cambiamento è stato la banca universale tedesca. L'effetto principale del mutamento normativo è il gigantesco processo di concentrazioni bancarie che ha attraversato l'Europa negli ultimi quindici anni e il conseguente balzo dimensionale delle banche. Le concentrazioni spostano l'ago del potere dal lato del capitale e determineranno un aumento del costo del credito, accompagnati da fenomeni di razionamento, soprattutto a danno delle imprese medie e piccole.

Il Trattato di Maastricht, insomma, rappresenta uno dei più sofisticati regimi di controllo delle rivendicazioni sociali esistenti al mondo. Finché le norme da esso previste verranno rispettate, la crescita assoluta e relativa dei salari e della spesa sociale risulterà sempre fortemente compromessa.

E' bene chiarire, a questo proposito, che la recente sospensione del Patto di Stabilità, a seguito del superamento dei vincoli al deficit pubblico di Francia e Germania costituisce senz'altro un indice della crisi dell'attuale palinsesto macroeconomico europeo, ma non rappresenta ancora una svolta negli indirizzi di politica economica. Va ricordato, infatti, che sia la Francia che la Germania risultano da tempo impegnate in una serie di politiche finalizzate al contenimento salariale e alla compressione dei bilanci pubblici. E' bene infine tener presente che le discussioni su una possibile modifica al Trattato e al Patto di stabilità appaiono al momento orientate verso una netta conferma del palinsesto vigente. I correttivi sui quali finora si è discusso, infatti, punterebbero a costituire delle norme più restrittive per i paesi caratterizzati da un debito pubblico elevato, norme che finirebbero per colpire soprattutto i paesi più deboli e periferici, dall'Italia ai nuovi candidati per l'ingresso nell'Unione. In tutti i casi, comunque, si tratterebbe di una sostanziale conferma dell'orientamento da tempo dominante in Europa, che mira al rigido controllo dei salari e della spesa pubblica e che condiziona al rafforzamento di tale controllo l'avvio di qualsiasi politica a favore della crescita economica. Detto ciò, naturalmente non si dovrà sottovalutare il fatto che la violazione delle norme da parte di due paesi dell'Unione, e la mancata applicazione delle relative sanzioni, costituisca un importante, positivo precedente politico a favore degli eventuali futuri tentativi di superamento dei vincoli attualmente in vigore.

Numerosi segnali provenienti dai settori più disparati della società europea indicano che le pressioni e le rivendicazioni dei movimenti sociali sono destinate a crescere nel prossimo futuro. Affinché tuttavia le rivendicazioni riescano a far breccia negli argini delle istituzioni politiche europee, si rende necessario che la crescita salariale e della spesa pubblica non vengano arrestate da ostacoli di natura monetaria e finanziaria. A questi fini si renderà necessario accompagnare le spinte e le rivendicazioni provenienti dal basso con la promozione in tutte le sedi politiche competenti di una serie di proposte di riforma del Trattato, finalizzate per l'appunto a far breccia nell'attuale sistema di creazione e circolazione capitalistica della moneta. L'obiettivo cardine di tali proposte consiste nell'indurre un radicale mutamento nelle reazioni della Banca centrale e dell'intero sistema monetario e finanziario europeo nei confronti della dinamica salariale e della spesa pubblica.

2.7 La politica monetaria e del tasso di cambiovai a indice

Le finalità istituzionali della BCE, nella conduzione della politica monetaria e del tasso di cambio, devono comprendere, oltre alla stabilità dei prezzi, anche la piena occupazione e l'equità distributiva. L'obiettivo dell'equità distributiva deve essere perseguito attraverso l'espressa indicazione per la Banca centrale europea ad operare sui mercati monetari e finanziari al fine di collocare la media dei tassi d'interesse al di sotto del tasso medio di crescita del Pil europeo e a non ostacolare eventuali crescite salariali al di sopra dell'inflazione attraverso la minaccia o l'adozione di misure di politica monetaria restrittiva. L'assoluta priorità degli obiettivi interni potrà esser perseguita attraverso l'introduzione di opportune misure permanenti di controllo dei movimenti di capitale, a partire dall'adozione a livello europeo della Tobin tax, collocata a un livello tale non solo da scoraggiare i movimenti speculativi di breve periodo, ma anche da favorire l'abbattimento dei tassi d'interesse interni di lungo periodo rispetto a quelli prevalenti a livello internazionale.

A questo obiettivo va aggiunta l'abolizione, anche attraverso forme di limitazione drastica dei singoli paesi del loro utilizzo, dei cosiddetti paradisi fiscali e/o legali, vere e proprie zone franche del liberismo più estremo.

Questa nuovo orientamento della politica monetaria deve essere accompagnato da una profonda democratizzazione della BCE. Il principio di autonomia e indipendenza della Banca centrale europea deve essere inteso in senso strumentale e non finalistico. Gli obiettivi finali della politica monetaria, nel rispetto dei principi della piena occupazione, dell'equità distributiva e della stabilità dei prezzi, devono essere fissati attraverso un processo democratico che coinvolga l'insieme delle istituzioni europee rappresentative della sovranità popolare (parlamento europeo, parlamenti nazionali, Consiglio e Commissione europei), attivando anche forme di consultazione e di partecipazione della società civile europea. Gli strumenti concreti di attuazione degli indirizzi generali della politica monetaria devono essere definiti dalla BCE in assoluta autonomia e indipendenza. La BCE deve essere resa responsabile della corretta attuazione della politica monetaria nei confronti di un'apposita commissione parlamentare europea.

2.8 La politica fiscalevai a indice

La sospensione della vigenza del Patto di stabilità europeo deve sfociare nella sua definitiva abolizione. La compatibilità e la coerenza tra gli obiettivi di politica monetaria e quelli di politica fiscale non devono essere più assicurati attraverso rigide regole automatiche, ma attraverso una forte integrazione delle politiche macroeconomiche nazionali e comunitarie. Gli indirizzi strategici della politica fiscale devono essere definiti a livello comunitario dal Parlamento europeo al fine di orientare la domanda complessiva dell'UE verso obiettivi di sviluppo, di occupazione, di equa distribuzione del reddito e di riequilibrio e convergenza territoriale, all'interno di un quadro generale di programmazione e pianificazione degli interventi. Le politiche fiscali dei singoli Stati membri dovranno essere definite all'interno e in coerenza con gli indirizzi comunitari. Per il perseguimento degli obiettivi strategici di politica economica definiti dal Parlamento europeo occorre prevedere altresì la possibilità di ripristinare forme di finanziamento monetario dei disavanzi pubblici, predisponendo una procedura flessibile e concordata di assegnazione dei finanziamenti monetari ai singoli Paesi membri e all'UE. Occorre anche procedere verso una tendenziale convergenza dei sistemi tributari nazionali e dei sistemi di protezione sociale in modo da giungere progressivamente alla costruzione di uno spazio sociale comune europeo che, pur nell'ambito del rispetto di particolari specificità nazionali, possa garantire l'uguaglianza dei diritti economici e sociali fondamentali per tutti i cittadini dell'Unione.

In questo nuovo quadro, è necessario operare per un rafforzamento quantitativo e qualitativo del bilancio dell'UE, oggi pari a poco più dell'uno per cento del PIL dell'area e limitato a pochi settori di intervento.

Il bilancio comunitario deve essere utilizzato per fini di riequilibrio territoriale, di assistenza temporanea a Paesi colpiti da crisi specifiche e particolari, di realizzazione di opere e servizi di interesse europeo, di interventi di cooperazione internazionale allo sviluppo. A tal fine è necessario prevedere la possibilità di emissione di titoli del debito pubblico europeo destinati al finanziamento di programmi e di piani specificamente definiti. L'allargamento dell'UE ad altri dieci Paesi, tutti caratterizzati da livelli di reddito inferiori a quello medio dell'area, rende urgente l'ampliamento del bilancio comunitario per consentire politiche di convergenza strutturale dei nuovi Paesi membri senza privare le regioni deboli dei vecchi Stati membri, come il Mezzogiorno italiano, delle risorse necessarie al riequilibrio territoriale e allo sviluppo economico.

2.9 La politica commerciale e il ruolo dell'UE nel WTOvai a indice

La politica commerciale condotta dall'UE in seno ai negoziati WTO è stata finora improntata ad un liberismo integrale nei settori in cui gode di un vantaggio competitivo e ad un forte protezionismo nei settori più esposti alla competizione internazionale, in particolare in quello agricolo.

L'UE, nel corso del round commerciale di Doha, è stata la più convinta sostenitrice dell'integrale liberalizzazione e privatizzazione del settore dei servizi di pubblica utilità e dei beni comuni (acqua, energia, trasporti e telecomunicazioni) e della completa deregolamentazione degli investimenti diretti all'estero. Queste posizioni sono state assunte nell'interesse esclusivo delle grandi imprese transnazionali europee, alla continua ricerca di nuove fonti di profitto. L'UE si è così mostrata del tutto insensibile alle esigenze dei popoli del Sud del mondo che vedrebbero ulteriormente aggravate le loro già difficili condizioni di vita dalla privazione di diritti fondamentali quali l'accesso gratuito ed universale a beni e servizi di prima necessità. Inoltre, l'introduzione di una tutela giuridica internazionale sugli investimenti diretti all'estero, con il divieto di emanare normative nazionali a protezione dei diritti dei lavoratori e dell'ambiente, priverebbe i singoli Stati, e in particolare quelli del Sud del mondo, della possibilità di vietare forme di sfruttamento selvaggio degli uomini e della natura e condurrebbe ad una totale subordinazione delle economie e dei territori dell'intero globo alle esigenze del capitale transnazionale. Nello stesso tempo l'UE si è mostrata pervicacemente ostile ad ogni sostanziale riduzione dei sussidi a protezione della propria agricoltura. I sussidi agricoli, che per la loro struttura oggi favoriscono le grandi imprese agricole e le produzioni nordiche a scapito dei piccoli produttori e delle produzioni mediterranee, costituiscono una barriera insormontabile per l'ingresso dei prodotti agricoli del Sud del mondo nel mercato europeo e abbattono artificialmente il prezzo dei prodotti agricoli europei sui mercati mondiali.

L'UE ha finora agito nell'arena economica internazionale in piena sintonia con gli USA negli indirizzi strategici di fondo, improntati all'integrale applicazione del modello neoliberista su scala globale, al di là delle frizioni specifiche e limitate su singoli aspetti della politica commerciale che sono emerse tra alcuni interessi europei e statunitensi. La politica commerciale fin qui perseguita dall'UE è stata caratterizzata, alla stregua di quella degli USA, da una continua azione tesa ad accentuare le condizioni di scambio ineguale tra Nord e Sud del mondo e ad aggravare gli squilibri economici e sociali internazionali.

2.10 Per nuove relazioni democratiche dopo Cancun e il collasso del WTOvai a indice

Il fallimento della Conferenza ministeriale WTO di Cancun nello scorso settembre ha però messo in profonda crisi il modello della globalizzazione neoliberista. Due i fattori fondamentali che hanno condotto a questo esito.

Da un lato, la forza egemonica del movimento altromondialista che, attraverso un lungo lavoro iniziato con i moti di Seattle, ha screditato questa istituzione, trascinando su posizioni sempre più critiche e radicali gran parte della società civile internazionale. Dall'altro lato, il risveglio dei Paesi del Sud del mondo che, rafforzati dal nuovo volto del Brasile di Lula e del Venezuela di Chavez, hanno respinto i ricatti degli USA e dell'UE, non arretrando di un passo nella rivendicazione di un commercio più giusto ed eguale. A Cancun, questi due fattori si sono finalmente incontrati ed hanno cooperato nel produrre il risultato finale. Il gruppo dei 21 Paesi del Sud del mondo, nuovo protagonista della scena politica mondiale, non rivendica la semplice liberalizzazione agricola ma, nel chiedere regole commerciali differenziate tra Paesi con diverso livello di sviluppo e di potere economico, pone la questione di una regolazione politica dei prezzi mondiali per perseguire finalità economiche e sociali.

Il fallimento di Cancun ha così segnato il collasso definitivo del WTO, un'istituzione caratterizzata da una totale assenza di trasparenza e di democrazia interna, concepita fin nella sua struttura organizzativa e nelle sue modalità operative come il principale strumento per imporre il modello neoliberista su scala globale. Il WTO non è stato affatto un sistema democratico di relazioni multilaterali tra pari, ma uno strumento di dominio del grande capitale globale sui popoli del mondo, agendo come vettore principale dell'unilateralismo neoliberista. Infatti nel corso della sua breve esistenza, gli accordi bilaterali e interregionali si sono moltiplicati come funghi, in dimensioni mai sperimentate in passato, e sono stati usati per imporre a tutti ciò che si era già imposto ai più deboli. Per queste ragioni abbiamo sempre sostenuto che il WTO non fosse riformabile in senso democratico ed ora che assistiamo alla sua paralisi ne chiediamo lo scioglimento.

Questa nostra posizione non implica il sostegno ai tentativi di Usa e Ue di sostituire nei fatti il Wto con un insieme differenziato di accordi bilaterali con singoli Paesi o con singole aree del Sud del mondo, anzi, al contrario li denunciamo. Intendiamo operare nelle istituzioni europee e nei movimenti per impedire la conclusione dell'accordo ALCA sul libero commercio nell'emisfero americano e dell'accordo in corso UE-Mercosur finalizzato all'istituzione di un'area di libero commercio tra l'Europa e il Sud America, così come di tutti gli altri accordi commerciali bilaterali che puntano ad estendere l'ordine neoliberista.

L'UE deve invece farsi portatrice di una proposta complessiva di realizzazione di un nuovo ordine economico internazionale, basato su nuove relazioni democratiche tendenzialmente paritarie e sul definitivo abbandono delle politiche neoliberiste. Un nuovo, più giusto ordine economico mondiale implica il riconoscimento delle esigenze di sviluppo equilibrato dei Paesi del Sud del mondo, da perseguire anche attraverso forme concordate di protezione dei settori economici strategici. Se è vero che la sovranità alimentare dei popoli europei passa anche attraverso il mantenimento di un sistema di sussidi agricoli, profondamente trasformato rispetto a quello attuale per favorire le produzioni tipiche, biologiche e di qualità e la piccola proprietà, è altrettanto vero che occorre riconoscere ai Paesi del Sud del mondo la possibilità di proteggere i settori industriali strategici, le risorse ambientali e naturali, i saperi e le culture tradizionali e i servizi pubblici essenziali dalla concorrenza internazionale. Così come occorre liberare in via integrale e definitiva i Paesi del Sud del mondo dal fardello del debito estero, che ha rappresentato la principale arma di ricatto per imporre le politiche neoliberiste su scala mondiale. L'UE dovrebbe dichiarare unilateralmente e senza condizioni la cancellazione totale del debito estero dei Paesi del Sud del mondo nei confronti di istituzioni pubbliche e private europee ed agire per imporre un analogo comportamento agli USA, al Giappone e agli altri Paesi ricchi.

Nello stesso tempo l'UE deve adoperarsi per una radicale riforma delle organizzazioni finanziarie internazionali (FMI e Banca Mondiale).

L'operato di queste istituzioni nell'ultimo ventennio ha agito nel senso di condizionare l'erogazione dei finanziamenti all'applicazione selvaggia delle politiche neoliberiste all'interno dei Paesi del Sud del mondo, al solo scopo di garantire il pagamento degli oneri del debito estero ai grandi creditori internazionali. Lo scopo originario di queste istituzioni è stato così completamente tradito: invece di favorire, attraverso appositi canali di finanziamento internazionale, lo sviluppo economico e sociale dei Paesi in difficoltà, rimuovendone i vincoli esterni e promuovendo progetti di investimento, esse hanno al contrario agito nel senso di accentuare la polarizzazione dello sviluppo nelle aree più sviluppate e di incrementare la disuguaglianza tra Paesi e all'interno dei Paesi, al solo scopo di tutelare gli interessi del grande capitale finanziario transnazionale. Questo orientamento neoliberista è stato reso possibile anche dalla organizzazione interna antidemocratica di queste istituzioni, basate su un meccanismo decisionale fondato sulle quote finanziarie di partecipazione che assicurano ai Paesi ricchi il completo controllo dell'organizzazione e delle sue politiche.

2.11 L'Europa protagonista di un nuovo ordine economico internazionalevai a indice

Un nuovo ordine economico internazionale implica lo scioglimento delle attuali istituzioni economiche internazionali (WTO, FMI e Banca Mondiale) e la loro sostituzione con nuove organizzazioni economiche internazionali, operanti all'interno del sistema delle Nazioni Unite e fondate su meccanismi decisionali democratici che assicurino un'equa distribuzione del potere decisionale tra gli Stati membri e che prevedano forme attive di partecipazione dei popoli e della società civile internazionale. Queste nuove organizzazioni economiche internazionali devono avere come finalità esclusive la promozione di politiche di piena occupazione, di equità distributiva, di lotta contro il sottosviluppo e la povertà, di sviluppo economico delle aree arretrate, di garanzia universale dei diritti umani e sociali fondamentali, di eque relazioni commerciali e finanziarie internazionali, di tutela del carattere pubblico e collettivo dei beni comuni, di salvaguardia delle risorse ambientali e della biodiversità.

L'introduzione a livello mondiale di una tassa sui movimenti di capitale a breve termine consentirebbe di ottenere parte dei finanziamenti necessari al funzionamento delle nuove istituzioni economiche, che per la parte rimanente dovrebbero essere finanziate dai Paesi membri in proporzione al loro livello di reddito e di ricchezza.

L'operato di queste nuove organizzazioni economiche internazionali deve essere inserito in un nuovo sistema monetario internazionale, che superi l'attuale anarchia valutaria basata sul ruolo dominante del dollaro come moneta di riserva internazionale e sulla piena libertà di movimento dei capitali. La strada per ridurre il potere di signoraggio degli USA, cioè la loro possibilità di finanziare indefinitamente il deficit commerciale con l'estero attraverso l'emissione di moneta nazionale, non è quella della concorrenza dell'euro come moneta di riserva internazionale, ma quella della creazione di una nuova moneta di riserva, gestita dalla nuova organizzazione finanziaria internazionale al fine di perseguire politiche di sviluppo e di riequilibrio sociale e territoriale.

Per realizzare questi ambiziosi obiettivi politici, l'UE insieme ai Paesi del Sud del mondo dovrebbe farsi promotrice, a sessant'anni di distanza dalla Conferenza di Bretton Woods, di una nuova conferenza internazionale convocata dall'ONU per definire le regole e l'organizzazione di un nuovo ordine economico globale. La crisi economica e sociale prodotta dal modello della globalizzazione neoliberista ha dimensioni e intensità paragonabili a quelle della grande depressione degli anni Trenta. Allora si scelse la strada dell'anarchia nelle relazioni economiche internazionali, che accentuò e aggravò la crisi, e soltanto la catastrofe della seconda guerra mondiale indusse le grandi potenze ad intraprendere la strada della cooperazione internazionale. Il rischio è che oggi la storia si possa ripetere, sia pure in forme nuove ma pur sempre tragiche, come dimostra l'innesco infernale della spirale della guerra e del terrorismo. Bisogna intervenire prima che sia troppo tardi con un nuovo progetto di ricostruzione dell'ordine economico mondiale devastato da due decenni di neoliberismo.

Sarebbe questo il più grande e importante contributo alla causa della pace e della solidarietà dei popoli. L'Europa per dimensioni economiche e per tradizioni storiche e culturali è un'entità in grado di portare avanti con successo questo disegno.

PARTE TERZA. CONTRO LA DEVASTAZIONE DELLA NATURA E DELL'AMBIENTE

3.1 La questione ambientalevai a indice

La questione ambientale rappresenta una delle contraddizioni più evidenti del modo di costruire l'Europa.

L'Europa ha in se complessivamente e nelle vari esperienze nazionali, una storia segnata dall'intreccio tra natura e cultura, con territori ricchi ma spesso fragili (come in Italia), caratterizzati da forte antropizzazione.

Naturalmente si sono conosciute vere e proprie devastazioni dalle deforestazioni all'agricoltura massiva alle industrializzazioni selvagge, ma c'è comunque nel rapporto con l'ambiente un elemento di civiltà presente in tutte le culture giuridiche, artistiche, economico sociali. Si pensi solo alla larga diffusione dei beni considerati comuni.

Tutto ciò ha fatto sì che l'Europa mostrasse attenzione alla legislazione intorno alla questione ambientale anche in questa fase di formazione, producendo numerose direttive, libri verdi e manifestando maggiore propensione agli accordi internazionali come quello di Kyoto.

Ma questa propensione è stata affidata al prevalente delle politiche monetaristiche di mercato e privatistiche che l'hanno di fatto vanificata.

Si pensi a come Kyoto risulti in concreto di assai difficile attuazione anche in ambito europeo, alle contraddizioni agricole dove il prevalente di tagli e concorrenza sta di fatto lasciando spazio alla subalternità ai modelli americani e rende flebile la resistenza agli OGM e rischia la marginalizzazione delle politiche di qualità e di sovranità alimentare, alle infrastrutturazioni selvagge e devastanti proposte più per annettere territori che per promuovere relazioni di tipo nuovo; alle privatizzazioni dei beni ambientali, dall'acqua, ai territori, proposte e imposte anche verso i paesi terzi con grande aggressività.

Emerge con nettezza la contraddizione celata anche nella ambiguità della definizione di sviluppo sostenibile, di affidare i valori ambientali e il loro essere base di una diversa idea di economia e di società al mercato, all'impresa, alle privatizzazioni e alla liberalizzazioni.

Tutte queste, lungi dal promuovere una razionalizzazione una modernizzazione ambientalista, accentuano il carattere entropico e distruttivo di una globalizzazione che non garantisce più la riproduzione sociale ed ambientale ed anzi sconta politiche di dominio e di vere e proprie guerre militari e commerciali per le risorse.

Al contrario, l'Europa, se vuole esistere, ha bisogno di tutt'altra strada cioè quella di ricostruire, a partire da sè ma anche agendo nello scenario globale, un nesso tra economia, società, cicli ambientali di cui garantire la riproducibilità.

E' una critica di fondo della globalizzazione che insegue “irrazionalmente” ambiente e lavoro ai costi più bassi, alle privatizzazioni, alle liberalizzazioni che in realtà moltiplicano gli impatti in modo devastante, alla mercificazione che impedisce l'evoluzione dell'ambiente al punto ormai da comprometterne i grandi cicli, dall'acqua alla biosfera.

Un programma di alternativa è fatto dunque della ricostruzione dei grandi cicli biologici.

Esso richiede una nuova dimensione tra locale e globale in cui sono fondamentali le esigenze sociali e ambientali e non quelle commerciali; la sovranità alimentare ne è un esempio formidabile. Ma lo sono anche il governo delle acque per bacini o la territorializzazione delle produzioni energetiche.

Il secondo grande requisito è la definizione di un ambito di beni comuni rispetto ai quali devono prevalere le istanze sociali e ambientali.

Acqua, energia, territori, biodiversità, città, culture non sono mercificabili pena la loro dissipazione e la sottrazione crescente di accesso.

Questa cultura dei beni comuni poggia largamente su preesistenti giuridici e culturali (si pensi agli usi civici e ai demani).

Il terzo punto è rappresentato proprio dalla promozione delle politiche ambientali richiede un nuovo ruolo fondamentale per un nuovo pubblico capace di agire al livello delle grandi politiche necessarie così come il mercato ha dimostrato di non saper fare.

Il quarto dal risanamento e la valorizzazione dell'ambiente devono diventare la principale occasione di lavoro buono.

Il quinto, dal fatto che l'economia deve incorporare i valori ambientali, non tramite il mercato, che ha fallito, ma tramite la democrazia partecipativa agendo localmente e globalmente. Il mercato, infatti, agisce, pensandosi senza limiti ambientali e quando vi si scontro, come ormai avviene inevitabilmente, pur di non comprimere se stesso distrugge democrazia e soggetti. L'emergere del carattere finito delle risorse, e della sua insormontabilità di tipo puramente tecnologico, richiede una nuova modernità, una nuova economia, più democrazia.

Concretamente ciò significa avere diversi parametri di misurazione dell'economia invece del PIL e del tutto contrapposti a quelli monetaristici di Maastricht; nuove regole internazionali fondate su pacchetti di diritti ambientali e sociali esigibili anche su scala locale, andando ad esempio anche oltre Kyoto; la qualità dei cicli ambientali, la loro riproducibilità. e il loro accesso per tutti e per ciascuno come regole; l'effettivo calcolo del bilancio materiale dell'economia per rispettare gli impegni di risparmio delle risorse; la definizione giuridica di beni comuni per acqua, energia, territorio, biodiversità e del carattere pubblico e partecipato di tutti i servizi ad essi connessi; la partecipazione democratica alla gestione e al controllo dei beni comuni; le relazioni globali fondate non sull'impero ecologico e lo scambio ineguale ma anzi sul risarcimento delle depredazioni avvenute e dunque sull'azzeramento del debito, sulla cooperazione, il rispetto e la promozione delle sovranità ambientali.

La sicurezza va intesa come un valore di democrazia e di diverse concezioni del progresso. Si tratta di affermare dunque il principio di precauzione come norma preventiva rispetto ad ogni scelta più economica.

Bisogna trasformare le politiche dei rifiuti in una nuova politica di democrazia merceologica volta ad un modello che non rifiuta, ma invece risparmia, recupera, ricicla le materia. Vanno quindi contestate e rifiutate le logiche dello smaltimento e della diffusione degli inceneritori.

Vanno progettati un risanamento e una riqualificazione dei territori e delle città come grande progetto occupazionale e di qualificazione civile.

Bisogna pensare ad un riassetto dei territori e delle città fondato sulla rinaturalizzazione, il reinsediamento nelle aree deboli, il recupero dei patrimoni urbani.

Queste proposte sono di cornice a progetti obbiettivo come la conversione ecologica delle attività industriali non per delocalizzarle verso altri paesi solo per esportare gli impatti ambientali e ridurre il costo del lavoro mantenendo però i profitti, ma riqualificando in senso sociale e ambientale cosa, come, per chi produrre: la mobilità alternativa, il risparmio energetico diffuso, la conversione civile delle produzioni militari; l'innovazione di processi e di prodotto.

3.2 Per una sovranità alimentare e una diversa PAC (Politica Agricola Comunitaria)vai a indice

Il risultato di decenni di politiche liberiste hanno favorito l'abbandono delle campagne disconoscendo economicamente e socialmente quelle funzioni di sorveglianza, manutenzione e gestione del territorio che solo i lavoratori agricoli possono svolgere. Senza le imprese agricole ed il lavoro quotidiano non c'e presidio del territorio e si lascia campo aperto alla stagione della cementificazione e dei disastri La nuova Revisione della Pac presentata da Fischler favorisce un ulteriore processo di abbandono delle campagne. Le imprese agricole europee continueranno ad essere bruciate sull'altare della salvezza del libero mercato, saranno 600 al giorno le aziende agricole tra i 5 ed i 20 ettari che dovranno chiudere i battenti a vantaggio delle aziende sopra i 50 ettari.

Ulteriori tagli all'agricoltura e l'impianto liberista della PAC avranno un impatto devastante sulle nostre economie rurali, l'ulteriore abbandono delle aree marginali verso le zone interne e verso prodotti a basso valore aggiunto di lavoro, con eccessi di chimica ed acqua per prodotti di scarsa qualità che andranno a far concorrenza a produzioni senza nessun controllo sociale, ambientale, delocalizzate in giro per il mondo e pronte ad ingrossare le catene di discount senza alcuna garanzia per i consumatori.

Il compromesso raggiunto dal Consiglio dei Ministri Agricoli europei sulla PAC, penalizza fortemente l'agricoltura mediterranea di qualità, Il metodo di calcolo del disaccoppiamento colpirà negativamente le aziende bio, la modulazione porta risorse irrisorie allo sviluppo rurale. Una riforma che tradisce l'impegno per una vera condizionalità ambientale, sociale ed occupazionale per l'ottenimento di premi. Il disaccoppiamento parziale e l'ampia autonomia data ai singoli stati membri, per la sua messa in pratica, apre la strada ad una rinazionalizzazione della PAC ed è un preoccupante segno verso la sua delegittimazione o il suo smantellamento. I fondi ottenuti grazie alle modulazione rimangono a livello nazionale per l'80% penalizzando per l'ennesima volta i Paesi del mediterraneo che storicamente beneficiano in minor parte delle risorse del primo pilastro ed hanno invece maggiori opportunità di accesso alle risorse del secondo pilastro.

Ancora una volta prevale il primato del liberismo, la vulgata che vorrebbe l'agricoltura orientata verso un'attività eco- socio- compatibile, ossia compatibile sotto un profilo ambientale e sociale, sta sempre più cambiando profilo, per guardare sempre più esclusivamente verso un'attività eco-competibile, ossia capace di sostenere la competizione economica e la concorrenza commerciale su un mercato agricolo globalizzato.

L'idea di sovranità alimentare costituisce la più recente espressione e formalizzazione del percorso politico intorno al diritto alimentare, un concetto introdotto e promosso nel dibattito internazionale grazie al contributo delle organizzazioni aderenti al movimento contadino internazionale la Via Campesina.

Il suo presupposto risiede nel controllo decentrato delle politiche produttive e distributive: essendo inapplicabile un sistema produttivo unico, capace di garantire a tutti e ovunque la disponibilità e l'accesso al cibo, le comunità, devono poter individuare le soluzioni più appropriate sulla base delle proprie necessità, priorità, realtà, culture. Anche per queste ragioni il controllo delle risorse genetiche deve rimanere strettamente nelle mani della collettività ed ogni tentativo di imporre diritti di proprietà monopolistica sulle cosiddette invenzioni che utilizzino essenzialmente materiale biologico deve essere respinto fermamente e categoricamente, affinchè la vita non sia trasformata in merce.

E nostra convinzione che per garantire un rapporto solidale fra nord e sud del mondo, per ricostruire equilibri ”sani” nella società, per assicurare un'alimentazione qualitativamente adeguata e per governare il territorio, sia importante ottenere un riconoscimento sociale del ruolo dell'agricoltore (uomo o donna) nella produzione del cibo e nel mantenimento di comunità rurali attive, attrattive e diversificate, attraverso un lavoro agricolo sostenuto da un'adeguata remunerazione.

Un tale progetto richiede, che la questione delle alleanze fra mondo agricolo, ambientalista, e quello del consumo sia approfondita con la volontà di trovare una chiave di lettura comune, solidale e mutuamente soddisfacente: crediamo che seppur lentamente, ci siano le condizioni per stringere tali alleanze e per restituire centralità ad aspetti cruciali come la tutela ambientale, la qualità degli alimenti e la retribuzione del lavoro contadino.

Per questo ci battiamo affinché non vi sia nessuna coesistenza tra semi OGM e agricoltura biologica o convenzionale, e invece si realizzi il ripristino della moratoria in sede UE sulle colture transgeniche.

Perché vi sia una drastica riduzione invece fino alla totale eliminazione di ogni forma di contributo teso a finanziare le eccedenze di produzioni che con l'effetto del dumping provocano disastri nei paesi poveri.

Perché vengano sostenuti prioritariamente i titolari di aziende che svolgono a tempo pieno l'attività agricola, valorizzando il lavoro bracciantile e destinando quote dei finanziamenti a quelle produzioni di qualità, biologiche, che richiedono maggior manodopera e che operano in territori marginali.

Perché vengano rinegoziate in sede UE le politiche delle quote di produzione, in particolare quelle nel settore del latte, della carne, dei cereali, della bieticoltura .

Perché ci si attivi affinché l'UE si doti di una ricerca alternativa a quella delle multinazionali con progetti legati al territorio, alla valorizzazione del ciclo corto con culture eco-compatibili e con produzioni che salvaguardino i consumatori.

Perché si decida un sostegno all'accesso di prodotti di qualità per tutti attraverso politiche pubbliche di distribuzione e di formazione dei prezzi.

3.3 L'acqua è un bene comune vai a indice

L'acqua deve essere considerata bene comune, diritto di tutti i cittadini.

L'Europa deve ritirare le richieste avanzate dal WTO per la sua commercializzazione e la sua gestione privatistica e liberista.

Al contrario si deve impegnare per vedere riconosciuto il diritto di accesso e la gratuità per almeno 50 litri pro-capite sviluppando forme di cooperazione e di partenariato pubblico pubblico che escludano l'acquisizione di mercato.

La gestione pubblica deve essere partecipata e promuove il governo dell'acqua come fattore di governo del territorio, l'uso razionale e plurimo, la lotta agli sprechi, il riciclaggio, riconvertendo le produzioni agricole e industriali e gli insediamenti in forme che consentono il ripristino e il mantenimento di un corretto ciclo dell'acqua.

3.4 L'energia è un bene comunevai a indice

Per realizzare questo obiettivo è necessario garantire la riduzione consistente dell'utilizzo di combustibili fossili (petrolio, gas, carbone, orimulsion…) e conseguente riduzione dei gas serra andando oltre i limiti di Kyoto (inefficaci quanto disattesi), meno 20-30% entro il 2020, con un orizzonte di meno 70-80% entro il 2050; un piano di uscita certa dal nucleare in tempi sufficientemente brevi, tenendo ben fermo il no a questa fonte di produzione energetica, italiano conquistato con il referendum, accompagnato dalla definizione di un progetto comune fra gli Stati che garantisca il confinamento, di tutte le scorie radioattive, in condizioni di massima sicurezza possibile; l'aumento progressivo e consistente dell'efficienza energetica, dal lato domanda e dal lato offerta, tale da permettere il soddisfacimento dei bisogni energetici con l'impiego delle risorse rinnovabili ad impatto zero (es. solare termico, fotovoltaico e passivo, eolico, biomasse sicure), perseguendo l'obiettivo di limitare l'uso di fonti fossili ad 1 tep/anno medio per persona all'anno (entro il 2050 come definito nel Contratto Mondiale dell'Energia); il sostegno massiccio alla crescita della produzione energetica da fonti rinnovabili pulite, in quantità tale da garantire il raggiungimento degli obiettivi definiti al punto precedente. Occorre inoltre sostenere un forte progetto di solarizzazione del Mediterraneo, tale da renderlo luogo in cui la produzione di energia si trasformi da motivo di terribili guerre ad occasione di collaborazione pacifica fra i popoli che vi si affacciano; la decisione che l'energia venga garantita ad ogni persona in quantità necessaria, per una vita dignitosa, in condizioni di massima efficacia ed efficienza.

La condizione imprescindibile per garantire la realizzazione di una politica energetica ecologicamente e socialmente compatibile, come abbiamo definito nei punti che precedono, è la ridefinizione di un ruolo pubblico preminente, partecipato e sostenuto dalle comunità locali, tale da rendere praticabile un nuovo modello energetico che anziché basarsi sulle grandi concentrazioni produttive venga ridefinito a livello locale in stretto rapporto con il territorio.

3.5 Per un diverso sistema della mobilitàvai a indice

La questione trasporti, soprattutto nel senso delle infrastrutture da costruire, è uno dei temi più dibattuti anche in questi ultimi mesi. Il tema però allude a questioni molto diverse.

In primo luogo le questioni geopolitiche ed ai vantaggi/svantaggi che le scelte possono avere sui singoli stati. In particolare l'entrata dei paesi dell'est prevede la necessità di infrastrutture finalizzate alla loro integrazione. Necessità che deriva anche da una rottura nel sistema dei trasporti prodotta dalla guerra fredda. Questione che sembra interessare spasmodicamente i governanti del nostro paese: il fantomatico corridoio numero 5. Appare altresì evidente che lo sviluppo delle infrastrutture di trasporto verso est è tale da favorire la delocalizzazione. Tale questione, tuttavia, va affrontata anche positivamente e deve vedere integrate e sviluppate, per le merci, la modalità ferroviaria, mentre i nuovi entrati tendono anch'essi alla costruzione di autostrade.

Per quanto riguarda l'Italia e l'equilibrio complessivo dell'Europa, va posta la centralità del Mediterraneo: 500 milioni di abitanti. La questione va connessa inevitabilmente alla pace come presupposto dello sviluppo: Mediterraneo mare di pace. La modalità marittima deve fare un salto di qualità sulla sponda sud dell'Europa: anzi deve diventare per il nostro paese la priorità, anche per decongestionare le vie terrestri (stradale, ma anche ferroviarie). Il trasporto marittimo, inoltre, ha un alto rapporto fra investimento e tasso di occupazione (superiore a quello dell'auto). Si tratta di cantieri navali, lavoro portuali, logistica.

Gran parte del problema infrastrutturale italiano, riguarda in particolare il nesso fra pianura padana ed Europa del nord. I traffici transfrontalieri e nella pianura padana, infatti, in larga parte ovviamente stradali, sono aumentati a dismisura. Progressivamente si va al collasso. Si tratta in questo caso di rilanciare un modifica dei rapporto fra le modalità di trasporto attraverso le Alpi verso la ferrovia. Innanzi tutto utilizzando con opportuni interventi le attuali capacità ferroviarie. Per il futuro si deve tener conto degli enormi progetti ferroviari della Svizzera. Verso ovest si devono potenziare le ferrovie con progetti alternativi al passaggio in Val di Susa.

Andrebbe fatta una valutazione più realistica del possibile raddoppio del Brennero. Sicuramente vanno potenziati i valichi verso l'Austria e la Slovenia. Ma questi progetti devono nascere da un cambiamento radicale del modello di trasporto che deve avvenire innanzi tutto nella pianura padana: passaggio progressivo delle merci, e quindi non alta velocità, dalla gomma alla rotaia, con interconnessioni vere con porti e gli aeroporti, con i distretti industriali, con una selezione radicale delle vere priorità e della loro tipologia, anche in relazione alle effettive disponibilità finanziaria. Si deve altresì potenziare il trasporto persone nelle aree metropolitane ed urbane che è l'altra grande emergenza. Per far questo è necessario rilanciare la programmazione nel senso della predeterminazione modale: scelta dei vettori con i quali si deve trasportare le varie tipologie di merci a secondo delle origini e delle destinazioni.

In secondo luogo, il Ministro Tremonti ha tentato di esportare in Europa, ai tempi del semestre italiano, la costruzione delle infrastrutture come aumento del Pil e dell'economia: “il keynesismo del cemento e dell'asfalto”. Emblema di questa concezione è il Ponte sullo Stretto che però si scontra con la scarsità delle risorse finanziarie, l'opposizione crescente delle popolazione a megaopere dal grande impatto ambientale e dagli scarsi vantaggi per i trasportisti, e la vetustà della concezione. C'è da dire che le scelte europee, spesso ferroviarie, quando scendono in Italia diventano quasi tutte strade ed autostrade. Il privilegio della gomma è evidente.

D'altro canto l'elenco delle opere che si sarebbero dovute realizzare è diventato l'elenco delle promesse. In realtà la realizzazione si è inceppata e ridotta. E in merito all'elenco delle opere europee è ancora in atto un contenzioso su quelle indispensabile da realizzare e finanziare. In questo balletto il Ponte entra ed esce dalla lista. Proprio perché lo scopo dei Tremonti/Lunardi è costruire tanto e costruire in fretta. Allo scopo di fare credere di incrementare il famigerato Pil, si è prodotta la legge obiettivo che elimina qualsiasi “laccio e lacciuolo” di carattere ambientale, democratico (decisioni delle comunità locali), trasportistico (costi benefici), ma anche di qualità progettuale. Non esiste una vera cultura della progettazione.

Va detto, tuttavia, che tale impostazione è purtroppo assai poco contrastata dall'Ulivo, che ha criticato il governo Berlusconi perché incapace di realizzare le opere: le medesime dei governi di centrosinistra.

La realtà ha smentito in fretta la concezione comune ai due poli di un mercato che avrebbe allocato le risorse le scelte con intelligenza sociale ed ambientale. Così non è stato. Quasi ovunque si assiste al calare del trasporto collettivo, mentre per il trasporto merci ormai le ferrovie tendono ad essere marginali anche in altri paesi. I costi sociali, ambientali e sanitari sono enormi. Cinquantamila morti all'anno sulle strade d'Europa: un' ecatombe. L'Italia sfora gli obiettivi di Kyoto oltre il 10%. Non meglio va negli altri paesi.

I risultati delle liberalizzazione e privatizzazioni sono sotto gli occhi di tutti: dalle ferrovie inglesi, al trasporto aereo, al trasporto locale. Ed i famosi “progetti finanziari” affogano nei debiti del Tunnel sotto la Manica, l'Alta Velocità è oggi totalmente pubblica.

La soluzione di questi enormi problemi richiede una grande progettualità politica, una scelta innanzi tutto culturale, una gestione forte da parte di strutture pubbliche: le uniche che possono perseguire finalità sociali ed ambientali. Si tratta di puntare agli obiettivi di riduzione dei costi esterni: inquinamenti, costi sanitari, incidenti, congestione.

Non si può inseguire l'uso della domanda di nuovo trasporto privato su gomma. Il just in time come modello produttivo e sociale scarica i sui costi sulla società e sull'ambiente. Si deve trasportare nel modo giusto nel tempo giusto. I trasporti sono un settore dove c'è il massimo di privato: l'auto. Dove massimo è l'intervento dello stato: finanziamento infrastrutture. Massima è la devastazione ambientale e sociale con un progressivo scivolamento verso il collasso: l'auto ha esaurito la spinta propulsiva, ma come l'Urss continua a produrre ancora per anni i suoi danni: fino al crollo finale.

Il problema non è più ciò che è sostenibile: lo sviluppo, il trasporto. Il problema da affrontare è un'economia, e un trasporto che recuperino, ripristino, i danni enormi che stanno producendo e che chiamiamo: benessere.

Va garantita il diritto di tutti alla mobilità (80 milioni esclusi nell'intera comunità). La sicurezza è una questione di grande rilevanza, soprattutto in un periodo di liberalizzazione. Gli obiettivi di Kyoto si connettono con la riduzione dell'uso di un sistema dei trasporti energivoro e nel contempo inquinante.

Si tratta, anche, di ragionare su di una ripubblicizzazione dei principali vettori di trasporto in un'ottica europea. Per le ferrovie sarebbe più opportuno pensare una grande holding europea per far concorrenza alla strada invece di farsi concorrenza fra loro sugli stessi binari. Nelle città il problema non è privatizzare le aziende ma ripubblicizzare le strade. Per il trasporto aereo sono necessarie regole nuove che garantiscano sicurezza e non voli a basso costo e bassa sicurezza progressiva del sistema. Così potrebbe essere possibile sperimentare una holding fra Alitalia, Air France e Klm con una presenza e un ruolo degli stati presenti in queste compagnie.

È dunque necessario rivedere tutta l'impostazione ideologica e concettuale dell'Europa di Mastricht per quanto riguarda i trasporti. È necessario rivedere tutte le direttive che vanno verso la liberalizzazione.

Qualità del trasporto e qualità del lavoro, sicurezza del lavoro e sicurezza sul lavoro sono facce della stessa medaglia.

Dal trasporto locale, a quello ferroviario, dal trasporto aereo a quello marittimo, i lavoratori sono stati protagonisti in tutta Europa di grandissime lotte. Non possiamo non ricordare la recente vittoriosa lotta dei portuali europei contro la liberalizzazione del lavoro nei porti. Lotta vittoriosa cui, purtroppo, al solito non hanno partecipato i sindacati confederali nostrani.

Lotta vittoriosa che apre nuove prospettive anche per i portuali italiani.

Al fine di recepire il senso e la domanda che viene da queste lotte, le modifiche delle direttive deve prevedere la tutela del lavoro: stabilità, diritti, sicurezza, salario, orari, democrazia. E un nuovo sindacalismo di classe a livello europeo verso il quale abbiamo fatto qualche timido passo in avanti.

La questione della mobilità urbana e sul territorio è una grande questione irrisolta della modernità, uno degli indicatori più evidenti del fallimento clamoroso del modello di sviluppo capitalistico. La sua soluzione richiede una nuova concezione dei tempi della vita e del lavoro, del valore delle relazioni sociali e comunicazionali, delle finalità e dell'oggetto delle produzioni, delle necessità e delle opzioni individuali e collettive negli spostamenti, e quindi una grande capacità di conoscenza della società, di rispetto dei suoi bisogni, di articolazione e di integrazione del sistema generale dei trasporti, e quindi di un forte e prevalente intervento pubblico nel settore, a livello dei singoli paesi e nel contesto europeo.

PARTE QUARTA. IN DIFESA DELLO STATO SOCIALE

4.1 Difendere e ampliare lo stato sociale europeovai a indice

Il lavoro, lo stato sociale e le modalità qualitative e quantitative della crescita economica e sociale sono questioni intrinsecamente connesse.

La inscindibilità di questi legami è resa ancora più evidente dall'esperienza degli ultimi decenni. Durante questi anni caratterizzati dallo sviluppo dei processi di globalizzazione, il neoliberismo ha riproposto con forza la tradizionale posizione secondo cui il lavoro è una merce come le altre che viene scambiata sul mercato il quale, a sua volta, viene riproposto come un organismo naturalmente in grado di perseguire l'efficienza economica e il benessere sociale senza interferenze da parte di istituzioni della collettività - anzi, a condizione che esse non ci siano.

La spinta a contenere lo stato sociale si inserisce significativamente nel più generale movimento in atto di riorganizzazione dei sistemi produttivi e nel tentativo di marginalizzazione economica, culturale e politica del lavoro, dei lavoratori e delle loro rappresentanze politiche e sindacali.

La diffusione a livello di senso comune delle posizioni neoliberiste e la crisi d'identità della sinistra hanno fatto si che anche in ambienti progressisti si sia affermata la convinzione secondo cui la globalizzazione dei mercati, stimolando la concorrenza al ribasso della pressione impositiva esercitata dai sistemi fiscali nazionali, renderebbe più difficile il finanziamento dei sistemi di welfare, i quali, gravando sui costi di produzione, comunque ridurrebbero la competitività delle imprese sui mercati internazionali.

I processi di globalizzazione, con i loro effetti sul mercato del lavoro e sull'organizzazione dei processi produttivi, oltre a stimolare i forti peggioramenti distributivi che si sono verificati negli ultimi decenni - sia tra Nord e Sud del mondo, sia all'interno di ciascun paese - renderebbero impraticabile l'azione redistributiva delle istituzioni pubbliche. Questo duplice risultato, anche da parte di coloro che lo valutano con comprensibile preoccupazione, a volte viene considerato difficilmente evitabile e, magari, capace di tradursi, nel medio-lungo periodo - in un esito finale positivo per l'efficienza economica.

Per i più convinti sostenitori della tradizionale posizione liberista, secondo cui l'agire del mercato andrebbe liberato dai lacci e lacciuoli dell'intervento pubblico, la loro visione troverebbe un'ulteriore e definitiva conferma nella globalizzazione intesa come la prova di fatto dell'affermazione dei mercati che sono riusciti a divincolarsi dalle istituzioni politiche. Questa affermazione sarebbe avvalorata dal contestuale declino e crollo dell'esperienza sovietica caratterizzata dal forte ruolo economico dello stato.

Nonostante il contesto storico di quasi monopolio ideologico in cui sono maturate, le applicazioni delle politiche d'ispirazione neoliberista volte a contenere il ruolo pubblico e a sostituirne le funzioni con attività di mercato, hanno tuttavia confermato i precedenti e consolidati risultati dell'analisi economica in materia dei fallimenti del mercato cui hanno dato contributi sostanziali le stesse correnti di pensiero liberale più avanzate. Queste conoscenze, tuttavia, sono state trascurate non solo dal neoliberismo più estremo, ma - spesso - anche dai nuovi ammiratori del mercato di estrazione progressista Più in generale, la supremazia del neoliberismo e la crisi d'identità della sinistra, hanno favorito l'affermazione di scelte economico-sociali che, pur relegando il lavoro e i lavoratori in una situazione subalterna, si sono rivelate perdenti sul piano dell'efficienza economica.

Negli ultimi anni, oltre alla generalità degli indicatori sociali, sono peggiorati anche quelli più tradizionalmente rappresentativi delle performance economiche: i tassi di crescita sono drasticamente diminuiti; la disoccupazione è aumentata; le crisi finanziarie ed economiche sono diventate più frequenti e profonde; i fallimenti di grandi imprese e gruppi economico-finanziario hanno assunto carattere patologico; l'instabilità economica e sociale è pericolosamente cresciuta; le privatizzazioni indiscriminate si sono spesso risolte nella trasformazione di monopoli pubblici in monopoli privati con conseguenze contrarie non solo all'equità, ma anche all'efficienza economica e alla stabilità dei prezzi.

La diffusione delle posizioni più estreme del liberismo e la loro interpretazione della globalizzazione intesa come affermazione storica della superiorità del mercato hanno alterato i precedenti equilibri tra stato e mercato che avevano accompagnato lo sviluppo del secondo dopoguerra; uno sviluppo, quest'ultimo, certamente accompagnato da squilibri e contraddizioni che, tuttavia, sono stati pericolosamente ampliati dalle politiche neoliberiste.

La crescita a livello sovranazionale della sfera d'azione dei mercati ha creato una asimmetria di potere rispetto alle istituzioni pubbliche la cui influenza è rimasta pressoché limitata nell'ambito dei territori nazionali; la contemporanea contrazione dei poteri statali in campo economico determinata dalle politiche neoliberiste ha ulteriormente accresciuto il divario di ruoli tra stato e mercato; tuttavia gli effetti sia economici che sociali di questo cambio d'assetto istituzionale si sono rivelati peggiorativi rispetto alla situazione precedente.

Le applicazioni della visione liberista, oltre a determinare i peggioramenti segnalati dalle statistiche economiche e sociali, ha pure accentuato la difficoltà degli operatori privati di far convivere la ricerca del profitto con il rispetto delle regole minime necessarie al funzionamento di qualsiasi forma di economia. Il caso Enron e la nutrita serie di scandali economici deflagrati anche nel nostro paese sono emblematici non solo degli effetti devastanti dell'accresciuta incertezza dei mercati finanziari, ma anche e soprattutto della difficoltà di garantire la trasparenza e l'eguaglianza concreta dei diritti nei rapporti economici che pure sono alla base di qualsiasi contratto sociale e della stessa impostazione liberale.

4.2 Le logiche di mercato contro lo stato socialevai a indice

Nell'ambito del generale ripensamento di identità e funzioni imposto alla sinistra dall'attuale fase di transizione storica - originata in connessione alla crisi dell'esperienza sovietica, ai processi di globalizzazione e al rivoluzionamento organizzativo e tecnologico dei sistemi produttivi - la difesa, l'aggiornamento e lo sviluppo dei valori e delle funzioni dello stato sociale costituiscono un terreno di confronto centrale.

Lo stato sociale, pur nella diversità dei modelli che storicamente si sono affermati e delle dimensioni assunte dalle sue istituzioni nelle varie esperienze nazionali, rappresenta un elemento fondante dello sviluppo economico e sociale dei paesi occidentali nell'ultimo secolo.

La diffusione dello stato sociale non è stata, principalmente, la conseguenza della ricchezza progressivamente generata e accumulata dallo sviluppo capitalistico; né le istituzioni del welfare possono essere considerate un lusso da ridimensionare nei momenti di crisi economica. Queste istituzioni, invece, hanno contribuito in modo significativo al miglioramento delle condizioni economiche e sociali del Novecento e i loro contributi allo sviluppo non sono sempre riconducibili alla visione capitalistica.

La significativa presenza delle istituzioni del welfare state nelle società capitalistiche avanzate (dove assorbono da un quarto a un terzo del Pil) è la prova che esigenze sociali e produttive di primaria importanza per lo sviluppo economico e sociale possono e sono assicurate in modo più efficace e conveniente al di fuori del mercato e della logica del profitto, con criteri produttivi e distributivi di tipo sociale e non individualistico.

Lo stato sociale moderno nasce da una pluralità di esigenze e interessi produttivi, economici, sociali e politici anche tra loro contraddittori. I contributi alla realizzazione dei diversi modelli di welfare provengono da molteplici visioni politico-culturali.

In quest'ambito eterogeneo di motivazioni e visioni che storicamente si sono affermate, primeggiano quelle della stabilità dei redditi e del miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori, e quelle della coesione sociale.

Non è casuale dunque che alle conquiste dello stato sociale abbiano fortemente contribuito le organizzazioni dei lavoratori e i movimenti politico-culturali più progressisti.

Parimenti non è sorprendente che lo sviluppo qualitativo e quantitativo del welfare state, che continuava ininterrottamente dall'Ottocento, si sia arrestato negli anni ottanta del Novecento, in coincidenza con la riaffermazione del liberismo nelle sue posizioni più integralistiche e con la crisi d'identità della sinistra.

Tuttavia, l'esame ex post degli esiti delle riforme dello stato sociale fatte o anche solo tentate nella generalità dei paesi occidentali nel corso degli ultimi due decenni ha confermato le difficoltà congenite che in molte circostanze rendono difficile o impossibile al mercato fornire in modo efficace ed efficiente importanti beni e servizi; la loro intrinseca natura sociale e le loro specifiche caratteristiche produttive vanificano le possibilità di approcci fondati sulla logica individuale del profitto.

L'esperienza più avanzata dei voucher, quella avviata negli USA nel corso degli anni '90, era stata giustificata dall'obiettivo di consentire un maggiore accesso dei poveri alle scuole private e per favorire la concorrenza nell'istruzione. La specificità del bene istruzione si è invece confermata di ostacolo alle possibilità di migliorarne la diffusione puntando sulla concorrenza di mercato. Contrariamente agli obiettivi, l'uso dei voucher ha avuto effetti peggiorativi sulla qualità della scuola pubblica e ha reso più difficile il suo fondamentale ruolo d'integrazione tra ragazzi provenienti da ceti, culture e religioni differenti. E' aumentata la rendita di posizione delle scuole private già esistenti e si è ridotta la coesione sociale.

Sempre negli USA, i tentativi verso il welfare to work di ridurre l'accesso ai sussidi di disoccupazione, ritenendo che in tal modo sarebbero aumentati gli stimoli per i disoccupati a trovare occupazione, hanno avuto un apparente effetto positivo fin quando la congiuntura economica era in fase espansiva (per motivi del tutto indipendenti da quelle misure); quando però il ciclo economico si è invertito e la disoccupazione è aumentata, le ridotte possibilità di usufruire dei sussidi di disoccupazione hanno semplicemente ridotto la capacità dell'intervento pubblico di contenere gli effetti economici e sociali dell'accresciuta povertà.

Ancora negli USA, il progetto dell'Amministrazione Clinton di riformare la sanità era motivato dalla preoccupata constatazione che l'ampio ricorso al mercato provocava un forte aumento della spesa in rapporto al Pil (quasi il doppio che in Europa), una copertura limitata (45 milioni di cittadini americani sono troppo poveri per permettersi assicurazioni sanitarie private e troppo ricchi per poter accedere alla sanità pubblica) e una distribuzione molto sperequata delle prestazioni. Il fallimento di quel tentativo determinato dalla forte reazione degli interessi privati radicati nel settore conferma la difficoltà di fuoriuscire da modelli di mercato anche quando sono palesemente inefficienti.

La diffusione della previdenza a capitalizzazione ha confermato i limiti di efficienza e di efficacia del mercato nel compito di assicurare una adeguata continuità di reddito ai lavoratori negli anni della vecchiaia. I rendimenti forniti dai fondi pensione privati hanno risentito della variabilità dei mercati finanziari che, tuttavia, costituisce una loro caratteristica strutturale accentuata proprio dai processi di globalizzazione. Nel triennio 2000-2002 la perdita di valore delle attività patrimoniali dei fondi pensione a livello mondiale è stato di circa il 20%. Nel solo 2002, la distruzione di risparmio è stato pari 1400 miliardi di dollari.

I processi di transizione dai sistemi pubblici a ripartizione a quelli privati a capitalizzazione implicano la necessità di nuove risorse finanziarie che o vengono ricercate nei bilanci pubblici -peggiorandone gli equilibri - o spingono alla riduzione dei consumi, aggravando la carenza di domanda che è alla base della prolungata fase di stagnazione delle economie europee.

4.3 Aspetti dell'applicazione in Italia delle posizioni neoliberistevai a indice

Le applicazioni delle politiche neoliberiste e i risultati cui hanno dato luogo sono stati influenzati dalle specificità economiche, sociali e politiche nazionali. Ci sembra quindi impossibile affrontare il tema dello stato sociale, a meno di non restare nella genericità, senza fare riferimento alla condizione concreta del nostro paese, fornendo elementi di analisi e linee di proposte alternative.

Indubbiamente la crisi economica e sociale che sta attraversando il nostro paese si iscrive in una problematica fase di transizione storica di dimensioni più complessive.

Tuttavia, anche limitandoci ai principali aspetti economici, il confronto internazionale segnala per Italia specificità preoccupanti: il ritmo della crescita del Pil più basso convive con tassi d'inflazione che, in termini relativi, sono sensibilmente più elevati; i tassi di attività sono minori e la disoccupazione è maggiore; le nostre imprese, sia per le ridotte dimensioni, sia per la scarsa propensione agli investimenti e all'innovazione, sono sempre più emarginate dai settori maggiormente dinamici e redditizi; il sistema creditizio non supporta adeguatamente il sistema produttivo, specialmente le piccole imprese che pure sono molto diffuse; l'inefficiente organizzazione della distribuzione commerciale favorisce la lievitazione dei prezzi; gli istituti di controllo della governance delle imprese - produttive e finanziarie - stanno rivelando limiti strutturali; la competitività si va riducendo, con inevitabili effetti negativi sulla bilancia dei pagamenti; il Meridione persiste nella sua storica condizione di arretratezza relativa.

Nei passati decenni, i limiti strutturali della nostra economia sono stati parzialmente compensati dal dinamismo di alcuni settori e di alcune imprese e dalla combinazione di maggiori tassi d'inflazione con la svalutazione ricorrente del tasso di cambio. Alle imprese, l'aumento dei prezzi consentiva di migliorare le proprie quote distributive a scapito dei salari, mentre il deprezzamento periodico della nostra valuta permetteva di recuperare la concorrenzialità di prezzo sui mercati internazionali.

Non era un modello che poteva durare a lungo; in ogni caso, l'adozione della moneta unica europea ha fatto venir meno la valvola di sfogo costituita dall'uso del tasso di cambio. Pur tuttavia, nella mentalità di molti imprenditori e responsabili economici è rimasta l'abitudine di perseguire la concorrenzialità principalmente sul piano dei prezzi e non su quello della qualità; ma in mancanza di svalutazioni competitive, la carenza d'investimenti in processi e prodotti innovativi è stata e continua ad essere compensata nell'unico modo che rimane, cioè cercando di ridurre i costi, in particolare, quelli salariali.

In aggiunta alla carenza degli investimenti privati, l'accresciuta incertezza dei redditi da lavoro, la redistribuzione operata a danno dei salari e la necessità di rientrare dal forte debito pubblico accumulato negli anni 70-80 - resa più impellente dal rispetto obbligato dei parametri di Maastricht - hanno ridotto anche la domanda interna per consumi e gli investimenti pubblici, accentuando fino alla recessione le condizioni di stagnazione economica che si sono affermate nell'economia europea.

Nel nostro paese l'applicazione delle politiche neoliberiste è stata aggravata dai limiti strutturali del nostro sistema produttivo e dalla presenza di un classe imprenditoriale e di una maggioranza politica incapaci di innovare il sistema produttivo e di mantenerlo nella fascia alta della divisione internazionale del lavoro.

Le politiche di riduzione del WS e le politiche del lavoro di questo governo si fondono in una più complessiva politica economica che sta accelerando il nostro declino economico e peggiorando gli equilibri sociali.

Nel corso del Novecento, in particolare nel secondo dopoguerra, a seguito delle lotte condotte dalle organizzazioni operaie e dalle forze progressiste, anche nel nostro paese si era affermata una legislazione che regolamentava l'uso della forza lavoro (orari, modalità di assunzione e licenziamento, ecc…), che dava luogo a formulazioni prescrittive utilizzabili come diritti individuali dal lavoratore o come diritti collettivi utilizzabili dalle organizzazioni sindacali.

Con i provvedimenti legislativi approvati dal governo Berlusconi si è sviluppata una linea radicalmente diversa, peraltro già precedentemente avviata; essa privilegia non i diritti dei lavoratori a protezione della loro situazione di strutturale debolezza individuale nel rapporto con la controparte padronale, ma norme regolative della prestazione e del mercato del lavoro che prevedono il rapporto individuale e/o la contrattazione sindacale in peius oppure di tipo puramente applicativo od adattativo.

Esempi di questo tipo di legislazione sono le nuove normative in tema di orari, di part-time e di lavoro a termine.

Nel nostro paese, è in corso un processo di accentuata sottomissione del lavoro alle esigenze dell'impresa; esso è supportato da una interpretazione dei processi di globalizzazione dei mercati e delle produzioni particolarmente rozza condizionata dagli interessi delle componenti più arretrate della struttura economica ed industriale e dalla diffusa ritrosia presente nella nostra classe imprenditoriale verso l'innovazione e i miglioramenti qualitativi dei prodotti e dei processi produttivi. Non è casuale, dunque, che le misure di politica economica ed industriale abbiano previlegiato particolarmente il contenimento del costo del lavoro.

L'applicazione di queste politiche ha spinto alla compressione delle retribuzioni dirette, alla riduzione delle prestazioni dello stato sociale e ad una controriforma fiscale che, riducendo la progressività, limita ulteriormente la partecipazione delle classe lavoratrici alla distribuzione del prodotto nazionale e rende ancora più iniqua la distribuzione del reddito. E' nell'ambito del perseguimento di queste politiche che trova il suo maggiore elemento di coerenza l'accentuata flessibilizzazione delle prestazioni lavorative; essa, infatti, è andata ben oltre le esigenze dei processi lavorativi, avendo come obiettivo principale l'abbassamento del costo del lavoro.

La “legge 30” opera una rottura del precedente compromesso realizzato nella distribuzione tra lavoratori e imprese dei costi connessi all'andamento dei cicli economici e produttivi. Gli effetti negativi per i lavoratori emergono con particolare evidenza nell'attuale prolungata fase di basso sviluppo e di turbolenza accentuata dei mercati.

L'introduzione massiccia di forme di lavoro precario e/o strutturalmente dipendente dagli andamenti economici aziendali anche di breve periodo, quali ad esempio il lavoro a chiamata, risponde a diverse esigenze; non solo di aumentare il controllo e la disciplina dei lavoratori e di rendere l'occupazione una variabile dipendente dagli andamenti dei mercati ma, soprattutto, di scaricare i costi dell'instabilità dei mercati sui lavoratori, eliminando le garanzie connaturate al rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

4.4 Lo stato sociale in Italiavai a indice

Lo stato sociale italiano presenta specificità anche preoccupanti che, tuttavia, sono ben diverse dalle cosiddette anomalie che strumentalmente gli vengono attribuite.

Nel 1990, la complessiva spesa sociale, rapportata al Pil, del nostro paese era inferiore di soli 0,4 punti rispetto alla media europea (23,7% contro 24.1%); gli ultimi dati Eurostat disponibili, riferiti al 2000, segnalano che il divario negativo è cresciuto fino a circa due punti (24,3% contro 26,2%). Rispetto al valore massimo (25,2%) raggiunto nel 1993, il nostro dato più recente mostra un calo di circa un punto.

Nella media dei paesi europei, le principali voci di spesa sociale sono i trattamenti per invalidità vecchiaia e superstiti (14,3% del Pil) e la sanità (7,2%); lo stesso accade in Italia, ma con valori apparentemente diversi (rispettivamente 16,8% e 6,1%). La superiorità di 2,5 punti delle prestazioni pensionistiche italiane, come appare da questi dati, è alla base dell'interpretazione che attribuisce al sistema pensionistico del nostro paese la criticata anomalia.

In realtà, le statistiche Eurostat soffrono di alcune disomogeneità che alterano i confronti tra paesi. In particolare nella spesa pensionistica italiana sono indebitamente inseriti i trasferimenti di fine rapporto che incidono per 1,3 punti.

Inoltre tutte le voci di spesa sono al lordo del prelievo fiscale che, tuttavia, è molto diverso da paese a paese. Ad esempio, mentre in Germania le prestazioni pensionistiche non subiscono ritenute fiscali (dunque non c'è differenza tra spesa lorda e spesa netta), in Italia le trattenute fiscali sono pari a circa due punti di Pil, mentre nella generalità degli altri paesi sono molto più contenute. A differenza che in Italia, negli altri paesi europei consistenti contributi pubblici alle pensioni derivano da esenzioni fiscali che, in quanto tali, non vengono registrate in nessuna voce di spesa. Per sostenere il reddito dei lavoratori ultracinquantenni espulsi precocemente dal mondo del lavoro, mentre in Italia si fa ampio ricorso ai prepensionamenti, in altri paesi si utilizzano strumenti d'intervento i cui oneri non vengono contabilizzati tra quelli pensionistici.

Tenendo conto di queste difformità, la spesa pensionistica italiana risulta inferiore alla media europea. La complessiva spesa sociale risulta invece ancora più bassa, dando luogo, in questo caso davvero, ad una preoccupante anomalia.

Il sensibile divario negativo della nostra spesa sociale complessiva contribuisce a spiegare le difficoltà incontrate dal nostro sistema di welfare nel perseguire sia gli obiettivi di migliorare la distribuzione del reddito e di garantire sicurezza e solidarietà sociale, sia di offrire un adeguato supporto allo sviluppo economico.

Come si è visto, nel nostro paese, la diffusione della ricetta neoliberista che per aumentare l'occupazione e la crescita economica sia necessario contenere gli oneri salariali, ovvero, che la spesa sociale costituirebbe un onere per le imprese e ne ridurrebbe la competitività - è stata favorita proprio dall'accennata difficoltà di gran parte delle nostre imprese di perseguire la competitività anche sul piano della qualità e non solo su quello dei prezzi. Ma anche con riferimento agli effetti esercitati sulla competitività di prezzo, il nostro sistema di welfare non mostra particolarità negative.

Le modalità di finanziamento dei sistemi di welfare state e la struttura del costo del lavoro possono avere implicazioni per la competitività del sistema produttivo; ma i nessi, tuttavia, non sono né univoci, né scontati. Il prevalere della visione liberista ha innescato in Europa, nel corso degli anni '90, una tendenza alla diminuzione dei contributi sociali a carico delle imprese. In Italia, la quota del finanziamento contributivo del welfare state si è consistentemente abbassata (dal 70,3% al 58%), diventando inferiore alla media europea (60,6); in termini di Pil, l'onere contributivo si è ridotto di 2,2 punti percentuali.

Se oltre agli oneri contributivi si considerano anche quelli della fiscalità generale che gravano sui redditi dei lavoratori e delle imprese, emerge che il cosiddetto cuneo fiscale nel nostro paese è più basso che in Germania e in Francia.

Un valore più basso del cuneo si ha in Gran Bretagna dove però i lavoratori, pur disponendo di una busta paga proporzionalmente più elevata in rapporto al costo del lavoro, devono attingere ad essa per acquisire privatisticamente le prestazioni sociali che i loro colleghi continentali ricevono gratuitamente dallo stato sociale.

Per quanto riguarda il costo del lavoro per unità di prodotto (il clup) che influenza la competitività di prezzo, l'Italia è posizionata al fondo della classifica europea.

Dunque, dalla valutazione comparata in ambito europeo dei collegamenti tra finanziamento del welfare state e costo del lavoro, non emergono specificità negative del nostro paese.

Problemi seri di competitività per il nostro sistema produttivo derivano invece dai limiti strutturali delle sue caratteristiche qualitative e tecnologiche resi più evidenti dai processi di globalizzazione. Per superare queste carenze sono necessarie efficaci politiche in investimenti innovativi che, tuttavia, implicano dei presupposti quali, ad esempio, la presenza: di idonei livelli di istruzione di base, di formazione e di aggiornamento professionale; di ammortizzatori e reti di sicurezza economicosociale capaci di compensare i rischi delle imprese e dei lavoratori, individuali e collettivi strettamente connessi a qualsiasi iniziativa innovativa Le politiche per il welfare vanno dunque sottratte ai criteri economici e politici maturati con l'affermazione nel nostro paese del neoliberismo; tale affermazione è un esito non casuale, ma confacente sia alla specificità e ai limiti del nostro sistema produttivo, sia al prevalere - anche a livello elettorale - di una sintesi politica populista e conservatrice tra interessi forti e la fragilità civile dei tempi; i problemi d'identità programmatica e di rappresentanza politica della sinistra hanno facilitato quell'esito.

4.5 Aspetti settoriali del nostro stato socialevai a indice

4.5.1 La previdenzavai a indice

Si è già mostrato che, operando confronti statisticamente omogenei, la spesa pensionistica italiana non risulta affatto anomala, ma - rapportata al Pil - è inferiore alla media europea.

I molteplici interventi strutturali operati nel corso degli anni '90 hanno bloccato e invertito la precedente tendenza a crescere della spesa pensionistica che aveva raggiunto l'incidenza massima sul Pil nel 1997 (13,9%) per poi attestarsi al 13,5% nel 2000 e nel 2001. Nel 2001, alcuni interventi del governo in carica e la bassa crescita del Pil hanno fatto risalire la spesa pensionistica al 13,8%.

La verifica governativa sugli effetti finanziari delle riforme operate negli anni '90 ha stabilito che i risparmi di spesa ottenuti sono superiori a quelli previsti: del 10% (pari a 2,87 miliardi di €) per il periodo 1996-2000 e del 17% (7,92 miliardi di €) nel periodo 2001-2005.

Il saldo tra le prestazioni pensionistiche previdenziali e i corrispondenti contributi sociali è negativo per una somma pari a circa lo 0,9% del Pil. Ma tenendo conto delle trattenute Irpef operate sulle pensioni, per il bilancio pubblico le uscite effettive sono inferiori alle entrate per una somma pari a circa 1,1 punti di Pil.

Dunque il bilancio pubblico ricava benefici e non oneri dal funzionamento del sistema pensionistico pubblico.

Prima delle riforme degli anni '90, le previsioni per il prossimo mezzo secolo segnalavano che il rapporto tra spesa pensionistica e Pil sarebbe salito fino al 23%.

Dopo le riforme, nella proiezione della Ragioneria Generale dello Stato che segnala la cosiddetta “gobba”, il valore massimo previsto è di circa il 16%. Dallo studio comparativo effettuato dal Comitato per la Politica economica della Commissione europea, quell'aumento previsto per l'Italia è pari solo ai due terzi di quello previsto per la media dei paesi dell'Unione. Dunque, pur adottando la proiezione di spesa che prevede la “gobba, la dinamica italiana non è in alcun modo fuori controllo ed anzi risulta la più contenuta in Europa. Tuttavia, è ragionevole ipotizzare anche andamenti finanziariamente meno pessimistici del rapporto tra spesa pensionistica e Pil. Infatti vanno considerati gli effetti di decisioni già prese per spingere in quella direzione.

La riduzione del grado di copertura pensionistica derivante dal progressivo dispiegarsi degli effetti delle riforme degli anni '90 e il contemporaneo stimolo esercitato dal sistema contributivo a ritardare l'età di pensionamento, tenderanno a modificare il profilo temporale della spesa pensionistica. D'altra parte, con l'espansione delle nuove figure di lavoratori “atipici”, il valore medio delle pensioni sarà più basso. Tenendo conto di queste circostanze, l'ampiezza della “gobba” si dimezzerebbe.

La considerazione aggiuntiva di un aumento della crescita media annua del Pil nel prossimo mezzo secolo che sia non dell'1,5% (ipotesi adotta nella proiezione con la “gobba”) ma del 2% (come ipotizzato nel Consiglio di Lisbona dalla Commissione europea), eliminerebbe del tutto la crescita prevista del rapporto tra spesa pensionistica e Pil; la sua dinamica sarebbe tendenzialmente negativa.

Un sistema pensionistico, oltre che per la sua sostenibilità finanziaria deve essere valutato anche per la capacità di corrispondere alla sua ragion d'essere, cioè di fornire un'adeguata copertura di reddito ai lavoratori nella vecchiaia.

Prima delle riforme degli anni '90, indipendentemente dall'età, un lavoratore dipendente con 35 anni di anzianità contributiva maturava una pensione pari al 67% o al 77% dell'ultima retribuzione, rispettivamente se impiegato nel settore privato o in quello pubblico. Nel sistema contributivo a regime, tenendo conto del previsto adeguamento del metodo di calcolo all'aumento atteso della vita media, un lavoratore dipendente (indifferentemente se impiegato nel settore pubblico o nel privato) che andrà in pensione con 35 anni di contributi a 60 anni di età avrà una pensione pari al 48,5% dell'ultima retribuzione.

Nell'ipotesi massima di 40 anni d'anzianità e 65 anni d'età, il tasso di sostituzione salirà al 64%. Per un lavoratore parasubordinato, nelle due combinazioni di pensionamento prima esemplificate, il tasso di sostituzione sarà, rispettivamente, di quasi il 30% e il 39%. L'eliminazione dell'indicizzazione delle pensioni all'andamento reale delle retribuzioni introdotta nel 1992 fa sì che la distanza tra il reddito di un pensionato e quello medio dei lavoratori aumenta progressivamente nel periodo di pensionamento. Immaginando un aumento medio annuo delle retribuzioni pari al 2%, il valore di una pensione che fosse inizialmente pari al 60% della retribuzione media dei dipendenti, dopo venti anni sarebbe pari al 41%. Qualunque sia lo scenario previsivo adottato per le proiezioni del rapporto tra spesa pensionistica e Pil, in ogni caso il valore relativo delle pensioni rispetto a tutti gli altri redditi diminuisce drasticamente.

Nei progetti del governo, la riduzione della copertura pensionistica fornita dal sistema pubblico a ripartizione - sia quella già decisa con le riforme degli anni '90, sia quella ulteriore derivante dai nuovi disegni d'intervento - dovrebbe essere compensata dallo sviluppo ulteriore della previdenza privata a capitalizzazione.

Considerando, da un lato, l'ulteriore riduzione del 17% dei tassi di sostituzione che deriverebbe dal trasferimento sulle prestazioni della decontribuzione degli oneri pensionistici e, d'altro lato, il trasferimento dell'intero flusso del TFR ai fondi pensione, nei programmi del governo il ruolo della previdenza privata a capitalizzazione non è integrativo, ma sostitutivo del sistema pubblico a ripartizione.

Una tale riforma non solo altererebbe significativamente la funzionalità del sistema pensionistico, ma costituirebbe un tassello centrale del complessivo disegno di politica economica finalizzato a ridurre gli oneri salariali per migliorare la competitività di prezzo.

Circa il primo aspetto, la consistente sostituzione della previdenza pubblica a ripartizione con quella a capitalizzazione farebbe aumentare i costi di gestione e trasferirebbe anche sui redditi da pensione la accresciuta instabilità dei mercati finanziari mondiali.

Negli USA nel periodo 1981-2000 il rendimento dei fondi pensione ha superato il tasso di crescita del Pil; ma dopo il 1995 l'esito del confronto si è invertito e negli ultimi anni i rendimenti dei fondi sono diventati fortemente negativi In Italia, nel biennio 2001-02, i fondi pensione di categoria hanno subito perdite del 3,9% mentre i fondi pensione aperti hanno subito perdite del 18%; nello stesso periodo il TFR ha reso il 6,8%.

Rimandando al paragrafo successivo considerazioni più estese di politica economica, va qui considerato che, a causa del numero strutturalmente scarso di nostre imprese quotate in Borsa, già oggi, le risorse relativamente esigue gestite dai fondi pensione di nuova istituzione (circa 4,5 miliardi di euro) vengono impiegate solo per il 3,6% in titoli azionari di imprese nazionali. Con il trasferimento del Tfr ai fondi pensioni privati, questi ultimi gestiranno risorse finanziarie che in sette anni arriveranno ad essere pari a circa 100 miliardi di euro.

Lo sviluppo che si prospetta per i fondi pensione sottrarrà alla attuale disponibilità dei lavoratori e delle imprese il salario differito accantonato per il Tfr e, per una quota superiore a quella attuale, lo trasferirà all'estero dove finanzierà sistemi produttivi a noi concorrenti.

4.5.2 La sanitàvai a indice

Nel settore della sanità, l'Italia si è caratterizzata per una crescita particolarmente elevata della spesa privata che, caso unico in Europa, ha più che compensato la riduzione della spesa pubblica. Quest'ultima, quando nel 1978 fu creato il Sistema sanitario nazionale, era di poco inferiore al 5% del Pil; da allora la quota crebbe fino al suo valore massimo del 6,5% raggiunto nel 1991 per poi diminuire fino al 5,2% nel 1995; con l'inizio dell'attuale decennio è risalita al 6,3% del 2002, ma per effetto più della bassa dinamica del Pil che dell'aumento della spesa. Il divario negativo rispetto alla media europea è aumentato.

La spesa sanitaria privata è invece cresciuta dal 22% al 33% di quella complessiva, fino a diventare, in rapporto al Pil, la più elevata in Europa, tranne che rispetto alla Grecia la quale però registra la spesa sanitaria pubblica più bassa.

Nella classifica del rapporto tra spesa sanitaria pubblica e spesa sanitaria privata, l'Italia è al terzultimo posto, sopra la Grecia e quasi appaiata al Portogallo, su valori molto distanti da quelli dei paesi del Centro e Nord Europa.

Così come è avvenuto in tutti i paesi interessati dalle stesse tendenze, ma in Italia ancor più, il contenimento della spesa sanitaria pubblica, unito alla diffusione di esperienze di federalismo sanitario, non solo ha stimolato l'aumento della spesa sanitaria privata, ma inevitabilmente ha accresciuto le disuguaglianze nella distribuzione delle prestazioni.

Nel nostro paese, la mortalità per tutte le cause diminuisce sensibilmente tra i soggetti più istruiti e con maggior reddito; il grado di accesso a cure specialistiche è minore per i pazienti con minore istruzione e nelle regioni meridionali; nel Sud l'attesa di vita media è inferiore a quella nazionale; nel Meridione, anche per l'età media più bassa ci si ammala di meno, ma, rispetto al Centro-Nord quando ci si ammala, ad esempio, per disfunzioni cardio-circolatorie o per tumori, si muore in proporzione maggiore.

In settori come le cure dentarie e l'assistenza ai non autosufficienti, le gravi carenze del sistema pubblico non trovano compensazione adeguata nelle assicurazioni privati; nell'insieme emerge una significativa discriminazione dell'accesso alle prestazioni in base al reddito.

4.5.3 L'assistenzavai a indice

La spesa per l'assistenza, comprendendo anche la componente assistenziale presente nelle prestazioni previdenziali, è pari a circa il 4% del Pil, un valore nettamente inferiore alla media europea. La inadeguatezza di questa spesa riguarda anche la sua qualità per via della scarsa presenza di interventi di natura universalistica. Più della metà della spesa è infatti erogata ad integrazione di interventi di natura previdenziale cioè a beneficio di specifiche categorie e non ai bisognosi in quanto tali.

Le carenze del nostro sistema assistenziale sono rese particolarmente evidenti dalla crescente diffusione nel nostro paese del fenomeno della povertà che è prevalentemente giovanile, femminile e concentrata nel Meridione. Inoltre, i provvedimenti di cosiddetta armonizzazione dei trattamenti assistenziali hanno soppresso molte misure a sostegno del reddito, sia pur derivavanti da interventi categoriali e assistenziali, di cui beneficiavano prevalentemente le donne anziane (per esempio la pensione sociale, o la possibilità di cumulo tra pensione sociale e pensione di reversibilità) senza però introdurre nuove misure a protezione dei rischi sociali individuali.

Le famiglie italiane i cui redditi sono al di sotto della soglia della povertà sono circa il 12% e rappresentano quasi il 14 % della popolazione. Tuttavia, nelle regioni meridionali la quota supera il 24%, mentre al Nord e al Centro è, rispettivamente di circa il 5% e l'8%. In condizioni di povertà assoluta si trovano circa il 4% delle famiglie, cioè oltre 3 milioni di persone; ma in questo caso la concentrazione nelle regioni meridionali è ancora più accentuata.

Nonostante l'evidente sperequazione territoriale della povertà, la spesa assistenziale procapite nei comuni del Sud, tranne che nelle isole, è inferiore alla media nazionale.

Questo dato conferma che, da un lato, la povertà nel nostro paese è fortemente correlata alla condizione di disoccupazione e, dall'altro, che né gli ammortizzatori sociali, né gli interventi assistenziali sono efficaci per contrastare il fenomeno, che si diffonde.

4.5.4 Gli ammortizzatori socialivai a indice

La nostra spesa per ammortizzatori sociali, ovvero per il sostegno alla disoccupazione assorbe solo lo 0,6% del Pil; questo valore, che negli ultimi anni è andato riducendosi, ci colloca all'ultimo posto nella graduatoria europea ed è pari a circa un quarto della media europea; eppure, la nostra disoccupazione è maggiore della media europea.

La progressiva diffusione nel mercato del lavoro di nuove forme contrattuali più “flessibili” ha condizionato l'evoluzione della quantità e della composizione della spesa per il sostegno alla disoccupazione. Il superamento del rapporto di lavoro a tempo determinato e la possibilità per le imprese di programmare le assunzioni in rapporto alle variabili necessità congiunturali ha complessivamente ridotto le possibilità e le necessità d'accesso a queste prestazioni del welfare.

E' diminuito il ricorso a misure quali la cassa integrazione e le indennità di disoccupazione riconosciute a disoccupati con requisiti pieni; sono invece aumentate le indennità ridotte di disoccupazione (riconosciute a chi abbia accumulato almeno 78 giorni di contributi nell'anno precedente). Nell'insieme, questo tipo di prestazioni dello stato sociale sono diminuite a beneficio del bilancio pubblico, ma, al contempo, la primaria esigenza dei lavoratori di veder garantita in qualche modo la continuità di reddito nei periodi di inattività viene maggiormente elusa.

Attualmente, circa il 55% di tutti gli interventi per la disoccupazione è assorbito dalle due modalità d'erogazione (con requisiti pieni o ridotti) delle indennità di disoccupazione le quali nel corso della seconda metà degli anni '90 sono costantemente cresciute di peso (nel 1994 erano sotto il 40%). Le diverse forme di cassa integrazione, che nel 1994 rappresentavano circa il 24%, sono diminuite a circa il 14%; la quota delle indennità di mobilità è rimasta attestata intorno al 16%; i pensionamenti anticipati sono invece scesi dalla quota di quasi il 35% nel 94 a circa il 12% del 2002. I sussidi di disoccupazione, cioè l'unico tipo d'interventi a favore di disoccupati che non richieda necessariamente un precedente status di lavoratore, assorbono attualmente solo il 3% della spesa complessiva, mentre negli ultimi anni '90 quella quota era intorno al 10%. In quest'ultimo tipo di interventi sono inclusi i lavori e le attività socialmente utili, i lavori di pubblica utilità e i piani d'inserimento professionale; si tratta d'interventi che rientrano tra le politiche attive per il lavoro, ma che negli ultimi anni sono stati fortemente ridotti Una evidente carenza del nostro sistema di welfare è costituita dalla totale assenza di strumenti assistenziali per la disoccupazione che abbiano carattere universalistico e non contributivo.

4.5.5 L'istruzione e la formazionevai a indice

La scuola pubblica in Europa è esposta, ormai da tempo, al vento delle politiche liberiste. Anche se in ciascun paese i processi che investono i sistemi di istruzione assumono forme peculiari, così come peculiari sono gli stessi sistemi, si possono individuare alcune caratteristiche comuni.

Dappertutto, ad essere messo in discussione è il carattere essenziale dei sistemi scolastici nazionali comune alla gran parte dei paesi, cioè la loro natura pubblica, il loro essere spazio libero, almeno in larga misura, rispetto alle esigenze del mercato.

Le spinte alla privatizzazione in questo settore hanno quindi lo scopo di trasformare l'istruzione da diritto universale garantito dalle istituzioni pubbliche in servizio a domanda disponibile in rapporto alla capacità di spesa di ciascun individuo. Ciò avviene sia intervenendo sull'assetto dei sistemi scolastici pubblici, sottoposti a trasformazioni che puntano a mutarne la natura, sia incentivando in vario modo la presenza e l'espansione di strutture formative private.

La tendenza generalizzata alla riduzione della spesa mostra come la leva economica rappresenti il principale strumento utilizzato per raggiungere questo obiettivo. La conseguenza è la riduzione qualitativa e quantitativa del servizio scolastico: meno scuole, classi più affollate, meno servizi integrativi E poiché la gran parte della spesa serve a pagare gli stipendi al personale, questo significa anche meno insegnanti con conseguenze facilmente calcolabili sui livelli di occupazione, tra l'altro in un settore di lavoro intellettuale ad alta qualificazione e di elevato interesse sociale.

In Italia il fenomeno assume carattere di particolare gravità, sia perché la spesa per l'istruzione è da tempo agli ultimi posti nel confronto con gli altri paesi, sia perché, anche grazie alla sciagurata legge sulla parità scolastica voluta dall'ultimo governo di centro sinistra, si realizza con un vero e proprio trasferimento alle scuole private, generalmente di ispirazione confessionale, delle risorse economiche sottratte al sistema pubblico.

Inoltre, anche se la spesa per l'istruzione scolastica in termini assoluti è inferiore “solo” di circa mezzo punto al dato della media dei paesi Ocse, la differenza reale è camuffata dalla disomogeneità delle basi di calcolo. Mentre in Italia tutta la spesa grava sul bilancio del ministero dell'istruzione, in altri paesi somme consistenti sono a carico di altri ministeri o di enti locali. Valga per tutti l'esempio della Francia, dove il personale di supporto è a carico del ministero del lavoro, gli insegnanti di educazione fisica di quello dello sport e tutto il settore dei “licei agrari” di quello dell'agricoltura.

Se si tiene conto dell'alta incidenza della spesa per il personale sui costi complessivi, si spiega anche, perché in Italia la spesa per studente è apparentemente superiore.

Tra le conseguenze delle politiche restrittive di spesa va pure considerato l'aumento consistente della precarizzazione del lavoro scolastico, che si somma agli effetti negativi delle nuove forme di lavoro precario introdotte anche nelle scuole. Sempre in Italia, secondo i dati ufficiali del Ministero dell'Economia, nel 2002 i precari nella scuola sfioravano le 200.000 unità, quasi un quinto dell'insieme degli occupati nel settore. Una quantità abnorme che incide strutturalmente sui livelli qualitativi e che, tra l'altro, si presta ad essere utilizzata per gestire più agevolmente un possibile più drastico ridimensionamento del sistema scolastico pubblico.

Sul versante delle finalità del sistema, si sta affermando la tendenza a piegare in modo sempre più vistoso gli scopi dell'istruzione alle esigenze della produzione e dell'impresa.

In altre parole, l'esigenza di innalzare i livelli culturali dei cittadini cede il posto al bisogno che la formazione sia immediatamente spendibile per l'immissione nel mercato del lavoro. Da qui la scelta di introdurre anche in paesi come Italia, Spagna e, in misura minore, Francia, rigide separazioni nell'istruzione secondaria tra istruzione generale e formazione professionale. Un ritorno al passato intollerabile che torna ad affidare alla selezione per censo la possibilità di accesso all'istruzione.

La qualità e la diffusione dell'istruzione specialmente di quella secondaria e postsecondaria, rappresentano, invece, uno dei presupposti affinché la forza lavoro si presenti meno indifesa di fronte ai processi di ristrutturazione indotti dall'evoluzione dei sistemi produttivi.

Pur tenendo conto delle disomogeneità dei corsi di studio, in Italia il numero di persone che hanno completato l'istruzione secondaria è pari a circa i due terzi della media OCSE e a circa la metà degli USA e del Giappone. Il basso tasso di iscritti e l'alto tasso di abbandoni è strettamente legato a carenze nelle condizioni economicosociali, con l'eccezione delle regioni più ricche, dove alla domanda diffusa di lavoro non qualificato corrisponde la disponibilità a soddisfarla da parte di giovani animati dal miope desidero di anticipare l'inizio della vita lavorativa e i connessi redditi.

Parallelamente nei paesi tradizionalmente più esposti alle influenze delle destre clericali, si propongono significativi cambiamenti nel sistema di valori posti a fondamento delle scelte educative della scuola pubblica. In sostanza, accanto ad un malinteso modernismo privo di riferimenti culturali, famiglia e religione diventano i cardini della formazione personale degli studenti.

Processi analoghi nel contesto europeo hanno investito le università e più in generale il sistema pubblico di ricerca. Si può dire, anzi, che in questo settore le trasformazioni siano già avvenute con più virulenza ed agendo più in profondità. Il processo di precarizzazione del lavoro intellettuale, al pari della scuola, ha colpito questo settore, che ormai conta circa 55.000 precari. Le tendenze all'aziendalizzazione sono già, in molti paesi, un processo in larga misura compiuto: le università sono ormai aziende che agiscono come corporazioni autonome al servizio delle esigenze del capitale “tecnologico”. Ne sono prova i legami sempre più stretti, anche di carattere finanziario, tra le università e le imprese, per esempio, nel campo dello sviluppo della ricerca e dell'applicazione delle nuove tecnologie. Ma anche il progressivo affermarsi delle “scuole professionalizzanti”, sulla base di scelte ancora una volta indotte dalle esigenze delle imprese private, che assorbono parti consistenti di risorse finanziarie.

Si può dire, insomma, che la destrutturazione del sistema industriale italiano degli ultimi anni è andato di pari passo con la destrutturazione del sistema universitario e di ricerca pubblico.

Anche le statistiche sulla diffusione di persone con titoli universitari mostrano che l'Italia si colloca nelle posizioni più basse tra i paesi sviluppati, sia in rapporto all'intera popolazione, sia in rapporto alla forza lavoro; rispetto ai nostri, i valori Usa sono quasi tripli, quelli giapponese e britannico sono quasi doppi. Il nostro sistema universitario si caratterizza per il più alto tasso di abbandono e la più elevata età media degli iscritti.

La spesa per l'istruzione superiore per studente in rapporto al Pil pro capite si colloca invece nelle posizioni basse della classifica dei paesi più sviluppati.

In questo contesto, il dato positivo è rappresentato dalle mobilitazioni che si sono determinate come reazione all'iniziativa dei governi nei vari paesi. Come la recente mobilitazione dei ricercatori francesi che hanno ottenuto dal governo un piano di assunzioni straordinarie e garanzie di investimenti nel settore. Nell'autunno del 2002 in quattro paesi dell'Unione sono scesi in sciopero un milione e mezzo di lavoratori della scuola. In Italia quella mobilitazione, nonostante siano passati due anni, è ancora in atto ed anzi in questi ultimi mesi si è ulteriormente rinvigorita. Inoltre, accanto ai lavoratori della scuola, in particolare insegnanti, tradizionali attori dei movimenti di opposizione nel settore, a scendere in piazza in modo massiccio sono i cittadini-utenti. È la più autentica dimostrazione di quanto sia radicata nella coscienza collettiva la percezione della scuola pubblica come istituzione fondamentale dello Stato e di quanto sia diffusa la disponibilità a lottare per difenderla.

Nel nostro paese, anche il mondo universitario, sia pure con qualche discontinuità, negli ultimi anni ha reagito; più timidamente quello accademico, con punte molto significative gli studenti (contestazione delle lauree brevi, lotta contro i numeri chiusi, ecc.). Un movimento che si sta estendendo e rafforzando nella mobilitazione di questi ultimi mesi contro gli annunci di riforma governativi che tendono a precarizzare ulteriormente il lavoro intellettuale, a comprimere la qualità dell'insegnamento universitario, a licealizzare l'università per tutti per garantire l'eccellenza per pochi.

4.6 Alcune indicazioni per una nuova politica socialevai a indice

4.6.1 Le politiche del lavorovai a indice

Vanno dunque abrogate le normative approvate sotto il presente governo su parttime, perché sottoposto all'esclusiva discrezionalità padronale, lavoro a termine, orario di lavoro e straordinari che hanno riscritto in senso deregolativo tutte le norme riguardanti la prestazione lavorativa. Un punto di riferimento potrà essere offerto anche dalle precedenti normative (orario giornaliero, causali limitative all'uso dei contratti a termine, limiti al lavoro straordinario, ecc..).

La “legge 30” va abrogata in quanto modifica il rapporto tra legislazione e contratto collettivo e tra questo e il contratto individuale, dilata l'area della precarietà e del lavoro privo di tutele e diritti, privatizza e liberalizza il collocamento e muta in prospettiva il ruolo e la natura del sindacato. In particolare vanno previste norme di “stabilizzazione” dei rapporti atipici e precari nella direzione di ritornare a rendere “normale” il rapporto di lavoro a tempo determinato.

Bisogna superare tutte quelle forme di lavoro che non garantiscono né un reddito sufficiente a vivere né la maturazione di una pensione adeguata. Va eliminata la figura dei collaboratori coordinati e continuativi; quelli esistenti vanno inquadrati nel lavoro dipendente o in quello autonomo.

L'introduzione di tutele nel mercato del lavoro non va contrapposta ai diritti nel lavoro. Si deve ampliare l'area del lavoro tutelato dall'articolo 18 della legge 300 ai lavoratori delle piccole imprese Per le politiche salariali, che naturalmente restano competenza delle organizzazioni sindacali, va comunque assunta a livello politico l'esistenza di un'emergenza salariale. Le politiche salariali devono quindi puntare al recupero delle quote di partecipazione al prodotto nazionale perse dalle retribuzioni dei lavoratori nel corso degli ultimi anni. Lo stesso adeguamento del potere d'acquisto dei salari alla variazione dei prezzi deve essere effettivo, cioè riferito all'andamento dell'inflazione reale e non ad una ipotetica inflazione programmata che sistematicamente risulta ottimistica. Il collegamento all'inflazione è stato invece effettivo per quanto riguarda il prelievo fiscale e va dunque finalmente effettuata la restituzione del fiscal drag.

L'emergenza salariale non può essere affrontata attraverso un riequilibrio tra salario diretto ed oneri contributivi a carico del lavoratore per le evidenti conseguenze sul sistema previdenziale.

4.6.2 Le politiche per la previdenzavai a indice

Le previsioni per il nostro sistema pensionistico estese ai prossimi decenni segnalano come i problemi preoccupanti siano quelli connessi non alla sua sostenibilità finanziaria, ma alla sua incapacità di assicurare pensioni adeguate a milioni degli attuali lavoratori.

Le statistiche indicano come la vecchiaia non sia attualmente, nel nostro paese, una diffusa causa di povertà. Tale situazione deriva anche dalla copertura pensionistica assicurata finora dalla previdenza pubblica. Nel futuro che già si prospetta a legislazione attuale non sarà più così.

Si tratta di problemi da affrontare per tempo, come è doveroso che sia per un sistema previdenziale.

Per offrire trattamenti pensionistici più adeguati alle tradizionali categorie dei lavoratori autonomi è ragionevole pensare ad un progressivo avvicinamento delle loro aliquote contributive a quelle attuali dei lavoratori dipendenti le quali non devono diminuire.

Lo stesso risultato in termini di prestazioni deve essere ottenuto per le categorie dei lavoratori parasubordinati con contratti atipici e attività ridotte e non continuative. E' quindi necessario coniugare l'aumento delle aliquote contributive con la copertura contributiva anche per i periodi di non lavoro. Si tratta in questo modo di garantire una pensione decente anche per le figure di lavoro cosiddette “atipiche” e nel contempo di ridurre fortemente la segmentazione del mercato del lavoro generata dal differente costo contributivo delle nuove figure lavorative Per i lavoratori che pur avendo raggiunto la vecchiaia dopo una consistente storia contributiva non abbiano comunque maturato un livello basilare di pensione, va reintrodotto il meccanismo dell'integrazione al minimo; va invece soppresso il meccanismo vigente in base al quale si perde addirittura tutta la contribuzione versata se il suo ammontare è insufficiente a generare una prestazione superiore a 1,2 volte il livello della pensione sociale.

La completa salvaguardia della contribuzione versata richiede anche che sia risolto il problema dei ricongiungimenti delle contribuzioni versate in diverse attività lavorative e forme d'impiego senza dover incorrere in costosissime penalizzazioni.

Nella contabilità pensionistica andrebbe sempre mantenuta distinzione tra le prestazioni maturate con criterio attuariale e quelle erogate in ottemperanza a considerazioni sociali ed anche economiche, ma scollegate dal vincolo attuariale.

Più in generale la distinzione tra previdenza e assistenza va estesa ai numerosi casi di confusione contabile esistenti nei bilanci previdenziali poiché concorrono a darne una erronea rappresentazione e determinano effetti redistributivi a danno del mondo del lavoro cui vengono attribuiti oneri che riguardano l'intera collettività.

Redistribuzioni perverse all'interno del mondo del lavoro sono invece avvenute con l'accorpamento nei bilanci dell'Inps delle gestioni di categorie di lavoratori particolarmente favorite - da ultimo i dirigenti d'azienda; queste categorie, avendo da sempre goduto di rapporti privilegiati anche a livello previdenziale, hanno apportato considerevoli deficit gestionali al fondo pensione dei lavoratori dipendenti e continuano ad usufruire di trattamenti previdenziali migliori.

Specialmente in previsione di un ritorno a tassi di crescita dell'economia più elevati - che faciliterebbero il finanziamento dei trasferimenti pensionistici - vanno ripristinate misure d'indicizzazione reale delle pensioni per evitare un allontanamento socialmente insostenibile delle pensioni dagli altri redditi.

Anche l'indicizzazione ai prezzi va migliorata e resa più aderente alle abitudini di consumo dei pensionati.

Uno sviluppo di tipo sostitutivo della previdenza privata a capitalizzazione rispetto a quella pubblica a ripartizione non avrebbe nessuna capacità di favorire la soluzione di eventuali problemi di sostenibilità macroeconomica dei trasferimenti pensionistici; qualunque sia la loro causa, incluso quelle di tipo demografico.

Un accentuato sviluppo dei fondi pensione privati - oltre a dirottare all'estero ingenti flussi di risparmio nazionale, riducendo le disponibilità finanziarie dei lavoratori e delle imprese, oltre a deprimere ulteriormente la domanda - aumenterebbe i costi di gestione e ridurrebbe la sicurezza delle prestazioni del complessivo sistema pensionistico.

Se l'intero flusso del Tfr affluisse ai fondi privati, sarebbe molto difficile sommare le loro prestazione a quelle attuali del sistema pubblico; la rafforzata pressione a ridurre queste ultime si assocerebbe inevitabilmente ad una riduzione dei contributi delle imprese al sistema pubblico obbligatorio (la decontribuzione), determinando una corrispondente redistribuzione di reddito a danno dei lavoratori.

Poiché la previdenza a capitalizzazione non è uno strumento affidabile ed efficiente per risolvere i problemi di insufficiente copertura pensionistica che si stanno prospettando per milioni di lavoratori, essa dovrebbe essere realmente facoltativa (rendendo trasparenti le sue caratteristiche a tutti i potenziali interessati) e di natura aggiuntiva rispetto al compito di fornire una copertura pensionistica adeguata svolto autonomamente dal sistema pubblico a ripartizione.

Il sostegno pubblico ai fondi privati dovrebbe essere rapportato a questo tipo di funzioni loro assegnate; vanno comunque ripensate le modalità esistenti.

L'attuale legislazione fiscale (introdotta nel 2000) incentiva il risparmio previdenziale senza fare distinzioni né tra le sue forme d'impiego (fondi negoziali, fondi aperti, polizze individuali), né tra i tipi di reddito da cui proviene (salari, profitti, rendite). In tal modo si ignora lo spirito della Costituzione che (art. 38) sostiene la necessità di assicurare un reddito pensionistico non ai titolari di qualsiasi reddito, ma ai lavoratori. Infatti solo per essi si pone il problema naturale di avere un reddito anche quando la vecchiaia non consente più di lavorare. Invece, la vecchiaia non costituisce causa d'interruzione per i redditi non da lavoro. Incentivando il risparmio dei titolari di reddito non da lavoro, lo stato pone a carico della collettività un onere cui non corrisponde affatto un'esigenza previdenziale, ma solo quella più generica di stimolare il risparmio in quanto tale. Questa incongruente redistribuzione è, per di più, accentuata dal criterio di incentivazione della partecipazione ai fondi pensione privati che è regolata mediante detrazione fiscale dei contributi versati dal reddito imponibile; il contributo statale, quindi, è proporzionale all'aliquota marginale che è maggiore per i titolari di reddito più elevati.

Peraltro, anche tra le diverse categorie di lavoratori (parasubordinati, dipendenti, autonomi, professionisti), il problema di assicurare la continuità di reddito nella vecchiaia si pone in modi e misure diverse. Quest'ultima circostanza giustificherebbe, ad esempio, la particolare attenzione (sopra indicata) per i lavoratori parasubordinati che, coerentemente all'interesse di tipo sociale, dovrebbe essere soddisfatta nell'ambito del più sicuro sistema pensionistico pubblico a ripartizione.

4.6.3 Politiche per gli ammortizzatori sociali e l'assistenzavai a indice

Il nostro sistema di welfare è prevalentemente rivolto alla figura del lavoratore ed è caratterizzato da numerosi aspetti di tipo categoriale; sia le modalità del suo finanziamento, sia l'erogazione delle prestazioni lasciano uno spazio inadeguato ai criteri di carattere universalistico.

I modelli di tipo occupazionale, tipici dei sistemi di welfare dei paesi dell'Europa continentale, hanno una loro motivazione nella rilevante circostanza - tendenzialmente sottovalutata o addirittura ignorata nella visione neoliberista - che i lavoratori sono una significativa componente della collettività con esigenze specifiche da soddisfare.

D'altra parte, tra i bisogni di sicurezza sociale ce ne sono anche di importanti che riguardano il cittadino in quanto tale e, dunque, vanno affrontati con criteri universalistici. Il riconosciuto bisogno di aumentare l'erogazione di prestazioni universalistiche non va dunque sostenuto, come spesso viene strumentalmente fatto, per contenere le prestazioni di tipo occupazionale.

Le considerazioni appena espresse si applicano con particolare attinenza alle politiche per gli ammortizzatori sociali e l'assistenza nel nostro paese.

L'assicurazione contro la disoccupazione è uno degli istituti dello stato sociale che storicamente nasce su pressante richiesta dei lavoratori, la cui forza contrattuale e politica è legata anche alla possibilità di neutralizzare in qualche misura il rischio, se non la minaccia, della perdita del posto di lavoro e del corrispondente reddito.

Nel nostro sistema di welfare, la tutela dei disoccupati è largamente insufficiente e comunque è nettamente inferiore rispetto a quella presente negli altri paesi europei.

Per questo abbiamo proposto da tempo l'introduzione di un salario sociale di almeno 525 euro al mese esentasse per i giovani in cerca di lavoro e per i disoccupati di lunga durata, connesso con la fornitura di servizi formativi e sociali gratuiti a carico degli enti locali. Occorre quindi aumentare le risorse a disposizione per le indennità di disoccupazione e i trattamenti di mobilità, allargando le possibilità di fruirne ai lavoratori parasubordinati i quali, avendo una storia contributiva spezzettata, pagano la precarietà lavorativa anche in termini di minori possibilità d'accesso alle prestazioni di disoccupazione.

I prepensionamenti, sia nella sostanza, sia per la contabilizzazione dei loro oneri a carico del settore pensionistico, costituiscono uno strumento perverso per affrontare i problemi della disoccupazione che, dunque, andrebbe progressivamente eliminato e contestualmente sostituito con misure più conformi allo scopo.

In particolare, per i lavoratori interessati a ristrutturazioni aziendali, ma in generale per tutti i lavoratori disoccupati - specialmente quelli di lunga durata - vanno potenziate le attività di formazione e aggiornamento professionale la cui frequenza dovrebbe essere collegata alla fruizione delle indennità assicurative.

Corsi di aggiornamento, o di formazione continua, dovrebbero essere normalmente previsti anche per i lavoratori occupati, con oneri non solo a carico dello stato sociale, ma anche delle imprese che usufruiscono delle maggiori capacità acquisite dai lavoratori La disoccupazione genera oneri individuali e sociali non solo quando riguarda persone che hanno perso l'occupazione, ma anche nel caso di chi non è mai riuscito a trovare un lavoro.

Alla generalità dei cittadini dovrebbe essere offerta la possibilità di accedere a corsi e programmi di avviamento al lavoro; a coloro che non abbiano altri redditi dovrebbe anche essere assicurata una garanzia di reddito minimo che assicuri le esigenze vitali.

Il recupero e l'estensione dell'esperienza del reddito minimo d'inserimento (non la sua soppressione come invece è stato fatto) o l'introduzione di altre forme di intervento a sostegno della condizione dei disoccupati - in particolare di chi no ha altri redditi - dovrebbero essere praticate come strumenti aventi non solo carattere assistenziale, ma finalizzate all'introduzione al lavoro. A tal fine, non andrebbe trascurata la possibilità di impiegare i fruitori di queste prestazioni in attività formative e/o d'impiego in programmi e attività volti a corrispondere esigenze socialmente ed economicamente valide, ma che il mercato non riesce attualmente a soddisfare in mancanza di una spinta iniziale e di un sostegno temporaneo di tipo finanziario, organizzativo e manageriale.

La nostra complessiva spesa assistenziale va portata ai livelli medi europei che sono nettamente superiori; una particolare attenzione va riservata alla sua composizione tra prestazioni monetarie e prestazioni in natura e a alla sua ripartizione territoriale.

Attualmente risulta particolarmente carente il sostegno alle esigenze delle donne madri e lavoratici e di quelle degli anziani non autosufficienti. In entrambi i casi l'offerta di servizi alla famiglia allenterebbero i compiti di assistenza che gravano sulle donne e che contribuiscono a spiegare sia la loro bassa partecipazione al mondo del lavoro, sia la preoccupante bassa natalità nel nostro paese.

La spinta federalista che si è affermata negli ultimi anni ha contribuito a rendere più sperequata la distribuzione dei pochi fondi disponibili per l'assistenza. E' una tendenza che andrebbe controllata con opportuni vincoli alla ripartizione dei nuovi fondi. A quest'ultimo riguardo, occorre tuttavia tener conto della più complessiva problematica connessa all'articolazione territoriale dello stato sociale e degli istituti che a livello locale concorrono alla salvaguardia di esigenze e diritti sociali.

4.6.4 Politiche per l'istruzione e la formazionevai a indice

L'istruzione - dai livelli di base fino a quello post secondario e universitario - e l'attività di formazione permanente rappresentano componenti della spesa sociale che associano strettamente finalità di emancipazione individuale con effetti positivi sulle capacità di un sistema produttivo e sul livello di civiltà e delle relazioni sociali di un paese. Tuttavia, nonostante proprio i processi di globalizzazione abbiano accentuato l'esigenza di più elevati e diffusi livelli d'istruzione, la spesa nel settore e la sua qualità sono ancora insoddisfacenti.

Nonostante tutte le esperienze di riforma tese ad aumentare la componente di mercato nel settore abbiano confermato che la particolarità e la complessità degli obiettivi da perseguire con la diffusione del bene istruzione possano trovare corrispondenza solo nell'intervento pubblico, quest'ultimo, in particolare in Italia, viene trascurato a favore della scuola privata. Si tratta di una tendenza da frenare e invertire.

L'Europa deve dare risposte alle istanze poste dai movimenti con politiche che inducano lo sviluppo qualificato dei sistemi scolastici pubblici nazionali e che abbattano le barriere che impediscono l'accesso da parte dei ceti sociali più deboli ai gradi più alti di istruzione.

Sul piano economico devono essere fissati “parametri sociali” indicando una significativa soglia di spesa in rapporto al PIL che ogni paese membro deve rispettare con l'obiettivo di incrementare la spesa per l'istruzione e di generalizzarla, gradualmente ma entro un tempo definito, a livelli più alti. Analogamente per l'università devono essere previste misure che garantiscano massicci finanziamenti pubblici per realizzare l'obiettivo della crescita della produzione culturale dell'Europa e per finanziare adeguatamente la ricerca di base, soffocata dalla logica della corsa al beneficio immediato legato al mercato.

Si deve inoltre garantire la reale circolazione dei risultati di ricerche tra i vari paesi membri così come dei ricercatori e degli studenti.

Va posto l'obiettivo di innalzare l'obbligo scolastico in tutti i paesi fino a 18 anni, rimandando a percorsi successivi la formazione specialistica per il lavoro e prevedendo stanziamenti per il sostegno al reddito che rendano effettivo il diritto allo studio per tutti.

Bisogna disegnare per la scuola pubblica europea un profilo saldamente ancorato ai principi e ai riferimenti valoriali che definiscono i tratti essenziali della cultura europea. La scuola deve perciò essere, in tutti gli stati membri, luogo di incontro e di libero confronto tra le culture che convivono in una società sempre più, multiculturale e multireligiosa, come premessa necessaria allo sviluppo di una autentica educazione alla pace. Così come l'università deve essere messa in condizione di svolgere il suo ruolo preminente di formazione culturale e scientifica svincolata dalle logiche mercantili.

Occorre, quindi, anche su questo punto, modificare la costituzione europea laddove afferma il primato della “concorrenza libera e non falsata” su qualsiasi disposizione normativa, e la subordinazione alle regole del “libero mercato” a quelli che vengono definiti i servizi di interesse generale tra cui rientrano scuola e università. A tal fine, i principi enunciati nell'art. 3 della Costituzione italiana possono rappresentare un importante punto di riferimento.

Si tratta, in ultima analisi, di rimettere in discussione le caratteristiche che ha assunto l'intervento comunitario su questi settori strategici, a partire dal Libro Bianco di Delors passando per le conferenze di Lisbona e Barcellona, fino ai nostri giorni.

Deve potersi affermare il principio che l'obiettivo delle politiche scolastiche non è “l'economia della conoscenza” ma la produzione e la riproduzione della conoscenza libera e accessibile a tutti, anche per produrre sviluppo economico.

4.6.5 Politiche per la sanitàvai a indice

Il SSN, dalla sua istituzione, ha indubbiamente collaborato in modo significativo al miglioramento delle condizioni sanitarie del paese che è segnalato da numerosi indicatori. Però non mancano questioni anche urgenti da affrontare, alcune delle quali sono state create o accentuate dal tipo di evoluzione che più di recente ha caratterizzato la sanità.

Nel nostro settore sanitario l'aumento della quota della spesa privata rispetto a quella pubblica è stata la più elevata in Europa; i problemi di efficacia, di appropriatezza, di costo, di iniquità distributiva e di copertura delle prestazioni che in tutti i paesi sono seguiti a questo mutamento di composizione, si pongono in Italia con particolare intensità.

L'abrogazione del rapporto di esclusiva per i medici dipendenti del SSN è un significativo esempio di presunta collaborazione tra pubblico e privato che si risolve nell'accollare al pubblico la parte sostanziale degli oneri salariali del personale sanitario e nel consentire alle strutture private di poter disporre a basso costo aggiuntivo di questo personale per fare concorrenza alle strutture del SSN nei settori scelti tra quelli più profittevoli.

Alcuni indicatori di appropriatezza della spesa segnalano morti evitabili, ricoveri inutili, spese farmaceutiche eccessive e ingiustificatamente variabili nel tempo e tra regioni diverse, disomogenea distribuzione delle prestazioni sia con riferimento al reddito e all'istruzione dei beneficiari, sia a livello territoriale. Tra le diverse regioni si segnalano, in particolare, significative disomogeneità nella spesa, nei tassi di ospedalizzazione e nella lunghezza delle liste di attesa Il nostro SSN ha sempre decentrato alle regioni funzioni rilevanti, ma la modifica del titolo V della Costituzione ha generato innegabili effetti negativi che sono: la diminuzione dell'impegno redistributivo a favore dei territori più poveri; l'incremento della litigiosità e dei costi di transazione connessi ad una difficile ripartizione dei compiti; il rischio di una moltiplicazione del ricorso a sistemi di spoil system che penalizza la ricerca medica e le competenze professionali.

Significative carenze di copertura del nostro sistema sanitario pubblico da eliminare sono quella per le cure dentarie, per l'assistenza ai non autosufficienti e per la riabilitazione e cura del disagio mentale. Si tratta di spese che incidono significativamente sui bilanci familiari; ma per i titolari di redditi non elevati, la difficoltà di sostenere queste spese si traduce in mancato accesso alle prestazioni, che rende indespensbile l'intervento pubblico. Occorre finanziare sul fondo sanitario nazionale le cure sanitarie senza limiti di durata delle persone non autosufficienti, colpite da malattie croniche e da malattia di Alzheimer, e con handicap grave: vanno potenziati e i servizi di assistenza domiciliare, aperti quelli di ospedalizzazione a domicilio e diffuse le Residenze sanitarie assistenziali. Nello stesso tempo, bisogna garantire il diritto alla riabilitazione e cura a tutte le persone con disagio mentale: vanno attivate le strutture territoriali dei dipartimenti di salute mentale, respingendo ogni tentativo di riprodurre situazioni ex manicomiali e l'uso e abuso di psicofarmaci nell'età evolutiva.

Allargando lo sguardo al contesto internazionale e europeo va ricordato che nel 1978, la Conferenza internazionale di Alma Ata aveva assunto l'obiettivo "salute per tutti entro il 2000".

Nel 2001 la rivista sanitaria inglese The Lancet riprendeva i temi del movimento dei movimenti, segnalando che l'accordo GATS (non sottoscritto, grazie al fallimento dell'appuntamento di Cancun) mette in discussione il finanziamento dei servizi sanitari attraverso sistemi ridistributivi come la fiscalità progressiva, e quindi la copertura universale dei rischi e il ruolo pubblico nella programmazione, finanziamento ed erogazione dei servizi, in quanto sono ostacoli alla libera concorrenza.

In realtà, il Gats si colloca all'interno del processo, ormai trentennale, di dissoluzione del Welfare a favore dell'espansione del commercio nei servizi, perseguito dalla Banca Mondiale e del FMI attraverso il blocco della spesa pubblica.

Nello stesso anno della Conferenza di Alma Ata, la Banca Mondiale redigeva il primo documento interamente dedicato alla sanità, dando le indicazioni da seguire per i servizi sanitari, nell'ambito delle politiche di aggiustamento strutturale, che avevano valore prescrittivo nei confronti dei paesi più indebitati.

Le misure suggerite erano quattro, strettamente correlate tra loro: prevedere forme di partecipazione alla spesa da parte degli utenti dei servizi sanitari pubblici ; promuovere sistemi assicurativi; favorire la privatizzazione dei servizi sanitari; decentrare la programmazione, l'organizzazione e il finanziamento dei servizi.

L'attuazione di questa strategia ha portato a quello che di recente, Le Monde ha definito l'"apartheid sanitario": disuguaglianze abissali nell'accesso al bene salute non solo tra i paesi industrializzati e il Terzo mondo, ma anche all'interno dei paesi industrializzati.

La strategia della Banca Mondiale è stata applicata,in diversa misura e con diverse combinazioni, sia dai governi di destra che di sinistra, anche nei paesi dell'UE, dove la presenza e la capacità di resistenza e di tenuta dei sistemi sanitari tendenzialmente universalistici preesistenti ha sinora ridotto il danno, ma quegli stessi sistemi sono messi a dura prova dal processo di aziendalizzazione, cioè dall'assolutizzazione del criterio di economicità del servizio.

In questo quadro, nel testo del Trattato per la Costituzione europea licenziato dalla Convenzione la libertà d'impresa è l'elemento sovraordinatore e di conseguenza è ambigua la nozione stessa di servizio di interesse pubblico e le norme relative alla parità di accesso non sono prescrittive. Inoltre, in materia sociale e sanitaria vige il principio di sussidiarietà.

Al contrario gli obiettivi politici che si è dato il movimento al Forum sociale europeo di Parigi sul diritto alla salute, e che condividiamo e riproponiamo, sono i seguenti: potenziare i servizi sanitari a gestione pubblica e offerta universale, andando oltre i servizi di base per riaffermare sistemi unitari che assicurano la prevenzione, cura e riabilitazione; finanziare la spesa sanitaria pubblica con sistemi fiscali progressivi; avviare un processo per la costruzione di un servizio pubblico mondiale, in cui sia riconosciuto e finanziato il diritto alla salute di tutti.

L'impostazione neoliberista che ha prevalso negli ultimi due decenni e la sua influenza sulle scelte fatte nel nostro paese hanno peggiorato gli equilibri sociali ed economici al punto che non dovrebbero esserci dubbi sulla necessità di un serio ripensamento delle linee generali di politica economica.

Gli esiti negativi di scelte rilevanti per la struttura del nostro sistema sociale e produttivo - frutto dell'accettazione acritica di dettami liberisti fuori tempo - devono essere rimessi in discussione.

Negli ultimi anni, gli obiettivi principali della politica economica e sociale sono stati la riduzione del costo del lavoro e l'aumento della sua flessibilità.

Anche in Italia, oggi, difendere in generale le condizioni economiche e sociali del lavoro e dei lavoratori e, più specificamente, lo stato sociale, significa non solo essere coerenti con gli interessi e gli ideali che devono trovare rappresentanza politica nella sinistra, ma anche opporsi ad un modello di sviluppo che è perdente sul piano della competizione internazionale.

Peraltro, deve essere reso chiaro che la riduzione del carico fiscale non è compatibile con l'esigenza di erogare più beni e servizi pubblici la cui mancata offerta da parte delle amministrazioni pubbliche richiederebbe il ricorso sostitutivo al mercato il quale, tuttavia, li fornisce solo a condizioni economiche più penalizzanti, sia per i bilanci dei singoli cittadini, sia per il benessere della collettività che dipende anche dall'equità e dalla solidarietà sociale.

I problemi del lavoro, del welfare state e del complessivo sviluppo economico e sociale sono strettamente interconnessi; ogni misura specifica deve essere coerente ad un nuovo disegno generale di politica economica.

Affinché le nostre istituzioni del welfare possano svolgere le loro funzioni in modo adeguato alle necessità sociali e produttive che si pongono, la spesa complessiva dovrà progressivamente riavvicinarsi alla media europea.

La carenza della nostra spesa si traduce in un peggioramento sia delle condizioni produttive, sia di quelle sociali, appesantendo gli oneri che ricadono sulle famiglie, in particolare sulle donne. Questa situazione implica non solo sociali, ma anche maggiori vincoli per la capacità e la funzionalità del sistema produttivo.

4.7 La questione abitativa in Italia e in Europavai a indice

Assistiamo in Europa e in Italia al fallimento delle politiche di privatizzazione degli immobili pubblici e di liberalizzazione degli affitti. Questo fallimento è segnato dal fatto che in Europa sono stati rilevati 3 milioni di persone senza casa e 70 milioni di cittadini mal alloggiati ( coabitanti, migranti etc) La casa o meglio le modalità per l'affermazione del diritto alla casa non possono non partire da una visione europea della questione.

Un dato su tutti è quello fornito da Eurostat.

Per l'alloggio e la lotta all'esclusione sociale in Europa la spesa media è del 3,8% .

Le punte sono rappresentate dalla Danimarca con il 6.1% , dalla Francia con il 4,6%, dall'Inghilterra con il 7%, l'Olanda con il 7,4%. L'Italia in questa graduatoria è ultima con un misero 0.2%.

Anche per quanto concerne le condizioni abitative l'Italia è più vicina ai Paesi del cosiddetto sud (Spagna, Portogallo, Grecia etc), infatti proprio in questi Paesi sono presenti le percentuali più alte di famiglie che abitano in case di proprietà. La Spagna vede una percentuale di famiglie proprietarie dell'82% e l'Irlanda del 75% , mentre ad esempio la Germania vede meno di una famiglia su due proprietaria di alloggio.

Altro dato europeo significativo è quello relativo al sovraffollamento degli alloggi.

Anche in questo caso l'Italia è nel gruppo dei Paesi del sud. Infatti gli alloggi che vedono un numero di occupanti superiore al numero delle stanze è del 42% in Grecia, del 35% in Portogallo, del 32% in Italia e del 27% in Spagna. Al contrario nei Paesi Bassi e in Inghilterra la percentuale di alloggi sovraffollati è del 4% e del 9% La media europea è del 19%.

Infine per quanto riguarda gli alloggi sociali in affitto Eurohousing nel 2001 ha reso pubbliche le seguenti percentuali riferite agli alloggi sociali sul totale degli alloggi e sul totale degli alloggi in affitto: Nel Regno Unito gli alloggi sociali rappresentano il 21% del totale degli alloggi e il 66% degli alloggi in affitto; in Olanda gli alloggi sociali rappresentano il 36% del totale degli alloggi e il 75% degli alloggi in affitto; in Francia gli alloggi sociali sono il 16% del totale degli alloggi e il 41% degli alloggi in affitto; In Italia gli alloggi sociali sono il 4,3% del totale degli alloggi e solo il 23% di quelli in affitto.

Questo ultimo dato, per quanto concerne l'Italia, andrà rivisto alla luce delle dismissioni e cartolarizzazioni avviate e in corso nel nostro Paese.

C'è bisogno di una vera e propria inversione di tendenza rispetto alle politiche finora perseguite in Italia e in Europa a partire dall'inserimento del diritto alla casa nella Costituzione europea ma è necessario procedere alla sospensione delle politiche di privatizzazione dei patrimoni pubblici,, contestualmente è necessario che la casa entri tra le competenze dell'Unione Europea con utilizzo di fondi strutturali che rilancino lo sviluppo di edilizia sociale, intendendo la casa come servizio di interesse generale sottratto ai criteri della libera concorrenza.

Una prima iniziativa che si lega alla campagna “ sfratti zero” lanciata al SFM di Mumbai deve essere il sostegno alla lotta intrapresa da alcuni sindaci francesi che hanno emesso ordinanze con le quali dichiarano il proprio territorio libero dagli sfratti, proposta che potrebbe essere ripresa anche in Italia.

In Italia in particolare è necessario cancellare dalla legge 431/98 il canale del libero mercato e lo sviluppo di edilizia residenziale pubblica a canoni sociali e la sospensione delle esecuzioni di sfratti senza rialloggio

PARTE QUINTA. PER LA LIBERA CIRCOLAZIONE E PER I DIRITTI DI TUTTE E DI TUTTI

5.1 La questione dell'immigrazione e del diritto di cittadinanzavai a indice

La globalizzazione neoliberista, le spietate logiche del mercato e la strategia della guerra preventiva e permanente hanno fatto assumere al fenomeno delle migrazioni dimensioni di massa. In Europa vivono e lavorano circa 15 milioni di migranti e sempre più pressante è la richiesta di ingresso nei paesi europei di donne e di uomini che fuggono la fame, la miseria, le guerre e le persecuzioni che caratterizzano i paesi del Sud del mondo. In questi paesi le risorse sono sistematicamente depredate e privatizzate, la sovranità alimentare impedita ed il carico di debiti anziché essere cancellato aumenta progressivamente.

L'Europa sino ad oggi ha risposto considerando i migranti sotto la doppia veste di potenziali nemici da respingere e di mano d'opera facilmente fruttabile da accogliere secondo le esigenze del mercato del lavoro. Non si tratta di una contraddizione, ma di una esplicitazione della logica della massima flessibilità e della precarizzazione dei lavoratori con cui cerca di fronteggiare la crisi del modello neoliberista.

Inoltre le vicende seguite all'attentato dell'11 Settembre, hanno segnato la vita di gran parte dei migranti provenienti da paesi di cultura musulmana con un marchio di sospetto e di presunta contiguità con gli attentatori Quasi impossibile è per loro ottenere un visto di ingresso, il rinnovo dei documenti di soggiorno, il ricongiungimento familiare, più difficile è socializzare, esprimere la propria soggettività, manifestare per i propri diritti. Sono costretti, loro malgrado, a celarsi, a non reagire, in un umiliante silenzio che non aiuta la comprensione reciproca e non permette di abbassare il livello di una sorta di guerra di religione, certamente non voluta e non dichiarata dai migranti.

Nella prospettiva di una Europa diversa, pacifista e solidale, in una Europa dei popoli e non dei mercati, che guardi al Mediterraneo come ad un lago che non la separi, ma la colleghi all'Africa e al Medio Oriente, il fenomeno delle migrazioni deve trovare risposte diverse da quelle sancite dal trattato di Schengen. I migranti vanno considerati non come “invasori” che possono inquinare la nostra, peraltro opinabile, identità, ma come elementi di un ponte culturale fra la realtà europea e le altre realtà del mondo. Avere fra noi i migranti, considerarli cittadini di una nuova Europa, ci rende più ricchi di diversità e, quindi, più duttili, meno rigidi ed ancorati agli stereotipi eurocentristi.

Se l'Europa vuole avere un ruolo politico, economico e culturale autonomo e non subalterno agli Stati Uniti, deve attribuire ai migranti dignità di cittadini con parità di diritti rispetto agli autoctoni e, così, stabilire con i paesi di provenienza dei migranti legami di alleanza nella costruzione di una altra Europa possibile in un altro mondo possibile.

Articoliamo perciò la nostra proposta secondo i punti seguenti.

5.2 La revisione del trattato di Schengenvai a indice

Gli accordi sottoscritti a Schengen coniugano il tema delle migrazioni non con l'universalità dei diritti, ma con le leggi di mercato.

Impongono, in una visione securitaria, l'idea dell'Europa fortezza.

Prescrivono una integrazione neocolonialista senza ipotesi di reciprocità. Sottintendono esplicitamente, con la logica dei flussi, un diritto di scelta, quantitativa e qualitativa dei migranti, che, prescindendo dai bisogni di chi chiede di entrare, punta alla regolazione del mercato del lavoro. Il trattato di Schengen deve essere rimesso in discussione e deve subire una profonda trasformazione che ponga in primo piano i diritti universali e di cittadinanza di cui sono titolari ogni donna e ogni uomo nel mondo. Questo compito è tanto più urgente alla vigilia dell'ingresso di dieci nuovi paesi nella Ue. Nella stessa logica di rifiuto della lettura securitaria del fenomeno migratorio va rifiutato l'uso degli eserciti con funzioni di controllo delle frontiere e delle marine militari nel controllo delle coste europee. Non si devono considerare i migranti come “nemici esterni” da affrontare con le armi. Il traffico internazionale dei “clandestini” si arresta solo prevedendo vie legali di ingresso e regolarizzazione a regime.

5.3 La regolarizzazione di tutti gli immigrati e visti per ricerca di lavorovai a indice

Occorre, in tutta Europa, superare la logica delle sanatorie ricorrenti che riproducono clandestinizzazione: non è tollerabile la esistenza di migranti sans papiers , ricattabili perché senza diritti e vittime del mercato del lavoro nero. Occorre costruire un percorso legale che dia la possibilità di regolarizzazione a tutti i migranti irregolari che, comunque entrati, risiedono in Europa da un lasso di tempo di due anni al massimo. Occorre, inoltre prevedere la possibilità di ottenere un visto di ingresso e un permesso per ricerca di lavoro nei paesi europei di durata minima annuale. Le ipotesi di chiamata nominale dei migranti da parte dei datori di lavoro è irrealistica e macchinosa.

5.4 La sottrazione di competenze ai Ministeri degli Internivai a indice

Le pratiche che condizionano la vita dei cittadini migranti sono, attualmente, di competenza dei ministeri degli Interni e delle Questure e Prefetture europee che operano con larghissimi margini di discrezionalità. Questa circostanza avvalora la tesi dei una legittimità di un approccio securitario nei confronti dei migranti e contraddice il principio di uguaglianza fra i cittadini. Occorre riaffermare la centralità degli Enti Locali per l'espletamento delle pratiche di accoglienza, rinnovo dei permessi di soggiorno, dei ricongiungimenti familiari e registrazione della residenza, come segno di un processo di “civilizzazione” dei rapporti con i cittadini migranti.

5.5 Il riconoscimento del diritto d'Asilovai a indice

Va proposta una direttiva europea sul diritto d'Asilo che si basi sulla formulazione espressa nell'art. 10 della Costituzione italiana e che unifichi le procedure e le normative di accoglimento, garantendo l'informazione, l'uso di interpreti, la presenza di legali e dei rappresentanti delle organizzazioni internazionali di tutela. Non può essere accettata l'esistenza di centri di identificazione che costringano la libertà dei richiedenti asilo, né è proponibile che, in attesa della decisione questi vengano inviati coattivamente in “paesi terzi sicuri”.

5.6 La chiusura dei CPTvai a indice

Diffusi, con denominazioni diverse, in tutta Europa, questi centri sono illegittimi in quanto impongono una detenzione per reati amministrativi, perché sono luoghi di segregazione che sfuggono al controllo dei mezzi di informazione, perché non permettono contatti con i “trattenuti” e visite di controllo per disgelare le condizioni di vita, perché favoriscono affari poco trasparenti attraverso la privatizzazione della loro gestione.

Sono teatro di violenze, intimidazioni e controllo farmacologico dei migranti che spesso reagiscono con disperato autolesionismo. Questi centri vanno chiusi in tutta l'Europa e non devono neppure essere trasferiti nei paesi di provenienza dei migranti a seguito di accordi/ricatto di sostegno economico con i governanti di tali paesi.

5.7 La cittadinanza europea di residenzavai a indice

La cosiddetta cittadinanza europea istituita dal Trattato di Maastricht, ribadita da quello di Amsterdam e tratteggiata dal progetto di trattato costituzionale conferisce ai soli cittadini nazionali degli Stati-membri dell'Ue il diritto di voto municipale ed europeo nei paesi di residenza, il diritto di petizione e di ricorso presso i tribunali europei, il diritto di circolare nel territorio dell'Ue e di installarsi nei paesi che ne fanno parte. Il principio che la ispira si basa dunque sul criterio della provenienza e dell'origine, non su quello della residenza. Escludendo ben 15 milioni di persone, i provenienti da paesi terzi, essa concorre a legittimare l'inedita categoria di “residenti-non cittadini” e in tal modo a rafforzare un sistema di apartheid. Inoltre, stabilendo che il conferimento dei diritti dipende dalle origini, la “cittadinanza europea” contribuisce a incrementare la xenofobia e il razzismo, e la tendenza a considerare illegittima la presenza dei non-nazionali provenienti da paesi terzi, anche quando risiedono in Europa da lungo tempo o addirittura vi sono nati.

A tale concezione retriva della cittadinanza, che rispecchia e allarga su scala europea l'ideologia che lega il conferimente dei diritti al principio della nazionalità, è necessario opporre un'altra concezione, che denaturalizzi la nazionalità e disarticoli il nesso arcaico che la lega alla cittadinanza. Occorre dunque battersi per la cittadinanza europea di residenza, cominciando con il sostenere e allargare la campagna “per un milione di firme” che è in corso in molti paesi dell'Ue, promossa da un ampio cartello di associazioni. Questa campagna parte dall'assunto che “un'Europa democratica, non può costruirsi sull'esclusione di milioni di persone che vivono, lavorano, consumano, si incontrano nelle associazioni, partecipano alla vita economica, sociale sindacale, culturale, e sono direttamente toccati da tutte le disposizioni emanate dalle diverse istanze europee”. Essa mira a indurre le varie istanze politiche dell'Ue ad adottare una concezione e definizione della cittadinanza euopea che affermi, che è cittadino dell'Unione europea ogni persona che risieda nel territorio di uno degli stati membri.

5.8 Il lavoro migrantevai a indice

In tutti i paesi d'Europa i lavoratori migranti sono in molti casi fruttati come mano d'opera a basso costo, meno rivendicativa e perennemente sospesa fra l'assunzione più o meno regolare e il lavoro nero. Molti sono impiegati in agricoltura, nell'edilizia e nella piccola industria con forme estreme di lavoro interinale e di capolarato, nell'industria spesso gli orari di lavoro non corrispondono alle reali prestazioni e si riservano loro fasi di lavorazione altamente nocive, ovunque per i migranti il numero degli incidenti sul lavoro è superiore a quello relativo ai lavoratori autoctoni. Occorre battersi per una normativa europea contro lo sfruttamento e il lavoro nero, occorrono controlli sui posti di lavoro e va favorita e sostenuta ogni forma di sindacalizzazione e di aggregazione autorganizzata dei lavoratori migranti. La rivendicazione sintetizzata dallo slogan “stesso lavoro, stesso salario, stessi diritti” deve riguardare tutta l'Europa. Devono essere impedite forme di reclutamento che riducano il lavoratore a merce, come nei casi di accordi con i governi dei paesi di provenienza che permettono alle imprese europee di scegliere sul posto i lavoratori, con la formazione di liste compilate su basi non tanto professionali quanto di “tipologia umana” (giovani, maschi, non sposati, non sindacalizzati…) per utilizzarli a tempo in Europa o nei paesi terzi in cui si è spostata la produzione. Anche l'allargamento dell'Europa ai nuovi paesi dell'Est, paesi di forte emigrazione, può favorire la creazione di un sistema gerarchico del mondo del lavoro che, dopo gli autoctoni, veda i nuovi migranti comunitari, bianchi e di cultura occidentale cristiana, poi, ad un gradino ancora più basso, i lavoratori africani, asiatici e latinoamericani e, in fondo alla scala, gli “irregolari”, i lavoratori in nero. Una scala che potrebbe innescare un meccanismo incontrollabile di guerra fra i poveri, con il risultato di rendere più precarie le condizioni di vita e di lavoro di tutti. Contro queste tendenze deve essere forte la vigilanza dei partiti della sinistra e dei sindacati europei e sarebbe auspicabile la creazione di un Osservatorio Europeo per il diritto al lavoro e per i diritti del lavoro.

5.9 La “questione di genere”vai a indice

L'immigrazione femminile in aumento rappresenta un elemento importante di cambiamento. Una parte consistente della presenza femminile è dovuta ai ricongiungimenti familiari e favorisce quindi lo stabilizzarsi di progetti di vita a lungo termine e comporta anche l'aumento della presenza dei minori. Una parte è invece rappresentata da donne migranti che, come gli uomini, vengono in Europa per lavorare o per sfuggire a guerre, persecuzioni, violenze.

Per tutte loro sono innumerevoli le difficoltà ad avere garantita una reale parità nell'accesso ai servizi sociali, se si escludono poche eccezioni come l'inserimento dei minori nei circuiti scolastici ed il pronto soccorso medico. Particolarmente difficile è la situazione delle donne impegnate nei lavori di cura presso le abitazioni degli autoctoni, esse vivono in condizioni di invisibilità, sottomesse ad orari di lavoro incontrollabili, prive di reale tutela, con scarse possibilità di emancipazione, di sindacalizzazione, di conquista di spazi di socialità.

Occorre un impegno per una politica sociale mirata ad assicurare un reale accesso ai servizi sociali. La casa, la sanità, la formazione e l'istruzione, i diritti politici, civili e sociali sono i settori di intervento da privilegiare, mentre ogni sostegno va assicurato ai percorsi autonomi di autodeterminazione della soggettività femminile migrante. Anche in questo caso un Osservatorio europeo per i diritti delle migranti e contro ogni discriminazione sarebbe auspicabile.

5.10 I diritti dei romvai a indice

In tutta l'Europa i rom vivono condizioni di discriminazione e segregazione. È necessario dare attuazione alle normative europee che richiedono la costituzione di aree di transito libero in ogni comune al fine riconsentire la sosta dei rom e, soprattutto, occorre una normativa comune per il riconoscimento di minoranza del popolo rom. Va incoraggiata, inoltre, la abolizione dei campi stabili, veri luoghi di segregazione, per favorire scelte abitative e urbanistiche condivise e più umane.

5.11 Contro la xenofobia e razzismovai a indice

La guerra preventiva e permanente scatenata dall'amministrazione Bush si è tradotta anche nei paesi dell'Ue in nuove forme di discriminazione e persecuzione dei migranti, e di criminalizzazione dei provenienti da paesi classificati come musulmani. La “guerra contro il terrorismo internazionale” ha così rafforzato l'endemica presenza in Europa di sentimenti, atteggiamenti, atti di xenofobia e razzismo, e ha incrementato comportamenti, pratiche e norme discriminatorie verso i cosiddetti extracomunitari, rinsaldando la “madre” di tutte le discriminazioni, vale a dire la dicotomia comunitari/”extracomunitari” e la conseguente rigida distinzione regolari/irregolari. Ovunque in Europa, seppure in gradi diversi, si verifica un'ondata di islamofobia che s'accompagna a opinioni, umori, atti di giudeofobia, l'una e gli altri favoriti dalla guerra preventiva e permanente e dalla recrudescenza del conflitto israelopalestinese.

Al tempo stesso, in non pochi paesi dell'Ue, si assiste al ritorno di acute espressioni di etnocentrismo che, vuoi sotto la maschera della difesa della laicità e dell'universalismo (come in Francia) vuoi sotto la forma retriva della difesa delle radici cattoliche (come in Italia), tendono a denegare o mortificare l'incancellabile realtà del pluralismo culturale e religioso, per contrastare, anche per questa via, le spinte all'inserimento, all'autodeterminazione, all'emancipazione di individui e gruppi di popolazione immigrata o di origine immigrata.

Questi fenomeni e processi non possono essere sottovalutati e/o considerati “sovrastrutturali”, essendo parte integrante di quella “guerra permanente contro le migrazioni” che, in maniera solo apparentemente contraddittoria, convive con l'esigenza delle economie dei paesi dominanti di disporre, per massimizzare i profitti, di una continua riproduzione di manodopera precaria, inferiorizzata o del tutto clandestina. In questa duplice tendenza la discriminazione e il razzismo giocano un ruolo fondamentale: il supersfruttamento della forza-lavoro immigrata, spesso priva di ogni tutela, l'imposizione di rapporti di lavoro servili o semi-servili sono favoriti dai processi di discriminazione, inferiorizzazione, razzizzazione, “nemicizzazione” dei migranti.

Le iniziative promosse dai vari organismi dell'Ue per combattere discriminazione, xenofobia e razzismo talvolta risultano retoriche e inefficaci poiché non intaccano una delle basi ed espressioni fondamentali della discriminazione e del razzismo, cioè l'esistenza di un diritto differenziato sulla base della provenienza e dell'origine, drammaticamente esemplificato dalla presenza, in tutto il territorio dell'Ue, dei centri di detenzione per migranti e profughi, in violazione dell'habeas corpus, principio fondativo del diritto.

A tal proposito, è necessario battersi perché nella Carta costituzionale dell'Unione Europea siano inseriti: l'esplicita ripulsa di ogni forma di discriminazione e razzismo; la cittadinanza europea di residenza; il principio della parità di trattamento e dell'uguaglianza dei diritti, in campo economico, sociale, civile, politico, di tutti i residenti nel territorio dell'Unione, indipendentemente dalla provenienza e dallo status giuridico.

Vanno proposte e favorite tutte le iniziative volte a denunciare e combattere le espressioni di discriminazione e razzismo istituzionali nonché i discorsi e gli atti degli imprenditori politici del razzismo (Lega Nord e altri partiti populisti-xenofobi in Europa). E' inoltre necessario proporre, sia a livello nazionale sia a livello comunitario, strumenti efficaci e capillarmente diffusi per monitorare costantemente e sistematicamente la xenofobia, il razzismo e l'antisemitismo, e per offrire alle vittime ogni opportunità di denuncia e di tutela legale.

Infine, occorre attivare e proporre strumenti, anche giurisdizionali, perché la realtà del pluralismo culturale e religioso trovi nell'Ue un effettivo riconoscimento e possibilità di espressione.

PARTE SESTA. PER UNA COSTITUZIONE DEMOCRATICA DELL'EUROPA

6.1 Per una vera democrazia in Europavai a indice

Abbiamo già ricordato il significato del fallimento della Commissione intergovernativa europea nel definire un progetto condiviso di Costituzione. E' un fallimento che arriva da lontano, causato da ragioni di merito e di metodo. Le dichiarazioni ottimistiche da parte di vari rappresentanti di governi europei sulla possibilità di giungere a Giugno alla firma del progetto costituzionale si susseguono. Viste le premesse è lecito dubitarne. In ogni caso dobbiamo contrapporre a quei metodi e a quei contenuti l'avvio di un processo costituente aperto, perchè i popoli, i soggetti sociali, i movimenti diventino i protagonisti della costituzione di una nuova Europa.

6.2 Una nuova Carta per l'Europa pacifista, democratica, sociale e federalistavai a indice

Il 12-13 dicembre 2003 a Bruxelles, la CIG ha fallito nel suo intento di approvare il Trattato costituzionale, paralizzata da veti reciproci sulle 'quote' di potere e da profonde divisioni politiche sulla natura istituzionale e sociale, così come sul ruolo internazionale dell'UE. La CIG ha fallito perché divisa sulle scelte dell'amministrazione Bush, che vuole un'Europa supina agli interessi degli USA, e a cui nessun Stato europeo è stato in grado di contrapporre un progetto di un'Europa pacifista, sottratta al confronto tra potenze geopolitiche, fattore di pace e di giustizia tra i popoli. Ha fallito perché si è perseverato nel metodo intergovernativo e funzionalista, che privilegia il mercato come forza d'integrazione. Tranne l'egemonismo armato degli USA, le classi dirigenti non sono capaci di sviluppare un disegno politico e sociale: Cancun e Bruxelles sono la testimonianza di un impasse globale.

I governi pretendono di esercitare il potere costituente riducendo la partecipazione delle/dei cittadine/i dai processi di decisione relativi ai diritti fondamentali e alla regolamentazione delle competenze istituzionali. I processi costituenti necessitano dell'attiva presenza dei popoli europei che per l'Unione segnerebbe finalmente l'avvio del superamento del deficit democratico. Oggi gli Stati, attraverso l'art. 48 del Trattato UE, dominano il processo di revisione, che sostanzialmente è stato riproposto nell'art. IV-7 del Trattato costituzionale.

Ora deve dispiegarsi con maggior determinazione una soggettività costituente per un'Europa, che superi le sovranità statali nazionali, fondi una cittadinanza cosmopolita, si doti di strumenti di politica economica per una gestione democratica dei beni comuni e dei servizi pubblici universali - un'Europa non più mercantile, ecologicamente e socialmente sostenibile. La democrazia federalista è la via per articolare su 'reti multilivello' - a partire dai municipi fino alle dimensioni continentali - le forme della partecipazione diretta delle/i cittadine/i, così da superare l'accentramento dei poteri decisionali sia statali sia sovranazionali.

A Parigi si è lanciata la proposta, ribadita poi nell'assemblea di Roma, all'insieme dei movimenti europei, di costruire un percorso comune al fine di predisporre una Carta per l'Europa, frutto della partecipazione dei diversi attori sociali, sindacali e politici La sfida per un'Europa - pacifista, democratica, sociale e federalista - è più che mai aperta.

Dinanzi alle profonde divisioni tra i governi e alle difficoltà di accordarsi perfino su un Trattato costituzionale, dovremo accentuare la capacità di risposta culturale e politica con l'obiettivo di superare questa fase in cui gli Stati sono ancora i centri di potere decisionale determinanti, per intraprendere una via democratica capace di coinvolgere le/i cittadine/i europee/i nell'elaborazione e varo della Costituzione.

Se mai gli governi troveranno un accordo, sarà ancora una volta un Trattato a definire competenze e diritti dell'Unione, e saranno ancora Trattati - secondo anche le previsioni dell'articolo IV-7 - a regolare la revisione costituzionale: così l'Unione continuerà a essere un mixtum compositum tra diritto internazionale e diritto costituzionale, ciò che consente agli Stati di essere elemento determinante dei processi decisionali - politici, legislativi e costituzionali. L'Unione, regolata da un diritto sovranazionale che ha il primato, con diverse modalità, sul diritto statale, non è più un'associazione di Stati ma non è ancora una federazione: il principio di sussidiarietà verticale se stabilisce centri di potere multilivello, non ha creato una democrazia federalista in grado di superare il centralismo della sovranità nazionale e di istituire una pluralità di forme di partecipazione - municipale, regionale, nazionale, europea - in cui i processi decisionali vedano come protagonisti diretti le/i cittadine/i. Il metodo intergovernativo non è in grado di aprire una prospettiva democratica alla vita dell'Unione, e il trasferimento di 'quote' di sovranità sono di nuovo riacquisite tramite i Consigli dei ministri e il Consiglio europeo.

La lotta per la democrazia costituzionale europea è dentro un processo costituente finora dominato dagli Stati, sia pure con il nuovo metodo della Convenzione, e mira a far emergere come protagonista la cittadinanza globale. Questa prospettiva apre uno dei terreni di lotta per togliere il primato al mercato e favorire uno sviluppo democratico dell'Unione.

Questo compito non può essere assolto solamente con la difesa delle tradizionali forme di democrazia, che pure, come abbiamo già detto, sono minate alla radice dalle forze dominanti, ma proprio perché la difesa sia efficace bisogna che il concetto e l'organizzazione della democrazia siano ampliate attraverso una più diretta partecipazione dei cittadini. In sostanza di ritratta di delineare un modello originale di integrazione tra democrazia diretta e democrazia delegata. In questo quadro assume particolare importanza a assicurare forme di espressione democratica ad ogni livello della vita sociale e nei luoghi di lavoro. Nel nostro paese, ma ovviamente non solo, assume un'importanza fondamentale il tema della democrazia sindacale e di mandato, ossia la garanzia e l'effettività del diritto di tutte le lavoratrici e i lavoratori di votare sulle ipotesi di accordo sindacale che riguardano la loro condizione lavorativa.

I movimenti antiliberisti, il movimento dei movimenti, vanno creando spazi pubblici, vere e proprie agora a livello territoriale ed europeo così come a quello mondiale: i Forum sociali sono luoghi del 'discorso pubblico', ove tutti/e possono partecipare per proporre e confrontare obiettivi e progetti - sono luoghi di creazioni di 'senso' e di pratiche sociali innovative, necessari per lo sviluppo dei conflitti sociali in grado di indurre processi di trasformazione. Nei nuovi spazi pubblici si definiscono valori e comportamenti che modificano il modo d'essere e di 'sentire' della società - nella campagna mondiale contro la guerra permanente e per la pace il movimento ha inciso e determinato gli orientamenti di fondo della maggioranza della popolazione: il pacifismo, il no alla guerra esprimono un sentimento diffuso, generale che la retorica del patriottismo occidentalista non riuscirà facilmente a scalfire. Su questa creazione di un nuovo 'senso comune' occorre innervare una capacità di lotta per realizzare trasformazioni sociali, politiche, e istituzionali: movimenti e campagne di lotta, proposte di innovazione costituzionale, attivazione di strumenti legislativi ecc., per i diritti universali di cittadinanza, il ripristino e/o l'istituzione della gestione democratica dei beni collettivi (salute, formazione, previdenza, lavoro…) e dei beni comuni (le risorse naturali, terra, acqua, energia).

L'Unione può divenire uno spazio pubblico ove realizzare forme democratiche pluralistiche e partecipate, e praticare il superamento dello Stato e della sovranità nazionali, per istituire una democrazia costituzionale europea.

La Costituzione è una carta dal valore normativo, secondo quanto già chiaramente affermato nella Dichiarazione del 1789, ma è anche l'esito del rapporto molteplice e in continua trasformazione tra potere costituente e poteri costituiti. Come solennemente e giustamente diceva la Costituzione francese del 1793 “Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, riformare e cambiare la propria costituzione. Una generazione non può assoggettare alle sue leggi generazioni future”.

L'Unione deve essere federalista, ma in un senso completamente diverso da quello che purtroppo questo termine ha assunto nel linguaggio politico corrente, particolarmente nel nostro paese, a causa dell'uso e della distorsione fattane da forze politiche vocaliste e separatiste. Il suo corretto significato implica il superamento di forme piramidali e centralizzate dei processi decisionali, in modo che le scelte collettive siano il frutto della partecipazione della cittadinanza e i diversi livelli non siano concepiti in modo gerarchico ma come livelli diversificati e interrelati - la democrazia multilivello - sempre garantendo che la deliberazione sia effettuata in modo democratico, controllato e trasparente. Per questo le esperienze di democrazia municipale, la pluralità istituzionale, le forme della rappresentanza democratica si intrecciano e hanno come base una società caratterizzata dall'attività di movimenti, associazioni, sindacati, partiti. Tanto più gravi risultano, allora, i limiti del processo legislativo come prefigurato dal Trattato che, se innova la nomenclatura dei provvedimenti (artt. I-32-38), non rende né trasparenti né più democratiche le procedure legislative e di revisione costituzionale (artt.I-25, III-302, IV-7, che razionalizzano le procedure del Trattato CE, v. agli articoli 249 ss.). Per quanto riguarda la politica estera e difesa rende ininfluente il Parlamento, mantenendo l'unanimità del Consiglio su queste materie, e in relazione alle politiche economiche, mentre rende la Banca centrale responsabile della politica monetaria, non introduce una comune politica fiscale e di bilancio - così valgono, fin quando vogliono gli Stati più forti, le regole del patto di stabilità, di controllo dell'inflazione, di tagli alla spesa pubblica sociale.

È di assoluta rilevanza la modifica dell'art. IV-7 di revisione costituzionale che non deve più vedere gli Stati 'padroni' di questa fondamentale competenza che deve essere trasferita al Parlamento europeo, che decide con procedure rafforzate. Questa innovazione porrebbe fine all'epoca dei Trattati, aprendo la via a un'Unione sovranazionale.

La procedura legislativa deve essere democratizzata e il Parlamento ne deve divenire la sede competente, superando le barocche forme della codecisione (art.III-302) che danno al Parlamento solo un diritto di veto su una serie definita di materie, sia pure di rilievo. Il diritto di iniziativa legislativa deve essere condivisa a pieno titolo dal parlamento e non solo più monopolizzata dalla Commissione (art.I-25,2). Occorre introdurre forme di iniziativa legislativa popolare, oltre a quella delle istituzioni territoriali rendendo più incisive le misure previste dagli artt.I-46 e 47. È necessario trasformare il Consiglio dei ministri e il Consiglio europeo in una Seconda Camera, che rappresenti le diverse realtà territoriali - proposta già presente nel progetto Spinelli approvato dal Parlamento europeo il 14 febbraio 1984 - in modo da strutturare un vero e proprio sistema federale sovranazionale. In questo modo si supererebbe la commistione di potere esecutivo e legislativo che caratterizza le formazioni dei Consigli (art.I-23). La Commissione dovrebbe essere eletta e sottoposta alla fiducia delle Camere.

Forme di controllo, insieme a quelle di iniziativa legislativa popolare (art.I-46), e di accesso ai documenti, alcune delle quali peraltro già previste (artt.II-42 e II-27), dovrebbero definire un quadro di procedura legislativa democratica.

La democrazia non è solo metodo decisionale (chi e come decide), è anche affermazione di valori universali, vincolanti per le tutte le istituzioni e gli organismi politici. Valori sottratti alle maggioranze a garanzia delle libertà e dei diritti della persona, che così è posta nelle condizioni di esercitare la propria autonomia e sviluppare il proprio progetto di vita senza intrusioni arbitrarie. La neutralità delle istituzioni politiche è un valore conquistato da secoli, per questo è lesivo del principio di laicità l'articolo I-51, che recepisce la Dichiarazione 11 del Trattato di Amsterdam. Per questo vanno respinte le proposte di inserire un riferimento alle cosiddette radici giudaico-cristiane dell'Europa. Ciò nega la pluralità delle credenze e la storia stessa del nostro continente e lede la libertà di religione che è un diritto fondamentale che va garantito insieme con la libertà di coscienza, peraltro già accolti nella Carta di Nizza.

Se intorno al nucleo della dignità della persona, sancita dagli articoli I-2 e II-1, si articolano diritti inviolabili, propri delle tradizioni costituzionali europee, la pace non viene assunta come valore fondante della società europea. Pace non concepita solo per i popoli dell'Unione o dell'Europa - secondo una ristretta visione eurocentrica - ma concepita come nuova fondazione dell'ordinamento mondiale, in cui la guerra venga bandita, ripudiata, come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.

Per questo è necessario che sia aggiornato il concetto di pace come valore in costruzione e non solo al negativo come assenza di conflitto, come le Carte novecentesche hanno prescritto.

In capo alla Costituzione, nel suo primo articolo, vanno iscritte le disposizioni che sono contenute nell'articolo 11 della Costituzione italiana e che concernono il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Il pacifismo dei movimenti entra nel processo di costituzionalizzazione dell'Europa con quelle azioni di disobbedienza civile e di interposizione pacifica, laddove la guerra globale permanente e i conflitti scatenati in suo nome contro minoranze e civili imperversano e diventano i luoghi di costruzione del nuovo ordine globale. Ciò comporta la soppressione degli articoli I- 15, I-39, I-40, e l'intero Titolo V della III Parte.

L'articolo I-8 lega ancora la cittadinanza allo Stato nazionale come stabilito già dal Trattato di Amsterdam (ora art. 17 Trattato CE), e nella parte III si delineano le politiche 'securitarie' nei confronti dell'immigrazione. Gli Stati recuperano su questo cruciale terreno il 'monopolio della violenza' e le politiche d'identità fondate sull'individuazione del nemico nella/nel migrante. Così si concepisce una 'democrazia europea' dimezzata, e in più ferita a morte dal 'razzismo', che definisce chi è cittadino e chi no: non può essere democratica una società che relega a uno status inferiore milioni di persone che vivono in Europa. Per questo la lotta per una cittadinanza di residenza, plurima e flessibile, è fondamentale per la democrazia europea, tenendo conto che essa è solo il punto di partenza in un'Europa della cittadinanza globale che rinunci per sempre allo jus sanguinis e allo jus soli. A tutte/i le/i migranti vanno garantiti i diritti fondamentali civili e sociali, a cominciare dal diritto all'emigrazione e al rientro nel territorio d'origine: a chi lo chiede, poi, va garantita la cittadinanza e l'esercizio di tutti i diritti politici. Il diritto d'asilo va garantito ampliando lo spettro delle possibilità (da quelle di oppressione politica alle situazioni di guerra, di calamità e disastri ambientali, alle persecuzioni causate dalle scelte sessuali, alla violazione dei diritti della persona). L'Europa deve essere multietnica, multiculturale, meticcia, rispettosa dei diritti delle minoranze - laboratorio della cittadinanza cosmopolita in netta antitesi con quanto previsto dagli articoli III-166-169. La Convenzione internazionale sui lavoratori migranti e le loro famiglie può essere una base di riflessione e di mobilitazione (Convenzione sui migranti, artt. 8-56).

L'uguaglianza è stata, nelle ultime redazioni del Trattato, assunta tra i valori fondamentali, declinata però solo sotto l'aspetto sia pur importante delle pari opportunità. La questione rimane quella di intenderla e praticarla anche come differenza di genere, perché solo così una serie di fenomeni e comportamenti possono essere combattuti e superati. Nella famiglia anche nell'evoluta Europa dominano forme di patriarcato, di divisione sessista del lavoro (e del non lavoro), viene ancora disconosciuta la specificità femminile nella riproduzione della vita, sul corpo della donna vengono ancora esercitate forme di dominio che ne opprimono l'autonomia e la libertà. Nell'Europa multietnica la garanzia della libertà e dell'autonomia hanno bisogno non solo di 'parità' ma di politiche della differenza, per eliminare i fenomeni che sono stati chiamati di missed women, a livello sociale e spesso a livello fisico. La “Tavola della Pace” giustamente propone una formulazione centrata sul “diritto fondamentale all'uguaglianza di statuto della donna e dell'uomo in tutte le sfere della vita politica e sociale”. Può essere un'indicazione per una formulazione più ampia capace di prescrivere un'uguaglianza 'sessuata'.

Il diritto del lavoro è stato 'sovvertito' dalle politiche liberiste, creando ormai un vero e proprio workfare che fa precipitare di nuovo il/la lavoratore/trice in un rapporto di pura forza nel mercato, dove ritrova solo la sua debolezza, sopperita nel Novecento dal diritto del lavoro emancipatosi dalla disciplina commercialista (dove lo si vuole di nuovo ricondurre). L'occupabilità è divenuta la parola magica per spezzare le solidarietà del lavoro e far divenire il lavoratore 'imprenditore di se stesso': la mercificazione della persona si ripresenta nel capitalismo globalizzato - il migrante può restare solo fin quando ha un contratto di lavoro, il nativo è divenuto precario a vita: l'insicurezza è la frusta per accettare modi e salari 'imposti' dalla competitività globale. L'individualizzazione del rapporto di lavoro è l'obiettivo delle 'riforme' del mercato del lavoro: la moltiplicazione delle forme contrattuali - specchio dei processi produttivi flessibili, decentrati, diffusi sul territorio - frammenta il mondo del lavoro e rende sempre più difficile la difesa e la crescita del salario, così come della qualità della vita e del lavoro. Nella Costituzione europea, coerentemente con gli auspici dell'Unione Europea sulla promozione della “società della conoscenza” dovrebbero esser scritti i diritti inerenti all'intero arco di nuove garanzie per le forme di lavoro immateriale e le diversificate forme di sfruttamento della merce-conoscenza e della merce-informazione, la risorsa più preziosa del nuovo millennio, sottoposta oggi alla totale deregolamentazione e all'arbitrio della proprietà intellettuale. L'intreccio di lavoro e non lavoro, tra formazione e lavoro, la differenziazione della tipologia contrattuale richiedono un vero e proprio Statuto europeo del lavoro, capace di offrire strumenti di garanzia e di democrazia - occupazione, licenziamento, orario, flessibilità, salario, rappresentanza e democrazia sindacale…. Sono capitoli che vanno scritti in lingua europea.

Il movimento antiliberista nasce e si sviluppa su questioni globali e coinvolge i popoli dell'intero pianeta: è un movimento che può e deve affrontare i temi della società sostenibile, base necessaria di una società giusta. Le crisi ambientali mettono in pericolo le stesse basi della sopravvivenza del genere umano: la crescita illimitata, caratteristica del capitalismo, fa sì che il Nord del mondo - 600 milioni di persone - usi risorse naturali in modo distruttivo e consumi in modi insostenibili per gli equilibri della biosfera - a danno degli altri 5 miliardi e mezzo di persone del Sud del mondo. La spoliazione delle risorse fisiche del pianeta è uno dei moventi della guerra globale permanente. Terra, clima, risorse energetiche e minerali, acqua sono oggetto di conflitti e cause di guerra, e al tempo stesso possono essere gli assi di una lotta globale per la sostenibilità ecologica, che veda insieme popoli nativi, contadini, lavoratori, del Sud e del Nord del mondo. Sovranità alimentare con produzioni biologiche, acqua ed energia come beni comuni, produzioni e consumi legati ai cicli naturali, manutenzione del territorio sono le scelte di fondo, da costituzionalizzare a livello europeo, per trasformare un modo di produzione ingiusto socialmente e insostenibile ecologicamente.

Nella sua Carta costituzionale l'Unione Europea deve prevedere come obiettivo quello di porre fine all'appropriazione ineguale e distruttiva delle risorse del pianeta e contribuire alla realizzazione di sedi democratiche a livello globale, finalizzate a impedire processi di spoliazione da parte dei paesi e dei poteri economici più forti, nei confronti del resto del mondo.

6.3 La lotta al terrorismovai a indice

La discussione sul «terrorismo internazionale» ha una lunga storia. Basti pensare che i lavori per la conclusione di una convenzione globale contro il «terrorismo internazionale» si trascinano alle Nazioni Unite dal 1972. Le difficoltà di giungere a una conclusione sono di natura politica, e talmente radicali da impedire il raggiungimento di un accordo sul concetto stesso di terrorismo. Per fare solo un esempio (mutuato dal conflitto israelo-palestinese) resta il problema di una definizione condivisa degli atti di belligeranza compiuti in territorio occupato dall'occupante e, specularmente, da parte dei movimenti di liberazione nazionale.

Gli attentati dell'11 settembre hanno determinato un salto di qualità in questa discussione, accelerando - da un lato - la produzione di deliberati e l'assunzione di misure di prevenzione e contrasto da parte degli Stati e degli organismi sopranazionali; ma rischiando - dall'altro - di imprimere alla materia un marchio emergenziale, con tutti i pericoli che ne conseguono sul versante del rispetto dei diritti fondamentali, delle garanzie giuridiche e delle libertà civili.

Per quanto concerne i deliberati e le misure di ordine normativo, si pensi in particolare alla risoluzione 1373 dell'Onu (28 settembre 2001), alla Decisione quadro del Consiglio dell'Unione europea in tema di lotta contro il terrorismo (13 giugno 2002) e, sul piano nazionale, alla profonda modifica degli artt. 270 bis e ter del codice penale italiano (introdotta con dl. 374 del 18 ottobre 2001, convertito, con modificazione, dalla l. 438 del 15 novembre 2001 «Disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale»).

Rispetto al connotato emergenziale di questi testi, è opinione largamente condivisa che essi siano stati profondamente influenzati dalle misure legislative introdotte negli Stati Uniti all'indomani dell'11 settembre (a cominciare dalla nuova versione del Patriot Act, promulgata il 26 ottobre del 2001), misure - com'è noto - segnate da un forte ampliamento dei poteri delle forze di polizia e dei servizi di intelligence con gravi ripercussioni di natura costituzionale (limitazioni della libertà personale, dei diritti di riservatezza, delle garanzie processuali, delle libertà civili).

Queste considerazioni preliminari - forse generiche e scontate - debbono essere tenute presenti non solo come elementi storici di sfondo, ma anche come criteri di valutazione, nel senso che se è plausibile ritenere che il «terrorismo internazionale» sia entrato a far parte del panorama della politica internazionale nell'era della cosiddetta «globalizzazione», ciò impone di prendere distanza da un approccio puramente emergenzialistico per ricercare contromisure capaci di equilibrare le esigenze della sicurezza con quelle non meno irrinunciabili del rispetto dei diritti fondamentali.

6.4 La critica all'attuale normativa antiterrorismovai a indice

Consideriamo a questo punto alcuni problemi posti dall'attuale normativa antiterrorismo (sia in ambito nazionale che in ambito europeo).

Il primo problema concerne, come si accennava, l'assenza di una definizione univoca del concetto di terrorismo. Com'è stato notato, «la mancanza di una definizione interna di terrorismo […] rende generico ed indeterminato il fatto descritto dalla norma, in violazione di quel principio di stretta legalità sancito nella Costituzione (art. 25 co. 2)». Le norme prodotte sull'onda dell'emozione suscitata dall'11 settembre hanno reso ancor più evanescente la figura del reato. Ciò ha prodotto due ordini di conseguenze: da un lato, la carenza di tassatività delle nuove norme genera seri rischi di impiego arbitrario degli strumenti di repressione (che possono essere rivolti anche contro movimenti sociali di protesta o contro l'immigrazione «clandestina»); dall'altro, sul versante internazionale, si è ingenerato il rischio che venga considerata terroristica «qualunque forma di attività politica caratterizzata da violenza nei confronti di qualunque potere costituito, a prescindere dalla presenza anche di quei requisiti minimi di democraticità che presentano le democrazie occidentali (in senso oggettivo)».

A dimostrazione della portata di tali pericoli, basterà - da un lato - considerare che, sulla base della Decisione quadro dell'Ue, possono essere sanzionati come reati terroristici gli atti tesi a «destabilizzare gravemente […] le strutture […] economiche o sociali di un paese» o a «costringere indebitamente i poteri pubblici […] a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto»; e rilevare - dall'altro - che l'elenco dei gruppi considerati terroristici allegato al Regolamento del Consiglio dell'Ue ha via via compreso, tra le altre formazioni politiche, non solo (2 maggio 2002) l'oggi disciolto Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) ma, da ultimo (3 aprile 2004), persino il Congresso del popolo del Kurdistan (Kongra-Gel), e ciò mentre la Corte europea dei diritti umani avalla la decisione del governo di Ankara di sciogliere il Partito della prosperità (Refah partisi), di ispirazione islamica.

Il secondo problema sul quale è opportuno porre l'accento concerne il tratto più caratteristico della legislazione anti-terrorismo prodotta nel corso degli ultimi due anni e mezzo, cioè la relazione tra l'intento preventivo e quello repressivo.

Un'opera di prevenzione, di intelligence, di collaborazione internazionale e su scala specificatamente europea è assolutamente necessaria per scongiurare atti terroristici e sconfiggere il fenomeno. Ma l'organizzazione di questa azione deve avvenire nel pieno rispetto dei diritti e delle garanzie democratiche e non portare distorsioni nell'ordinamento giuridico. Com'è stato opportunamente sottolineato, la preminenza dell'ottica preventiva può portare con sé anche il dilatarsi dei margini di discrezionalità, in quanto il metodo dell'intelligence (e dunque quello della prevenzione) tende a divergere rispetto a quello della repressione giudiziaria, giacché solo quest'ultima deve fare i conti con la volontà della legge e con gli strumenti processuali - fissati a priori - che permettono di realizzarla In un certo senso, si potrebbe dire che la carenza di tassatività - con tutti i rischi che ne discendono in termini di violazione del dettato costituzionale e di offuscamento della certezza del diritto - è di per se stessa conseguenza di una distorsione del principio della prevenzione».

Per fare anche a questo proposito un esempio, si pensi alla normativa italiana in materia di intercettazioni (art. 5, l. 438/2001), dove non si corre solo il rischio che l'esecutivo (nella persona del ministro dell'Interno o di suoi delegati) svolga «attività di polizia giudiziaria irrituali e scevre da ogni riscontro con la legge processuale penale», ma anche (data l'estrema genericità del dispositivo) che vengano di fatto legittimate attività di «ascolto indiscriminato e, per così dire, a tappeto, nei confronti di chiunque, superando i rigidi divieti tracciati al riguardo dalla legge processuale penale». Per non parlare delle recenti normative americane sul controllo degli ingressi di cittadini stranieri sul territorio americano.

6.4.1 Alcune propostevai a indice

Tutto ciò non comporta tuttavia l'idea che l'interesse inerente alla libertà e alla tutela delle garanzie, della privacy e dei diritti fondamentali cancelli quello connesso alla necessità di reprimere e anche di prevenire i reati: pone piuttosto l'esigenza che tra questi due interessi - in naturale tensione reciproca - si ricerchi l'equilibrio più avanzato, resistendo alla tentazione di giustificare scorciatoie con l'evocazione di emergenze o di scenari catastrofici.

Attraverso quali criteri ricercare tale equilibrio? Da un lato non si può non convenire sulla necessità di promuovere, in ambito comunitario, una progressiva uniformazione normativa (sul piano sostanziale e procedurale) che agevoli la collaborazione tra gli Stati membri e i rispettivi organismi competenti in materia (magistratura, servizi di intelligence, forze di polizia, autorità doganali ecc.). L'opposizione che abbiamo invece sempre manifestato, anche nelle sedi parlamentari, al delicato problema del «mandato europeo di ricerca e di arresto», è dovuta al fatto che esso viene proposto senza un quadro, anzi del tutto al di fuori e indipendentemente da esso, di esigenze non negoziabili di tutela dei diritti fondamentali costituzionalmente protetti. In assenza, cioè, di una Costituzione europea condivisa e vigente.

Altre misure concernono l'istituzione di un coordinamento europeo nella lotta antiterrorismo, che non può però certamente ridursi ad un'unica persona; l'adozione di una clausola di solidarietà nei confronti di un Paese bersaglio di atti terroristici (evitando tuttavia controproducenti precipitazioni militari); il potenziamento degli strumenti idonei a facilitare l'identificazione delle persone, senza venire meno agli elementari principi del rispetto della privacy (attraverso idonei documenti suscettibili di raggiungere più elevati standard di precisione in virtù delle cosiddette «impronte genetiche») ; e soprattutto a garantire maggior trasparenza nei flussi finanziari (una materia, questa, nella quale le strategie anti-terrorismo possono virtuosamente interagire con la lotta alla criminalità finanziaria e di stampo mafioso).

Dall'altro lato occorre tenere fermo il riferimento ai principi costituzionali e agli stessi valori fondanti la costruzione dell'Unione europea. Si tenga presente, a questo proposito, quanto ripetutamente asserito dai testi fondativi dell'Unione: per fare solo due esempi recenti, il Trattato di Maastricht (art. 11, co. 5) prescrive all'Unione un'azione rivolta allo «sviluppo e [a]l consolidamento della democrazia e dello Stato di diritto, nonché [a]l rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali»; a sua volta, la «Relazione esplicativa» che accompagna la Proposta del Consiglio europeo in materia di lotta contro il «terrorismo internazionale» (riunione del 21 settembre 2001) ribadisce (punto 1, § 5) che «l'Unione europea e i suoi Stati membri sono fondati sul rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, sulla garanzia della dignità dell'essere umano e sulla protezione di tali diritti».

Queste dichiarazioni - e maggior ragione le Costituzioni degli Stati membri - non possono essere ridotte ad orpelli retorici, pena la perdita di credibilità e il declino delle istituzioni comunitarie. Per evitare tali esiti, una prima contromisura indispensabile (come dimostra, in negativo, l'esperienza sin qui maturata in rapporto all'attività di Europol e di Eurojust, del tutto impenetrabile al controllo dei parlamenti nazionali e del parlamento europeo) potrebbe essere la creazione di Autorità indipendenti di controllo e di vigilanza sull'operato degli organismi nazionali e comunitari preposti alla lotta contro il «terrorismo internazionale». Tali Autorità - soggette solo al controllo parlamentare - dovranno essere munite di strumenti investigativi e operativi che le pongano in condizione di verificare in tempo reale l'operato di magistratura, forze di polizia e servizi di intelligence e di intervenire efficacemente in caso di ricorso a procedure illegali o di indebito impiego delle norme anti-terrorismo in funzione di repressione del conflitto sociale.

Un ulteriore terreno di intervento concerne l'immigrazione da paesi esterni all'Unione europea. Occorre compiere ogni sforzo non solo per sottrarre questo fenomeno al cono d'ombra del «terrorismo internazionale» (impedendo che le figure dell'immigrato «irregolare» o «clandestino» - per non dire del richiedente asilo - siano pregiudizialmente e strumentalmente gravate di sospetti infondati), ma anche per invertire la tendenza discriminatoria, xenofoba e razzista caratteristica delle attuali legislazioni europee in materia.

Alla luce di quanto si qui argomentato, appare tuttavia preliminare un'esigenza: occorre giungere quanto prima a una determinazione tassativa dei reati di terrorismo, tale da scongiurare il rischio - quanto mai attuale e serio - che questa materia continui ad essere strumentalizzata al fine di legittimare i processi di militarizzazione delle società e le misure di repressione del dissenso sociale e politico.

6.5 Sui tribunali internazionalivai a indice

Un altro tema rilevante nel quadro della politica giudiziaria in ambito comunitario concerne le istituzioni giuridiche internazionali o sovranazionali (a cominciare dalle corti di giustizia dell'Aja e di Strasburgo) e le convenzioni e gli accordi internazionali sui diritti umani.

Nei confronti di tali istituti occorre in primo luogo enunciare un giudizio positivo, nella misura in cui essi concorrono alla costituzione di contesti istituzionali e normativi indispensabili a una giurisdizione coerente con il riconoscimento di diritti umani fondamentali. Si deve tenere presenta al riguardo che la nozione di diritti umani, di ascendenza giusnaturalistica, rappresenta a sua volta un riferimento necessario allo scopo di rendere azionabili sul piano giuridico valori cruciali della critica politica.

Da queste premesse generali discendono due conseguenze.

Da una parte, occorre che l'Unione europea incalzi gli Stati che persistono in una posizione di non-riconoscimento o di non-ratifica degli organismi giurisdizionali di carattere internazionale. L'autorità dei tribunali internazionali è infatti lesa dall'assenza di importanti paesi (per fare l'esempio più rilevante, gli Stati Uniti non hanno ratificato il trattato istitutivo della Corte penale internazionale e, dopo il caso Nicaragua, hanno ritirato la clausola di accettazione della giurisdizione della Corte internazionale di giustizia). Per contro, il contributo di dottrina e di giurisprudenza che potrebbe provenire dai paesi che non hanno ancora riconosciuto le corti internazionali di giustizia contribuirebbe in misura rilevante ad accrescerne autorevolezza ed efficacia.

Dall'altro lato, sussiste il problema - in parte connesso con quello della mancata ratifica delle convenzioni internazionali - della imparzialità delle istituzioni sopranazionali. Da Norimberga in poi, si è posta la questione di distinguere nel modo più netto la giurisdizione internazionale dalla giustizia dei vincitori, quale quella che fu appunto amministrata dagli alleati all'indomani del secondo conflitto mondiale. La questione è riemersa, ancora in tempi recenti, in relazione alle vicende balcaniche e torna oggi d'attualità alla luce della pretesa statunitense di sottoporre Saddam Hussein al giudizio di tribunali americani In conclusione, l'Unione europea dovrà impegnarsi affinché le istituzioni giuridiche internazionali e sovranazionali ottengano il riconoscimento di tutti gli Stati (il che implica giocoforza la riforma dei riferimenti normativi e delle procedure).

Un analogo ragionamento andrebbe svolto anche in relazione all'Onu. Anche in questo caso l'Ue dovrà fornire il contributo della propria autorevolezza per una riforma democratica dell'Onu, mirata ad accrescere il peso dell'Assemblea generale rispetto al Consiglio di sicurezza e a garantire che le risoluzioni di quest'ultimo non si traducano - con grave pregiudizio del prestigio dell'Organizzazione e con serio pericolo per le sorti del pianeta - nella sanzione della prepotenza dei paesi militarmente o economicamente più forti.

PARTE SETTIMA. LA DIFESA DELL'EUROPA E IL SUO RUOLO INTERNAZIONALE

7.1 La questione della difesa e della sicurezza dell'Europavai a indice

Il tema di un dispositivo o meno di “sicurezza” dell'Unione europea si è posto con un certo rilievo nella discussione dei governi, in seno alla Commissione e al Consiglio europei particolarmente dopo il crollo dell'Unione sovietica e la fine del patto di Varsavia. Prima l'argomento era compreso in quello di una migliore cooperazione dell'Europa occidentale alla Nato e agli Stati Uniti. Successivamente l'argomento si è posto nel quadro di una prospettiva di una autonomia sostanziale e formale del dispositivo di difesa europeo.

Le ragioni di questo processo sono diverse. In parte derivano dall'attitudine degli Stati Uniti, dopo il 1991, a parziali disimpegni militari dal teatro europeo, in parte dalla maggiore attitudine di questo o quel governo europeo, come ad esempio quello francese, a muoversi con relativa autonomia. A questo si deve aggiungere che la istituzione della moneta unica ha posto la necessità di una strutturazione politica superiore dell'Ue. Infine si può aggiungere che l'attuale politica di guerra degli Stati uniti pur sottoponendo l'Ue ad una forte tensione politica interna viene affrontata dai governi europei e dalla Commissione con un'idea di fondo: il riarmo dei vari stati membri e dell'Ue in quanto tale. Infatti quei governi che sono schierati completamente dalla parte degli Stati uniti sentono l'insufficienza dei mezzi a loro disposizione per essere veri coattori, mentre quelli che avanzano qualche contestazione avvertono la loro debolezza nel darle peso.

Questa contraddizione tra i vincoli europei da un lato e la tensione tra gli stati provocata dalla politica di guerra degli Usa si manifesta anche in altre maniere.

Mentre infatti Francia e Germania (più Belgio e Lussemburgo) stanno procedendo e con una certa rapidità nella costruzione di strutture stabili di coordinamento politico e di integrazione dei loro dispositivi militari, essi stanno pure tentando di coinvolgere la Gran Bretagna in una sorta di direttivo di gestione politica della Ue, comprendendo in questo anche accordi di tipo militare.

Una delle ragioni più rilevanti della propensione dei vari governi ad un dispositivo di “sicurezza” europeo e dell'affidamento perciò del ruolo nella sua costruzione alla Commissione europea, sta nel fatto che esso richiederebbe una razionalizzazione dell'esistente e significativi mezzi di spesa. I vari stati membri spendono nel loro complesso nei loro dispositivi militari qualcosa come la metà di quanto spendono gli stati Uniti, tuttavia lo squilibrio in termini di efficienza e di potenza è gigantesco. La ragione è semplice: la spesa militare è dispersa nella Ue tra quindici stati. Per questo la Commissione europea si è data alcuni anni orsono il compito di proporre agli stati membri una divisione razionale della spesa militare e con essa della ricerca. Inoltre i vari stati possono reperire i fondi aggiuntivi di spesa militare solo attraverso una qualche modificazione delle politiche restrittive di bilancio contenute nei Trattati, e per arrivare a questo è necessaria la collaborazione della Commissione europea.

Infine questa complessiva propensione al riarmo viene vista da molti governi della Ue come una possibile risposta da dare alla stagnazione delle economie europee sul modello americano.

Per quanto riguarda l'atteggiamento degli Stati Uniti va ricordato che il primo passo verso la definizione di un dispositivo di Sicurezza europea risale ai tempi della presidenza Clinton. Per questo dispose la indispensabile collaborazione strategica e logistica della Nato. Quindi l'Ue decise di pensionare la vecchia struttura burocratica, la Ueo, e di costruire Interforza, un sistema di comandi nella prospettiva di poter disporre in qualche anno di un dispositivo di 60.000 specialisti per poi giungere a 100.000. Con l'avvento di Bush il progetto si è però fermato, anche se è vero che i consiglieri del presidente, come ad esempio Robert Kagan, invitano oggi l'Europa a rafforzarsi militarmente per fare fronte al terrorismo, ma evitando che questo possa avvenire attraverso un dispositivo militare effettivamente europeo.

La proposta di Trattato Costituzionale sul tema della difesa europea si propone la costituzione di un'”agenzia per la difesa” i cui caratteri non sono definiti nel dettaglio.

In particolare si tratta di seguire l'evoluzione che questa discussione avrà nel quadro del sistema di difesa integrato dei paesi europei. I punti sui quali si sta concentrando l'attenzione sono relativi : alla costituzione di un vero e proprio “esercito europeo”, dotato di una sua autonoma capacità decisionale; la relazione con l'altra struttura di difesa cooperativa, vale a dire la Nato.

Il recente ingresso di sette nuovi paesi dell'Est Europa, significativamente alla vigilia del loro ingresso nell'Unione Europea, appare come un chiaro segnale che preordinerà l'effettivo dislocamento della forza europea sotto l'egida Nato. Del resto la stessa trasformazione dello statuto Nato, avvenuto durante l'intervento in Kossovo, che esplicitava l'evoluzione dell'alleanza da struttura puramente difensiva a struttura di intervento a salvaguardia degli interessi, minacciati, dei componenti della stessa, ha segnato la traiettoria e la filosofia della nuova guerra permanente.

L'agenzia della difesa europea si collocherebbe, dunque, nell'alveo delle attività belliche della Nato, pur non essendo una sua emanazione. Inoltre si determinerebbe un meccanismo, definito “di cooperazione rafforzata”, che provvederebbe all'utilizzo degli eventuali contingenti da far intervenire in teatri di guerra al di fuori dell'autorizzazione dei parlamenti nazionali. Si tratta dunque di una vera e propria proposta di un contingente di intervento rapido, in aperto contrasto con alcune costituzioni nazionali (Italia e Germania in primo luogo).

L'altro aspetto assolutamente negativo è quello relativo al sicuro incremento delle spese militari. A questo proposito, appare chiaro che la corsa al riarmo e l'incremento della spesa militare mondiale (circa 1000 miliardi di dollari, di cui quasi la metà da parte degli Usa) potrebbe portare l'Europa in una vera e propria riconversione della propria economia in senso bellico. L'Italia nel 2003 ha speso circa 20 miliardi di euro, con un incremento già del 3,1% rispetto all'anno precedente. Un eventuale incremento di spesa non potrebbe far altro che condizionare le spese sociali già precarie del nostro paese.

Sul versante geopolitico la costituzione di un esercito europeo, per quanto già detto finora, non ha nessuno scopo (né avrebbe nessuna possibilità) di costituire un contrappeso alla potenza militare nordamericana, ma oggettivamente contribuirebbe all'ordine militare mondiale unipolare a guida Usa. Vi è chi, anche nel campo delle sinistre sostiene che una forza militare autonoma potrebbe fungere da deterrente. Ciò non solo non è vero, ma alimenterebbe una oggettiva coalizione di interessi a fare la guerra contro i sud del mondo. Del resto la natura della nuova guerra infinita ed indefinita propone una funzione duplice dell'intervento militare: quello offensivo di grande impatto (vedi invasione dell'Iraq), nel quale gli Stati Uniti non tollerano alcuna interferenza; quello di “polizia” (l'attuale situazione di occupazione) nel quale sono più alti i costi umani e dove gli Usa richiedono un coinvolgimento più attivo di altri contingenti militari. Si è parlato, a proposito della scadenza del 30 giugno per il passaggio di poteri alle autorità irakene, di un probabile intervento della Nato (per altro non deciso) non in contraddizione con l'intervento eventuale dell'Onu.

Sul piano degli organismi internazionali, la costituzione di un esercito europeo approfondisce oggettivamente la crisi di sovranità delle Nazioni Unite.

La scelta che facciamo non può che essere quella di un'Europa disarmata, denuclearizzata e neutrale, in cui i paesi membri riducano la quota di bilancio destinata alla difesa a un ritmo costante e consistente, che sappia ritrovare nuove ragioni di mediazione politica dei conflitti e che affidi solo alla cooperazione degli eserciti nazionali il compito della difesa entro ed esclusivamente i propri confini.

Vi è chi obietta che per svolgere effettivamente un ruolo di pace nel mondo sono necessarie azioni di interposizione e che queste richiedono la presenza di una determinata forza, e che queste azioni di interposizione non possono essere lasciate solo alla generosa iniziativa dei movimenti pacifisti. Ma tutto questo non può configurare né una politica di riarmo, né la costruzione di un esercito europeo, né la continuazione della scelta di eserciti professionali. Ad un dispositivo eminentemente militare dobbiamo contrapporre una proposta di dispositivo di sicurezza e di intervento nelle crisi sotto l'egida dell'Onu di tipo democratico e pacifista.

7.2 Il ruolo internazionale dell'Uevai a indice

Dalle ultime dichiarazioni di Solana, il responsabile per la politica estera dell'Unione, si desume una tendenziale propensione della Commissione europea per l'azione multilaterale ed una critica nei confronti dell'unilateralismo nordamericano. In effetti questa stessa posizione, con una maggiore apertura sul tema del ritiro delle truppe dall'Iraq, è stata assunta da Prodi nel recente manifesto per la politica estera della Lista unitaria.

E' bene sottolineare che quest'approccio è tutt'altro che alieno dall'utilizzo della forza, ma propone un ritorno al cosiddetto “multilateralismo aggressivo” di clintoniana memoria (Somalia, Kossovo, ecc). In ogni caso non mette in discussione l'unipolarismo e non contesta il fallimento delle strategie interventiste.

L'Ue ha di fatto perso un ruolo nella mediazione dei conflitti e sta ignorando intere parti del mondo. Non c'è alcuna politica di intervento nei processi di pace avviati, alcuni di essi si sono nel frattempo interrotti, in America Latina (Colombia, Bolivia).

C'è inoltre una totale incapacità di intervenire sulla crisi mediorientale. L'Ue fa parte, solo formalmente, del quartetto della road map, ma il governo Israeliano non ha mai consentito che suoi osservatori fossero coinvolti sui territori occupati. In aggiunta, l'unico atto assunto, durante la presidenza italiana, è stato quello di inserire Hamas tra le organizzazioni terroristiche. Nel frattempo non si è assunta nessuna iniziativa concreta, al di là di alcune dichiarazioni, che sanzionasse le esecuzioni extragiudiziali, la costruzione del muro, il mancato rispetto delle risoluzioni Onu da parte del governo di Sharon. E' anzi rafforzata l'ipotesi di una procedura accelerata di ingresso nel'Ue per Israele, nonché per la Turchia.

Sul piano economico il progetto di integrazione dell'area euromediterranea si costruisce con presupposti e finalità analoghe a quanto è stato proposto per l'area di libero scambio delle americhe (Alca). Si tratta pertanto di una integrazione economica subalterna, fondata sullo scambio ineguale e non sulla cooperazione economica tra aree di differente peso relativo.

Come abbiamo già detto invece l'Europa deve esprimere appieno quella che, almeno nei momenti migliori della sua storia, è stata una vocazione culturale, favorita anche dalla disposizione geografica, quella cioè di essere un ponte tra il Sud e il Nord del mondo e questo obiettivo può oggi essere perseguito solo se da ogni punto di vista, in primo luogo da quello politico, ma certamente anche da quello della cooperazione culturale e economica con i paesi mediterranei, l'Europa riesce a svolgere un ruolo autonomo sullo scenario internazionale, proponendosi come fattore attivo di pace, a cominciare dal conflitto israelo-palestinese e dalla fine dell'occupazione militare dell'Iraq.

Per quanto riguarda il campo della cooperazione internazionale allo sviluppo, questa va distinta da altri aspetti della politica internazionale e va favorito il coinvolgimento di una pluralità di soggetti a livello locale di carattere istituzionale e non.

Naturalmente si tratta di elevare il livello della spesa complessiva e dei singoli stati per questo fine,, cosa particolarmente urgente nel caso italiano, ma anche di dare vita ad una nuova cultura della cooperazione internazionale basata su criteri di rapporti paritari con le popolazioni dei paesi delle periferie economiche del pianeta.

PARTE OTTAVA. L'IDENTITA' DELL'EUROPA E LA NUOVA IDEA DI CITTADINANZA

8.1 L'identità culturale europeavai a indice

Una proposta per un progetto politico europeo non può tacere sul problema assai discusso di una identità culturale, sulla sua eventuale esistenza, sul metodo con cui essa va individuata e come essa intreccia e alimenta il profilo costituzionale comune.

Il problema di un'eventuale identità storica, di alcune radici comuni per i paesi dell'Unione, ha un forte riverbero tra passato e presente, tra radici e politiche culturali da sviluppare.

L'Europa è stata, in alcune aree lo è ancora, terra di conflitti acuti e drammatici e questo problema del riferimento culturale unitario può risultare impresa assai difficile. Anche il diverso approccio con cui i vari paesi europei hanno affrontato il rapporto tra autonomia delle culture nazionali e sviluppo delle relazioni culturali sovranazionali è un punto dolente dello sviluppo dell'unità europea.

La questione di un'eredità culturale comune non è irrilevante, allude ovviamente allo stesso profilo di cittadinanza. Lo spazio di autonomia dell'Europa dipende anche dall'esistenza di una soggettività culturale riconoscibile nei processi di globalizzazione. L'eventualità di un'identità culturale europea è insidiata infatti dall'alto dai processi di mondializzazione e omologazione planetaria e dal basso dal permanere dei localismi e di acuti conflitti identitari locali.

L'unità culturale europea non è quindi una realtà, anzi, ma offre la possibilità di uno sviluppo politico che risolva i conflitti tra i localismi e conservi spazi di autonomia nel mondo globalizzato.

Il confronto sull'identità culturale è stato dominato prevalentemente dalle sollecitazioni del papato nel tener conto dell'Europa cristiana come radice della nostra storia comune. Con voci non convinte si sono opposte le ragioni dell'Europa della rivoluzione liberale, mentre persino più determinata è stata l'opposizione di parte del mondo protestante.

E' molto significativo, in questa discussione, la rimozione della presenza determinante della cultura del movimento operaio nella formazione dell'Europa così come ci viene consegnata dal tempo. Eppure il movimento operaio segna per certi versi la differenza più sostanziale della identità europea verso le altre aree del mondo occidentale. La democrazia europea non può essere intesa senza connettere la formazione degli Stati nazionali con le lotte e i conflitti di classe che ne hanno profondamente modificato i profili. La rimozione della questione rappresenta senza dubbio un uso politico della storia, infatti le socialdemocrazie, presenti come soggettività politica rilevante nell'Europa contemporanea, sembrano favorire un oscuramento delle loro ragioni storiche anche per giustificare la scelta di campo del liberismo moderato che orienta le loro scelte.

Questa rimozione non è innocente, il tacere è una scelta politica per lasciare la cornice del mercato come unico orizzonte di ispirazione dell'Unione.

Si è sostenuto che una più esplicita definizione di campo ideologico avrebbe costretto il profilo dell'Europa nell'angustia di una “civiltà” pericolosamente esposta alla separazione e al confronto-scontro con le civiltà altre.

Questa scelta pragmatica forse sceglie giustamente il piano dell'identità come non meccanica derivazione genealogica delle culture. Ma è proprio in questa visione più pragmatica che diventa inaccettabile la rimozione della storia reale del movimento operaio come costituente centrale della stessa dimensione occidentale capitalistica dell'Europa. Il modello dello Stato sociale costituisce il paradigma di una rivoluzione dello stesso capitalismo costretto al conflitto lungo e complesso con il movimento operaio. Il complesso dei diritti costituzionali nei paesi europei è profondamente segnato da questo conflitto. Dalle sue esperienze sociali e dai suoi valori. Anzi spesso le resistenze all'unità europea sono derivate proprio dalla sensazione che con l'Europa potesse svanire o affievolirsi i benefici delle conquiste del welfare.

Insomma se si ritiene, come si può a ragione pensare, pericoloso e equivoco addentrarsi in una gerarchia di primogeniture costitutive dell'Europa, il negare la concretezza della realtà costitutiva del continente è stato senza dubbio un modo per dare una carattere indiscusso e indiscutibile, astorico, all'orizzonte tecnocratico e liberista che anima le classi dirigenti europee.

La costituzione storica e materiale dell'Europa porta, invece, profondamente il segno di diversità e non solo nelle forme sociali e nei diritti, ma anche e forse soprattutto nella nozione della cultura umana e dei valori. Basterebbe solo un cenno al dato strutturale del rifiuto della pena di morte e la sua espulsione dal diritto positivo come segno e trama originale del rapporto tra cittadino, norma e società come anche la revisione critica della storia del colonialismo e dell'eurocentrismo culturale che ha dominato gli ultimi secoli.

8.2 Una nuova idea di cittadinanzavai a indice

Una nuova idea di cittadinanza europea, va quindi misurata e costruita nell'intreccio tra i punti più alti della cultura giuridica e le migliori acquisizioni sociali del continente, le nuove istanze di partecipazione allo spazio pubblico, le nuove soggettività, i nuovi percorsi di costruzione di identità e di senso di sé, la valorizzazione della natura sessuata della persona umana, le libertà nelle opzioni sessuali. Questa nuova idea non può non assumere al contempo uno “sguardo cosmopolita”, sapendo accettare, senza perdere se stessa, la contaminazione con altre culture, in particolare quelle che oggi non sono in posizione dominante e che per questo ci offrono un nuovo e diverso sguardo sul mondo e sull'umanità, come si è visto con chiarezza anche nel recente Forum sociale mondiale di Mumbay. Bisogna perciò abbandonare ogni fondamentalismo culturale e giuridico quando questo si mostra incapace di misurarsi con le nuove istanze e soggettività. In questo senso va rilanciato un significato moderno di laicità dello stato, che è tale se sa garantire spazi di convivenza tra le differenze e se favorisce percorsi di affermazione di diverse soggettività, difendendo realmente diritti individuali e collettive. In questo senso la ragazza che veste il velo perché vuole affermare una sua identità è cosa ben diversa da chi subisce il diktat della propria comunità e questo deve comportare risposte diverse da parte dello stato. La critica del movimento delle donne ha decostruito il carattere inclusivo e omologante della cittadinanza che sta all'origine degli stati moderni, rivendicando il carattere sessuato dei diritti. D'altro canto, come abbiamo già ricordato le nuove soggettività migranti ci propongono un nuovo cambio di paradigma nel senso che si è cittadini in quanto persone e non viceversa.

Un aspetto fondamentale della nuova idea di cittadinanza consiste nel riconoscimento dell'assimetria dei corpi e delle responsabilità in materia di procreazione e genitorialità. La sua affermazione richiede però un grande scontro contro il ritorno di pulsioni sessuofobe, familistiche, antiaboriste, alimentate a livello internazionale dall'Amministrazione Bush da un lato e dai tratti integralistici di questo Papato dall'altro. Né si può tacere l'arrendevolezza, quando non si tratta di aperta complicità, delle sinistre moderate su questi temi. Un esempio evidente di tutto questo è indubbiamente rappresentato dalla nuova legge sulla Procreazione medicalmente assistita votata dal Parlamento italiano grazie al concorso di una maggioranza trasversale, che costituisce una vera e propria aggressione in radice ad alcuni elementi di fondo dell'ordinamento di un moderno stato democratico quale la Costituzione italiana assicura e garantisce e quale le lotte sociali, civili e politiche, in particolare nella seconda metà del Novecento, avevano inverato lungo il faticoso percorso di emancipazione e liberazione di donne e uomini. Il principio della responsabilità femminile rispetto al proprio corpo e il diritto all'autodeterminazione delle donne in campo procreativo - cioè la forma concreta di riconoscimento dell'habeas corpus e della pienezza della cittadinanza scaturito dalla soggettività politica del movimento delle donne - viene così negato, affermando il primato dell'embrione rispetto alla madre e aprendo la strada per una possibile rimessa in discussione della stessa legge 194. Lo Stato viene posto a presidio di una concezione di parte - confessionale - della famiglia, dei comportamenti sessuali, delle relazioni genitoriali, e , attraverso le regole che permettono l'accesso alle tecniche procreative, si impone la coincidenza fra la famiglia biologica e la famiglia giuridica. La laicità dello Stato è così gravemente attaccata e così lo sono i diritti di tutti, donne e uomini, mentre la ricerca scientifica sulle cellule staminali embrionali viene negata sia a fini conoscitivi e a scopi rigenerativi, sia anche per migliorare la tecnica stessa della procreazione assistita.

8.3 Le originalità culturali dell'Europavai a indice

Le originalità culturali europee sono varie e difficilmente negabili. Sono diversità che nel loro sviluppo positivo possono riproporre l'Europa e la sua soggettività per un ruolo originale per il futuro. Le eredità europee possono diventare progetto politico, capace di mediare tra unità e diversità delle culture, possono offrire un modello di democrazia originale, un “mediazione evanescente” nel contesto di una crisi delle culture del mondo.

Quello che si propone è allora una trama leggera per individuare alcune realtà presenti nella nostra cultura, solo alcuni elementi guida maturi ed esemplificativi per costituire le basi di una pratica ideale e culturale radicale e nello stesso tempo “accogliente” e cooperativa.

Tra le tante esperienze sul terreno culturale, la nozione della cultura come bene comune, nella dimensione europea, costituisce un primo campo distintivo. Non che l'Europa si sia sottratta all'ondata di mercificazione culturale, ma la resistenza a questo processo e la consapevolezza diffusa della cultura come organismo difficilmente parcellizzabile e riducibile a merce vendibile, è un fatto.

La stessa struttura dei beni di cultura in Europa ha il segno della contiguità diacronica e della contestualità spaziale. La loro relazione è il portato qualitativo ereditato dalla storia, dalla struttura generativa che le trasformazioni, inclusioni, sovrapposizioni, contaminazioni, hanno indotto nelle lingue, nei modelli urbani e ambientali, nei profili organizzativi della vita materiale, nelle forme visive, nel gusto, nel folklore, nella produzione dell'immaginario. Le privatizzazioni dei beni comuni culturali sono oggi una tendenza, uno stress a cui la cultura europea è fortemente sottoposta, ma le resistenze sono estese e per certi versi più facili per la natura stessa dei bene di cultura innervati strettamente con la loro storia e con il loro ambiente. Un museo, un opera d'arte, un prodotto dell'ingegno non sono decifrabili nella loro nudità di oggetto-merce, la sintassi del tutto ha ragione sull'isolamento degli elementi.

L'autonomia culturale non è solo l'eredità dello sciovinismo nazionale, ma l'esperienza concreta che la cultura è lo specchio di una comunità, è il suo guardarsi per capirsi e per meglio capire l'altro da sé.

Una grande potenzialità che non solo resiste alla tendenza negativa che usa la cultura come clava identitaria per la sopressione dell'altro, ma che può contribuire a riconoscere nelle altre culture preziosi e insostituibili contributi alla propria storia.

Lingue, città, monumenti, consumi, immaginario mostrano questa complessità produttiva, relativizzando l'eurocentrismo astratto e riconoscendo i debiti culturali, contribuendo alla costituzione di un processo identitario aperto. Lo spazio della cultura come bene comune può resistere alla semplificazione e banalizzazione della globalizzazione, sfuggendo nello stesso tempo all'idiotismo del localismo. I processi di messa a mercato dei beni comuni culturali è ovviamente un fatto; in Italia una grave e pervicace distruzione dei prodotti della nostra storia è in atto. Gli effetti non solo sono gravi dal punto di vista economico - dispersione di beni ambientali, distruzione del demanio, beni di cultura alienati solo per fare cassa- ma è ancora più grave l'idea che viene veicolata da queste scelte: la marginalità della cultura, la secondarietà dei beni simbolici nella costituzione materiale e morale di una società.

Scelte disastrose sul piano economico, ancora più distruttive sul piano della moralità collettiva. Campi di utile resistenza per un progetto di un'altra Europa possibile.

8.4 Le strutture formativevai a indice

Altri interessanti elementi di autonomia dell'identità europea, non ancora omologati sono rintracciabili anche nelle istituzioni formative. E' questo un campo fortemente sottoposto ai processi liberisti della globalizzazione. Ma è troppo profonda la diversità sostanziale del concetto formativo delle persone che ancora regge nelle nostre società rispetto all'idea totalmente utilitaristica della formazione umana. Vive con forza in Europa l'idea insopprimibile del primato della formazione unitaria e completa, umanistica, sullo specialismo estremo; questa realtà si riverbera sulla tenuta relativa della ricerca e della scienza di base rispetto alla sua immediata finalizzazione produttiva. Il profilo delle scuole e delle università europee, anche tradendo la loro arretratezza, mostrano proprio nella loro conservarsi come “arti” non serializzate, una potenziale modernità. L'insegnamento per universali, il primato delle sintesi narrative e descrittive della storia e delle scienze sono spesso vissute come un ritardo rispetto al procedere della scuola e dell'università americane eppure le istituzioni formative europee, pure nelle loro grandi differenze, mostrano, proprio per queste caratteristiche, una grande predisposizione alla duttilità e adattabilità, garantiscono una conservazione degli sguardi d'insieme sul reale e consentono spazi originali per la creatività e l'innovazione.

La resistenza delle scuole e delle università all' “americanizzazione” è sempre più in difficoltà, la modernizzazione le ha trattate con un piglio assolutamente ideologico.

Questa idea di istruzione si scontra infatti con la convinzione, importata da oltre oceano, secondo cui la conoscenza sarebbe passibile di infiniti frazionamenti e rigide quantificazioni. L'assunzione forsennata di questa idea illusoria si sta concretando in tutte le controriforme delle istituzioni conoscitive, ma la grande pedagogia e metodologia didattica europea, se adeguatamente sostenuta, può essere in grado di resistere, collocandosi positivamente all'incrocio tra compiti istruttivi e educativi nella formazione umana. Il passato può essere considerato obsoleto, ma spesso la sua conservazione critica mostra di essere una risorsa. Il diritto allo studio e alla formazione non può essere solo trattato come accesso al lavoro, ma ha bisogno di una revisione critica dei saperi in modo che, nella diffusione di massa, non perdano il loro valore di emancipazione e liberazione umana. Sono resistenze utilmente presenti nel panorama europeo.

8.5 L'industria culturalevai a indice

Lo stesso ragionamento può essere sviluppato per l'industria culturale e per il sistema della comunicazione. Qui siamo a più diretto contatto con gli apparati della globalizzazione capitalistica. Le grandi reti globali sono nate in altri contesti culturali e funzionali. L'era digitale ha posto le basi di un nuovo intreccio tra mercati e informazione, tra merci e produzione simbolica. L'era digitale è il sistema nervoso della modernizzazione capitalistica attuale ed è più complesso guadagnare spazi di resistenza e di politiche alternative.

Ma anche in questo caso, la profondità dello spessore della storia può garantire spazi critici, esperienze di resistenza creativa. La potenza della rivoluzione digitale può essere la base di un'ampliamento in senso sociale della cittadinanza, il suo verso mercantile non è l'unico esito naturale. In alcuni settori, il cinema ad esempio, l'industria europea ha saputo contrastare il Golia del cinema holiwoodiano. Ha saputo tenere nel mercato temi e problemi complessi, si pensi ad esempio al ritorno, soprattutto in Francia e in Inghilterra, del tema del lavoro e della condizione operaia come trama di storie e produzione d'immaginario. La tenuta narrativa su un terreno di autonomia è anche garanzia di una tenuta linguistica, di una pluralità di letture della realtà. Spazi difficili ma ancora aperti che avvertono di una potenziale specificità europea. L'era digitale può essere considerata una grande opportunità piuttosto che una storia conclusa nell'orizzonte del liberismo. Le grandi reti sono la base possibile di una produzione culturale dialogante e cooperante.

8.6 La televisione e il passaggio al digitale terrestrevai a indice

La televisione in Europa è ad un bivio. L'arrivo delle tecniche digitali di trasmissione e diffusione segnalano la possibilità di cancellazione della storia e della cultura dei servizi pubblici radiotelevisivi. Essi hanno rappresentato uno dei collanti sociali nazionali e andrebbero estesi nella funzione di formazione di una identità europea, non abbandonati per un modello puramente commerciale.

Il rischio è che il passaggio al digitale significhi la fine definitiva dei servizi pubblici radiotelevisivi e la completa omologazione del sistema radiotelevisivo alle logiche di mercato. Per questi motivi il servizio pubblico radiotelevisivo andrebbe inscritto nel quadro costituzionale europeo, come uno dei fondamenti della stessa identità continentale.

Le forze che puntano ad un esito di tal genere sono potenti. Da un lato la pervasività del modello tecnologico digitale, che punta ad una ibridazione tra programma televisivo e servizio audiovisuale di natura informatica. La natura dei programmi, attraverso la ricerca del valore aggiunto da immettere nelle trasmissioni a tecnica digitale, potrebbe essere completamente snaturata offrendo nuovi meccanismi di esclusione sociale, sia per cultura (analfabetismo informatico), sia per censo (riduzione delle capacità di spesa e trasformazione in pagamento diretto per la fruizione di contenuti). Dall'altro l'interesse, di una parte crescente di aziende di TLC, di utilizzare le bande di frequenza attualmente assegnate a livello internazionale ai servizi televisivi. I processi di interattività (necessari allo sviluppo dei servizi a tecnica digitale terrestre, secondo il modello di quelli a valore aggiunto) sono previsti nel nostro paese attraverso la rete Telecom.

Oltre a produrre una ricaduta di natura monopolista (con la conseguente massa di ricavi per il gestore ex-pubblico) tale necessità obbliga a pagamenti progressivi per l'utilizzo della nuova televisione digitale terrestre. In Inghilterra, un paese che tra i primi ha sperimentato un fallimento dell'apertura di una fase di televisione digitale, sta imboccando oggi la strada di una totale deregolamentazione dell'utilizzo delle bande di frequenza, affidando ai singoli operatori la scelta di offrire servizi dati, voce o audiovisuali a valore aggiunto. Una tale scelta farebbe venire meno la capacità delle aziende radiotelevisive di reggere il confronto economico con le grandi compagnie telefoniche, trasformando totalmente il panorama televisivo europeo.

8.7 Per un welfare delle comunicazionivai a indice

Proprio per tali ragioni vanno rafforzate le caratteristiche di uno spazio pubblico. Il ripensamento, rispetto al modello statuale del novecento deve essere profondo. Lo spazio pubblico deve essere caratterizzato da una duplice finalità: da un alto la garanzia dell'offerta di contenuti e programmi in grado di soddisfare un alto grado di socializzazione dentro il tessuto sociale nazionale ed europeo; dall'altro la garanzia di infrastrutture e risorse per garantire le libere espressioni che nascono e si organizzano dal basso all'intero dei corpi sociali. Occorre definire, con chiarezza, che la nuova fase di garanzia comunicativa pubblica deve essere caratterizzata da servizi offerti alla collettività e da gradi di libertà della collettività stessa nella produzione di contenuti. Lo spazio pubblico risulterebbe così definito come la sommatoria dei servizi pubblici generalisti, come si sono configurati nel corso degli ultimi decenni, e di spazi di autoproduzione sociale garantiti.

In altre parole, occorre la definizione di un “Welfare delle Comunicazioni” utile a stabilire non solo i diritti passivi degli utenti ad essere informati, ma un vero e proprio “diritto attivo a produrre comunicazione”.

Proprio la necessità di garantire uno spazio pubblico in termini di diritti comunicativi definisce l'urgenza di definire una struttura europea di telecomunicazioni alla quale affidare la gestione tecnologica di tale diritto.

Diffusione di servizi pubblici radiotelevisivi anche nella fase digitale, garanzia di fornitura di servizi a banda larga anche in località che non sono vantaggiose per gli investitori privati e che, probabilmente, non vedrebbero mai garantita la copertura tecnologica di quel territorio, garanzia di diffusione dei contenuti radiotelevisivi e audiovisuali a tecnologia digitale attraverso logiche di accesso permanenti e provvisorie, ma con garanzie certe. Con tali obiettivi, sarebbe necessaria la costruzione di una azienda di TLC europea che garantisca livelli di investimenti e livelli di accesso sociale in tutto il territorio del paesi membri.

Anche i servizi postali sono investiti da un completo ripensamento di ruolo sociale. Essi si caratterizzano per la capacità di offrire un servizio che non può essere misurato solo sulla capacità di commissione alle imprese. La struttura a rete della nuova economia, infatti, presuppone capacità logistiche di trasporto delle merci fin al singolo cittadino, ma il servizio postale si riafferma proprio come elemento di connessione sociale, di rapporto tra il cittadino e la sfera pubblica. Proprio per questi motivi occorre definire uno spazio europeo di garanzie che devono prefigurare la scelta verso una vera e propria azienda unica europea di servizi postali. In questo campo, infatti, si potrebbe sperimentare il primo passo per una integrazione europea basata non solo sulle garanzie finanziarie degli investimenti, ma su di una vera e propria idea di politica industriale europea integrata.

8.8 Il rilancio dell'informatica in Europavai a indice

Va segnalato anche un ulteriore campo di enorme importanza in cui l'Europa ha mostrato di essere più recettiva, fosse anche per sfuggire alla morsa monopolistica globale: la produzione del software libero e liberamente diffuso.

Questa dimensione è strettamente legata alla stessa indipendenza economica europea nella produzione. Si tratta di una dimensione emblematica, lo stesso non si può dire di altri ambiti tecnologici, in cui la sudditanza agli Stati Uniti è totale. Il software libero riesce a conciliare spinte cooperativistiche nella produzione, in qualche modo extramercantili, con standards qualitativi universalmente accettabili. Il costo del software proprietario è una vera tassa nella globalizzazione: dai giochi elettronici dei bambini alle tecnologie operative della produzione, dalle procedure della pubblica amministrazione alla gestione delle informazioni nelle reti. Le stesse scelte recenti della Commissione e i provvvedimenti antitrust nel software sono un segno importante di questo atteggiamento. Certo si tratta di forme di protezione economica per l'Unione, ma ciò avviene anche per l'impegno di quelle correnti di pensiero che in questo continente non danno per totalmente risolto nel mercato il ruolo dello stato e della responsabilità pubblica.

Le comunità per la produzione di software libero, nonostante abbiano una genesi nelle comunità scientifiche americane, trovano paradossalmente una applicazione istituzionale in Europa, luogo in cui pare non completamente dissolta la dimensione dello spazio pubblico. Il software libero per le amministrazioni pubbliche viene così considerato allo stesso tempo risparmio economico in un contesto di mercato monopolistico, ma anche strumento per uno spazio dei diritti di cittadinanza non alienabile. Il superamento del monopolio informatico che affligge il mondo, ben al di là di interventi sulla violazione delle norme della concorrenza, devono caratterizzarsi per una rinnovata capacità di investimenti pubblici sull'informatica.

L'informatizzazione delle amministrazioni pubbliche e la loro connessione in rete determina un nuovo rapporto tra stato e cittadini e tra la sfera pubblica e sfera privata. Le tecnologie scelte e i software impiegati, determinano il grado di libertà, di autonomia e di flessibilità dei modelli decisionale e dei modelli gerarchici connessi al loro utilizzo. Solo attraverso una rinnovata capacità progettuale nei settori dell'informatica e delle reti è possibile uno modello di e-government che contenga capacità progettuali e struttura autonome. L'e-government non può caratterizzarsi, cioè, solo per una più efficace capacità delle pubbliche amministrazioni di fornire servizi alle imprese o ai cittadini, ma per un nuovo modello democratico che valorizzi la partecipazione consapevole e diretta alle decisioni. In questo senso, occorre che gli investimenti pubblici si finalizzino verso modelli di sperimentazione che favoriscano nuove forme di democrazia delegata e diretta.

In conclusione … quelle indicate non vogliono essere illusioni a motivare uno spazio di già realizzate diversità europee, ma grandi opportunità, costitutive di evoluzioni positive future nel campo culturale. Linee di una tendenza possibile per trasformare l'eredità culturale e la sua complessità e disomogeneità in risorsa e in nuove occasioni per noi cruciali perché indicano spazi straordinari di alternativa. Queste dimensioni dell'identità uniscono e non separano da altre culture; accettando gli effetti conflittuali delle diversità culturali ne mostrano anche il contributo di valore universale. Si gettano alle spalle un nuovo improbabile eurocentrismo e salvaguardano i risultati sociali acquisiti nella storia europea contribuendo a fornire un democratico per altre aree del mondo.

Partito della Rifondazione Comunista - Italia
Roma, 17 maggio 2004