A proposito del programma dell'Unione

QUALE RIFORMISMO?

All'interno del quadro di forze del centrosinistra italiano nessuno si pone più il tema cruciale della struttura dello sviluppo e del meccanismo di accumulazione

Le più recenti vicende italiane hanno posto, di nuovo, in luce il tema del rapporto tra politica ed economia: un rapporto distorto dal “conflitto d'interessi” da un lato, e dall'accettazione di determinati meccanismi, dall'altro.

Il centrosinistra è attraversato, ormai da tempo, da una contraddizione insanabile perché non affrontata a livello strategico: dentro al quadro liberista dominante, esistono margini di correzione, oppure si è pensato davvero di poter riformare il capitalismo italiano attraverso le scalate dei “capitani coraggiosi” o le OPA rivolte alle banche?

In realtà siamo ormai al di fuori da qualsiasi riferimento di carattere riformista, intendendo questo termine nella sua accezione “classica” legata alla storia della sinistra nel'900: gli unici vincoli sono, quelli “esterni”, manca una analisi della composizione reale del capitalismo italiano (pensiamo al convegno del 1962 svolto dal PCI sul tema: ma basterebbe molto meno, sul terreno della capacità d'analisi e di proposta); sul piano politico è, ormai, completamente accettata la formula della “riduzione del rapporto tra politica e società, in funzione del taglio nell'eccesso di articolazione della domanda sociale, determinatasi nelle società affluenti”; l'innovazione tecnologica è stata utilizzata per segmentare ancora di più il quadro sociale, all'interno di uno schema di consumismo individualistico e di capacità di rivendicazione rivolto verso “single issues”.

Insomma: una società ferocemente competitiva a livello di singoli o di piccoli gruppi, frazionata anche nelle sue permanenti (ma deboli) espressioni di solidarietà.

Su questo terreno la sinistra ha smarrito la capacità di distinguere, si è arresa, adattata, autocollocata in un angolo dal punto di vista delle richieste di trasformazione del sistema.

All'interno di questa logica, ormai, tutto è permesso: i DS svolgono la riunione del loro massimo consesso sulla questione Unipol/BNL e non sul mancato rinnovo del contratto dei metalmeccanici.

Torno però al punto; tutto questo avviene in assenza di una analisi riguardante la condizione concreta del capitalismo italiano da cui far scaturire le proposte più idonee per affrontarne l'aggressività sociale, che si esprime in questo periodo.

Per tentare di entrare nel merito, prendo a prestito i dati, resi pubblici nei giorni scorsi, riguardanti le dimensioni della società italiane, quotate in Borsa.

Dopo decenni di presunte privatizzazioni emerge un primo elemento, estremamente significativo: la presenza pubblica, tra società controllate dal Ministero dell'Economia o da alcuni Enti Locali (Brescia, Milano, Roma, Torino, Genova) rimane il vero, grande, potere “forte” all'interno del sistema capitalistico del nostro Paese.

Per il resto, ai primi posti, le solite, poche, grandi famiglie.

Alla fine del 2005, scrive Turani sull'inserto “Affari&Finanza” allegato a “Repubblica” di lunedì 9 Gennaio 2006, le aziende sotto il controllo dello Stato capitalizzavano 160 miliardi di euro, contro una capitalizzazione complessiva della Borsa Italiana di poco meno di 670 miliardi.

Questi dati , analizzati analiticamente, ci dicono due cose:

  1. lo Stato controlla, in questo modo, alcuni snodi essenziali per lo sviluppo economico italiano, principalmente quello energetico. La particolare gestione delle privatizzazioni consente, però, alla mano pubblica di rivolgersi direttamente ai privati in maniera clientelare, tale da favorire o sfavorire a comando, evitando i meccanismi della concorrenza;
  2. I privati si occupano di determinati settori della produzione, materiale e/o immateriale, dai quali, però mancano quelli decisivi per consentire all'Italia di reggere il processo di unificazione europea e la concorrenza del mercato mondiale: chimica, siderurgia, agroalimentare. Inoltre la situazione della ricerca pone il nostro Paese agli ultimi posti come capacità di espressione di know – how e l'aggressione liberista allo stato sociale ha reso debolissima la domanda interna.

Al quadro d'analisi fin qui, pur sommariamente descritto, le principali forze del centrosinistra italiano hanno saputo rispondere, appunto, soltanto con l'idea di inserirsi nelle “pieghe” del sistema, equiparando il capitale produttivo a quello finanziario, rinunciando ad esprimere un progetto, non diciamo di trasformazione radicale, ma neppure fondato sulle garanzie minime di un equo meccanismo di redistribuzione.

Si comprende benissimo, a questo punto, per tornare al piano politico, come la discussione sull'egemonia all'interno del futuro Partito Democratico risulti del tutto oziosa: i poteri dell'economia risultano sempre più direttamente rappresentativi della società complessa e si esprimono attraverso gruppi di pressione e lobbies; alle forze politiche (come giustamente faceva notare oggi, qualche autorevole editorialista) non tocca neppure più il compito di selezionare il quadro dirigente della pubblica amministrazione, ma soltanto di designare ( “designare”, sia ben chiaro il valore di questo termine, in presenza della nuova legge elettorale) coloro che avranno il compito, nelle istituzioni, di facilitare l'esecuzione dei propri disegni.

In cambio, questi esecutori (diffusi, in varie collocazioni, sull'intero territorio della politica, sia nazionale, sia locale) si ritrovano condizioni materiali di vita molto superiori a quelle dei comuni cittadini, usufruendo di uno “status” del tutto immotivato se lo si valuta attraverso il metro del rapporto “costi/benefici”.

Insomma, siamo lontani da un quadro di socialismo liberale: figuriamoci da una idea di riformismo socialdemocratico.

Diventa del tutto rivoluzionario, così, reclamare il ritorno ad una regia pubblica, di programmazione democratica dell'economia, di investimenti destinati alle infrastrutture (pensiamo alle condizioni concrete dei trasporti, degli acquedotti, dell'assetto idrogeologico), di proprietà e gestione pubblica dei servizi essenziali.

All'interno del quadro di forze del centrosinistra italiano nessuno si pone più il tema cruciale della struttura dello sviluppo e del meccanismo di accumulazione.

Non esiste traccia, nei programmi delle forze del centrosinistra italiano, una somma di proposte tese a far coincidere offerta e domanda reali, liberando le forze produttive potenziali e orientandole verso un modo diverso di concepire la struttura e la qualità del sistema economico e sociale.

Appare del tutto annullata una riflessione complessiva sull'intreccio di contraddizioni che premono sul futuro del nostro Paese, dell'Europa, del globalizzato assetto internazionale: nessuno pone il tema di un diverso tipo di sviluppo.

O meglio, chi lo pone, è posto ai margini del sistema politico: non ha spazio, né possibilità di strutturare una propria presenza organica (vivono soltanto, isolate tra loro,alcune sedi di riflessione e/o insorgenza sociale,e settori di aggregazione politica, apparentemente residuali perché collegati a visioni ideologiche, ingiustamente considerate – ormai – al di fuori della Storia).

Eppure: partendo, magari, da queste riflessioni proposte da chi, davvero, pensa sia necessario proporre almeno un “programma minimo” (tanto per continuare ad usare termini antiquati) si potrebbe tentare la strada di una proposta di nuovo e più avanzato collegamento tra i soggetti non omologati: una strada di avvio di una dibattito, che potrebbe portare anche a esiti politici, forse non prevedibili, ma sicuramente auspicabili.

Franco Astengo
Savona, 12 Gennaio 2006