Viaggio nella zona più “europea” della Lombardia dove il voto è stato una mazzata.

Monza e dintorni, qui la sinistra è sparita

Cosa è accaduto e perché. Cosa potrà cambiare e come.

Duomo di Monza

Duomo di Monza

Photo by Liberazioneinfo

I segnali della primavera. Che chissà se resteranno. Arrivando da Milano, in auto, Monza si annuncia con un cartello che da qualche altra parte sembra normale, ma non qui. Dice semplicemente: «Monza, città della pace». Qui suona strano perché tutto intorno, sulla stessa strada, ad ogni cavalcavia, leggi solo le enormi, e terribili, scritte della Lega. Terribili soprattutto se sei uno dei destinatari di quegli slogan: uno zingaro, un migrante, un rom, uno che non riesce a trovare un lavoro. «Via da qui, scansafatiche». Monza, invece, si annuncia con altre parole. Ma, appunto, chissà se resteranno. Perché dopo cinque anni di governo dell'Unione - la “primavera monzese” -, due domeniche fa, la città ha scelto di riconsegnarsi alle destre. Ad un sindaco leghista, che non ha avuto neanche bisogno del ballottaggio. Ce l'ha fatta al primo turno. E si dice che fra le prime cose che ha in mente ci sia quella di togliere quel cartello lungo la strada. O magari cambiare il nome di quella piazza, che appena qualche anno fa era stata intitolata a Peppino Impastato. Così, tanto per dare un segnale: che qui, in questa parte d'Italia, le destre vogliono riprendersi tutto. Dopo una breve parentesi.

Riprendersi tutto. E a giudicare dai risultati elettorali, ci sono ad un passo. Perché qui, in Lombardia, nella “zona” europea che ha il più alto numero di lavoratori dipendenti, la sinistra rischia di scomparire. In qualche “pezzo” della Regione, già non c'è più. Altrove rischia. Non c'è più in interi comuni della provincia di Varese, rischia addirittura nella cintura attorno a Milano. Anche a Sesto san Giovanni, quella che chiamavano la “Stalingrado d'Italia”, dove pure l'amministrazione dell'Unione ce l'ha fatta ad essere riconfermata. Ma per il rotto della cuffia. E rischia anche a Pieve Emanuele, il piccolo centro che è difficile trovare sulle carte ma che tutti conoscono. Perché è stato il primo Comune italiano ad inventarsi il bilancio partecipato. Quello discusso in tante assemblee con i cittadini. Tanto che lo chiamavano “Pieve Alegre”, dalla città brasiliana che s'è inventata questo modello di democrazia. Anche lì, però, ora, governano le destre.

Rischia il centrosinistra. E dentro il centrosinistra rischia la sinistra. Perché Rifondazione, in tutti i centri dove si è votato, da un'amministrativa all'altra, ha perso ventiseimila voti. In cinque anni. E rischia anche Monza. Magari meno che da altre parti, perché qui Rifondazione ha perso “solo” il 16% del suo elettorato. Ma è una sconfitta che pesa, se possibile, più di altre. Perché 5 anni di governo, dopo cinquant'anni ininterrotti di amministrazioni dc, leghiste, di destra - simili, molto simili fra di loro - avevano fatto sperare di aver cambiato la città. Di averla cambiata almeno un po'. Di aver cambiato una città che da qualche tempo è nel “mirino” della famiglia Berlusconi. Nel “mirino” di Paolo Berlusconi. Che qui, in quell'enorme e splendido parco che si chiama “Cascinazzo” vorrebbe costruire una “Milano Quattro”. Ville a appartamenti per ventimila famiglie. Speculazione, sostenuta da Formigoni, che la vecchia giunta comunale è riuscita a bloccare. Pensando così di aver scavato nella coscienza della città. Ma non è stato così. Non resta, allora, che andare a vedere.

I numeri, prima di tutto. E scoprire che il candidato sindaco dell'Unione, Michele Faglia, qualcosa è riuscito a fare. La sua lista s'è presa l'11 e rotti per cento, ma soprattutto dalle passate amministrative la sua coalizione ha guadagnato qualcosa come dieci punti. Nel 2002, al primo turno, era sopra il 30, ora è al 41 e passa. Il suo obiettivo a fine maggio era raggiungere il ballottaggio. Perché tutti i sondaggi spiegavano che fra lui e il leghista - un po' rozzo - Marco Mariani, alla fine la ricca Monza avrebbe finito con lo sceglierlo. Ma s'è dovuta fermare prima. Certo, merito di Berlusconi che qui in campagna elettorale c'è venuto più di una volta. «E per favore - dice Marco Fraceti, il simpatico e pacato segretario del circolo di Monza - smettiamola di pensare a Berlusconi come all'uomo arrivato dalla luna. Al personaggio strano, da ridicolizzare. Fa politica in modo opposto al nostro: un mix di moderatismo e populismo. Ma fa politica, è un politico. Ed è pure bravo». Questo però è un altro discorso. Fatto sta che Berlusconi ha motivato i suoi, tant'è che a Monza - in assoluta controtendenza rispetto al resto del paese - è aumentato il numero dei votanti. Settantatrè per cento. Non dappertutto, però. Se si va a vedere, quella cifra, scende, e scende di molto e si va nelle zone popolari. Se si va a San Rocco.

Anche questo, è un nome, un luogo che racconta - raccontava? - molto alla sinistra. E' un vecchio quartiere popolare, antico, antichissimo. Nacque come insediamento operaio attorno alla Falck, l'acciaieria che non c'è più. Ci vivevano le famiglie degli operai, dei lavoratori, i loro figli. All'epoca in cui le imprese - quelle con i macchinari, le fabbriche, le ciminiere - imponevano le proprie esigenze all'urbanistica. Quando le grandi famiglie «dettavano» alle amministrazioni il modello da seguire. Che era il “loro”, che estendeva il controllo dalla produzione ai quartieri vicini, ma almeno era un modello. Percepibile, riconoscibile. Non come ora, dove altre imprese impongono altre scelte che si rivelano ad anni di distanza. Quando non si può più intervenire sulle conseguenze devastanti. Ma anche questo c'entra poco, ora, col voto di San Rocco. Il fatto è che qui, in questa distesa di caseggiati a tre, quattro piani - semplici ma dignitosi - la sinistra ha sempre vinto. Spessissimo sopra al 60%. Ha vinto anche a fine maggio: ma per 39 voti. Trentanove. Nulla. Eppure la destra, quella destra che ha sfiorato l'impresa, non è cresciuta. Qualcosina in più ma nulla di significativo. Qui a San Rocco, semplicemente molti non sono andati a votare. Sette, sette e mezzo punti percentuali in meno di votanti, rispetto al resto della città.

Giuseppe Chiorazzi è il consigliere di Rifondazione eletto a San Rocco. E' rimasto l'unico consigliere di Rifondazione eletto. Giuseppe tutto è meno che un funzionario di partito. Poco più che ragazzo, è precario. Lavora a giornata - «a cottimo», dice - per una cooperativa che lo chiama quando si registra qualche carenza di organico nel personale del Comune. Oggi è alla Villa Reale, quella splendida villa fatta costruire dall'imperatrice austriaca per le vacanze del figlio. La più grande «villa recintata d'Europa», come vuole una strana graduatoria inventata probabilmente dall'ente provinciale del turismo. Oggi Giuseppe fa il custode alla mostra, alla piccola - ma interessantissima - mostra su Keith Haring, tutta dedicata al suo murales di Milwaukee. Ma c'è pochissima gente, anzi non c'è nessuno. Così si possono scambiare tranquillamente due parole. Lui ha le idee chiare: «Visto che stiamo parlando di percentuali, te ne faccio alcune io. E ti dico che all'85-90%, la sconfitta è dovuta a Prodi».

Al suo governo, alle sue scelte - o non scelte - politiche. La percentuale cresce ancora, se si ascolta per esempio Vicenzo Ascrizzi. Che è stato assessore nella giunta dell'Unione. E che spiega che per lui la colpa del governo, del governo di Roma, è almeno al 95 per cento. «Perché vedi, per riconoscimento di tutti abbiamo governato bene. Siamo intervenuti anche laddove la gente, dopo tanti anni di governo delle destre, era ormai “passivizzata” e non chiedeva più nulla. Siamo intervenuti nelle periferie, con un piano di risanamento che subito ha dato i suoi frutti. Ma probabilmente siamo stati un po' presuntuosi a pensare che bastava governare bene per ottenere la conferma. Soprattutto davanti ad interessi così corposi». Nella percentuale di “responsabilità locali” che spiegano le ragioni dell'astensione di massa a San Rocco, sia Giuseppe che l'ex assessore ci mettono anche l'annoso problema del depuratore. Un'enorme struttura che “puzza”, che da decenni aspetta di essere ristutturato e ampliato. Un'opera che Pecoraro Scanio ha preso ora l'impegno di finanziare. Ma forse quell'impegno è arrivato troppo tardi.

E quel depuratore - per il quale comunque qualcosa, interventi tampone, è stato già fatto in questi cinque anni - non spiega il crollo della sinistra. «No - riprende Giuseppe, un po' a disagio in giacca e cravatta, davanti ai graffiti di Keith Haring - Non basta». La gente non li ha votati. Neanche gli amici di Giuseppe sono andati a votare. «Perché s'era detto che si sarebbe abolita la legge 30. Invece io, e i miei amici, stiamo ancora aspettando. E lavoriamo così, alla giornata». Perché s'era detto che si sarebbe abolito lo “scalone” di Maroni sulle pensioni. E gli anziani di San Rocco la stanno ancora aspettando. Perché, anche in una città come questa, cattolica, cattolicissima, le centinaia di famiglie che convivono senza essere sposate si aspettavano la legge sui “Dico”. Nulla.

E' una spiegazione troppo semplice? A San Rocco, in quel quartiere che avrebbe dovuto essere “dormitorio” ma che invece pullula di vita, ora c'è una piazza. Una piazza principale, che non era stata prevista nelle intenzioni dei primi urbanisti. L'ha voluta la giunta appena bocciata dal voto. E' - era? - un pezzo di quel piano di risanamento che prevede - prevedeva? - biblioteche, asili, centri culturali. Come forse neanche Milano se li immagina. Se vai lì in quella piazza, col taccuino in mano, puoi dichiararti tranquillamente cronista di un giornale di sinistra. In tre quarti d'ora nessuna battuta dal sapore leghista. Come invece ti capita sei vai al centro. Qui, semplicemente non hanno voglia di parlare. Non interessa l'argomento. Dai ragazzi, dalle ragazze, neanche una parola. Molti di loro non sanno neanche chi abbia vinto le elezioni. Da chi passa, dalle donne - dalle mamme - riesci invece ad ottenere qualche battuta in più. E scoprire così che l'“antipolitica”, almeno qui, non è proprio un sinonimo di qualunquismo. C'è qualcosa di più, di più complesso. «No, non ci sono andata a votare - dice una donna, che dice anche il suo nome ma sfugge; media età, borsa della spesa e settimanale femminile sotto il braccio - Mi chiedi se non valeva la pena confermare questa giunta? Sarò matta ma ti dico che qualsiasi amministrazione “deve” occuparsi delle piazze e del decoro della città. Sennò perché altro bisognerebbe eleggerli? Lo devono fare tutti, amministrazioni di destra e di sinistra». Il buon governo, insomma, per lei dovrebbe essere un dato comune ai due schieramenti. «Dalla sinistra, da chi rappresenta quei valori che mi hanno insegnato in famiglia, voglio molto di più che non una bella piazza nel quartiere». Vuole un futuro per suo figlio. Che in un anno ha cambiato nove lavori. Tutti precari. E c'è quel signore che è andato a votare, a votare Faglia, ma la rivincita delle destre se l'aspettava, eccome. «Ma questi signori di Roma non prendono mai un treno? Lo sanno che per andare a Milano il biglietto è raddoppiato. Magari non sarà colpa di Prodi e Ferrero ma le persone che ne sanno…». Questa sembra l'antipolitica in versione monzese. Un po' diversa da quella che ci si aspetterebbe. Perché qui, e torniamo nella sezione di Rifondazione, trovi chi non ci sta ad accodarsi al coro. Quello che quotidianamente propinano tutti, indistintamente, i giornali e le tv. «E' vero che la gente era infastidita dalle undici auto blu di Berlusconi. E lo era magari anche delle sette di Fini e dalle cinque di Bersani. Le spese si possono ridurre, discorso che vale sempre. Ma non possiamo inseguire la demagogia, la politica ha un costo. Piccolo ma ha un costo. Giordano è arrivato qui con una sola auto. E che, doveva venire in motorino?».

Prodi e Ferrero, si diceva comunque. Due nomi che ricorrono spesso. Considerati entrambi simboli di questo governo. Il primo, leader di quel partito democratico che esce con le ossa rotte dal voto di fine maggio. Qui a Monza poi registra un vero caso limite. Alle politiche l'Ulivo era il primo partito, seppure per una manciata di voti. Alle amministrative ha perso la metà esatta dei consensi: passando da 24 mila voti a 12 mila. Un tracollo. Pagato soprattutto dai diesse: che ora hanno solo sei consiglieri. Una frana che in Lombardia è più accentuata che nel resto d'Italia, addirittura più che nel Nord-Est. Un tracollo che ha una sua spiegazione. Alfio Nicotra è da non molto il segretario regionale del Prc. Dice: «Bisognava essere stati da queste parti in campagna elettorale. Per accorgersi che i ministri che sono arrivati, alla fine sono serviti solo a dar manoforte a Formigoni, ai suoi amici. Alla destra». E' arrivato Di Pietro che ha firmato protocolli con il Governatore per sbloccare opere che non servono, è arrivata Livia Turco a dire che il “kit antidroga” della Moratti - quello che consentirebbe alle famiglie di sapere se il proprio figlio è un consumatore - è «una splendida idea». Sono arrivati altri, magari qualche sottosegretario, a dire che la “sicurezza delle città”, la sicurezza minacciata dai rom, è una priorità. «E davanti a due politiche moderate la gente sceglie sempre l'originale. Non si fida di quella fatta con la carta carbone».

Ma non basta. Non basta quel tracollo. Perché subito dopo il voto, in Lombardia sono arrivati Fassino, la ministra Lanzillotta e pochi altri. Per un vertice segreto che però segreto non è rimasto. Sono arrivati a dirsi che la “colpa della sconfitta” è in un'alleanza troppo rigida. D'ora in poi, insomma, il piddì vuole lasciarsi le mani libere. L'ha già fatto nei mesi scorsi, votando sedici su diciassette punti della piattaforma che Formigoni rivendica allo Stato, disegnando un esasperato regionalismo fiscale. Ora, i democratici sembrano pronti al balzo: candidandosi a sostituire le destre nella gestione delle loro politiche. A gestire o a cogestire quelle politiche. «Sì perché - come dice il responsabile degli enti locali del Prc, Alfredo Novarini - tutto si spiega con una sola scelta: quella della Lega delle cooperative di entrare in sintonia con gli affari della Compagnia delle opere». I soldi, quelli delle commesse, scelgono e la politica, quella dei democratici, segue.

Ma Prodi nei discorsi di tutti si accoppia sempre a Ferrero. Ferrero, non altri. «Perché se chiedi in giro, uno su mille ti dirà chi sono i ministri dei diesse o della Margherita. Ancora meno saprà chi è il ministro del Pdci. Ma tutti sanno chi è che rappresenta Rifondazione nel governo». E così Rifondazione viene percepita esattamente come parte integrante del governo. «La campagna di risarcimento sociale è partita troppo tardi», riprende Marco Fraceti. Che, lo si è detto, è segretario del circolo. Un circolo che ha una storia strana, in qualche modo atipica: nel '98, ormai dieci anni fa, la sezione, gran parte della sezione, fu contraria all'uscita di Rifondazione dalla maggioranza che sosteneva il primo governo Prodi. Ma nessuno di loro seguì Cossutta nella scissione. Rifondazione, dicono, ora è percepita come il partito che più ha difeso l'ultima finanziaria, che non si spinge mai più in là del lecito. A differenza di altri che magari, nelle dichiarazioni, fanno la “voce più grossa”. E così in Lombardia seppur impercettibilmente, Pdci e verdi aumentano: zero e qualcosa. Non a Monza, dove scompaiono, ma qui e là i due piccoli partiti sono sempre preceduti dal segno più. Il contrario di Rifondazione, che ha perso il 43 % del suo elettorato in 5 anni. Con un altro dato, difficile da illustrare nel dettaglio, ma significativo. Che nei piccolissimi comuni, anche vicino a Monza, dove si è votato senza i simboli dei partiti, la giunte di sinistra hanno fatto il pieno. Tutte riconfermate e anche qualcuna conquistata. C'è pure qualche sindaco di Rifondazione. Tutti però si sono dovuti presentare con liste civiche. Quando c'erano i loghi, i tradizionali loghi dei partiti, è andata male. Malissimo.

Come a Monza. Dove sono ormai lontane le amministrative del 2002. Quando comunque, l'Unione ce la fece a vincere anche perché la Lega si separò da Forza Italia. «Ma politica è anche saper sfruttare le differenze fra gli avversari». Ora si preparano ad altri cinque anni di opposizione. Debole, ma non disperata. In ogni caso difficile. Perché, per dirne una, Forza Italia ha già indicato come nuovo assessore all'urbanistica, Fabio Saldini. L'architetto di fiducia di Paolo Berlusconi. Cosa che, si dice, abbia fatto infuriare lo stesso neosindaco leghista. Chissà se è vero. Ma a questo punto, la diatriba fra le destre, a Rifondazione interessa poco. «Perché col tre e uno per cento non vai da nessuna parte», dicono. Di là, ci sono interessi capaci di spazzare via qualsiasi ostacolo. Vogliono costruire ventimila alloggi e non si fermeranno anche se c'è un piano regolatore che vincola quegli ettari. Fino ad ora, il movimento ambientalista, quella prima bozza di movimento ambientalista, ce l'ha fatta a salvare il verde. Ce l'ha fatta e probabilmente quel movimento è la ragione dell'exploit della lista legata all'ex sindaco. Ma ora tutto cambia. E in qualche modo bisognerà dare una sponda - meno: provare a dare una sponda - a quel “movimento”. Se saprà rimettersi in piedi dopo la batosta elettorale. Come? Qui a Monza, sembra che abbiano le idee precise. E hano già convocato una riunione. Hanno invitato il consigliere comunale, eletto fra le fila dell'Ulivo ma vicino ad Angius. E poi hanno chiesto di partecipare a tutti. A quei ragazzi e a quelle ragazze che avevano occupato una delle tante fabbriche dismesse della zona, alle associazioni di quartiere, ai tanti che sono impegnati nel volontariato. Al sindacato, all'Arci, ai circoli cattolici. Agli artigiani. Ai migranti. Alle famiglie che devono affrontare quotidianamente il problema di un figlio tossicodipendente. Alle persone di San Rocco. A quelli che s'incontrano nella piazza del quartiere. A chi si è astenuto. A tutti hanno dato un appuntamento. Per provare a costruire la sinistra a Monza. Sinistra, prima che sia troppo tardi.

Stefano Bocconetti
Monza, 14 giugno 2007
da “Liberazione”