Elezioni politiche 2008

L'irresistibile vocazione a destra del “ma anche”

La comunicazione di Walter e la caccia ai voti di Silvio

E' probabile che l'imprevisto e sgradito accostamento tra la candidatura ancora fresca di Calearo nelle liste del Pd e l'incredibile niet di Confindustria al varo dei decreti attuativi sulla sicurezza, strage o non strage, abbia lasciato un po' d'amaro in bocca a Walter Veltroni. Non è questa la sua strategia. Non è il solito inseguimento trafelato della destra, compito nel quale i Ds si sono esercitati fino all'estinzione.

L'ambizione di Walter è tutt'altra: mira a tenere tutto insieme, vagheggia mediazioni anche tra elementi incompatibili, vuol cancellare con un tratto di penna ogni conflitti. E' il celebre “ma anche”, certo, ma conviene prenderlo sul serio. Si tratta in effetti di una strategia comunicativa degna di competere con l'arte, sin qui ineguagliata, di Berlusconi.

Silvio il plutocrate, l'uomo più potente del paese da un quindicennio almeno, deve le sue fortune politiche alla capacità di apparire invece agli elettori come uno di loro, solo un po' più sveglio e più malandrino. La chiave del suo successo è fatta di immedesimazione miscelata a emulazione. E' un italiano come tutti, che in più ha raggiunto gli obiettivi che tutti vorrebbero conquistare. Il magnate che fa le corne. Il leader che non disdegna il gesto dell'ombrello. Il maschio latino che uno sguardo nella scollatura non si vergogna a scoccarlo neppure davanti a una foresta di telecamere.

La carta vincente di Veltroni è diversa, pur provenendo dallo stesso mazzo. E' la capacità di coinvolgere tutti e ciascuno in un sogno comune. Al “in fondo siamo uguali” di Berlusconi contrappone l'“in realtà sognamo le stesse cose”, ed è un'arma altrettanto potente, altrettanto ipnotica.

Non si tratta, sia chiaro, del solito vendere sogni, che in politica è merce comune. E' molto di più: è la capacità di costruire con ciascuno una comunanza emotiva fondata sull'identità dei sogni. Anche se quei sogni sono diversi e anzi opposti. L'ambiguità di Veltroni è costitutiva non tanto della sua strategia politica quanto di quella mediatica e comunicativa. Il suo partito deve incarnare allo stesso tempo le chimere dei padroncini del nord-est leghista e quelle dei loro operai. Deve coinvolgere i nordici e i capitolini, i settentrionali prigionieri del benessere, blindati nelle villette-bunker, e i meridionali costretti a una nuova ondata migratoria verso il paese di quelle villette. Il fastidio che l'“uomo nuovo” del Pd prova nel sentir parlare di destra e sinistra, di classi sociali o di conflitti è sincero. Fosse per lui, il Pd non sarebbe né di destra né di sinistra e neppure di centro. Un partito camaleonte, piuttosto, capace di adattarsi armoniosamente a ogni platea, a ogni fascia sociale, persino a ogni singolo individuo.

Purtroppo una cosa sono le strategie comunicative e un'altra quelle più strettamente politiche. Qui le scelte s'impongono e il Pd, almeno per ora, è condannato a scegliere politiche orientate a destra assai più che a sinistra.

Il partitone ha ereditato dalle forze che lo hanno messo al mondo lo strutturale rachitismo identitario. I sogni veltroniani possono mobilitare assai più di quanto non facesse la politica ridotta ad arida amministrazione dei Ds, ma non sono in grado di supplire a un vuoto identitario che, sotto la superficie, resta intatto. Per il Pd, come per i Ds e per la Margherita, il governo rimane l'unica ragion d'essere. Un fine in sé e per sé invece che un mezzo, uno strumento per amministrare la realtà, non per modificarla.

Per conquistare il governo il Pd deve rivolgersi a tutti, certo. Però non può farlo con tutti alla stessa maniera. Il suo battesimo del sangue è stata la rottura drastica con ogni opzione di sinistra, ed è questo in fondo il suo solo elemento davvero identitario. Per quanti operai Veltroni possa mettere nelle sue liste e nonostante si spertichi per convincere le donne e gli uomini di sinistra che i suoi sogni sono identici ai loro, la strada da quella parte è bloccata. C'è un limite invalicabile, pena la scomparsa del solo elemento che caratterizzi il Pd e gli consenta di essere qualcosa in più di una coalizione travestita da partito.

Il consenso che gli manca per governare, dunque per assolvere la sua unica missione politica, il Pd deve e dovrà sempre più cercarlo nei bacini elettorali della destra. Blandire il popolo di sinistra è un lusso e un vezzo. Sfondare nelle roccaforti di Berlusconi e della Lega, nel nord, in Lomabardia, in Veneto, è un imperativo categorico. I Ds avevano una scelta: inseguire la destra sul suo terreno o imboccare la strada di una vera forza sia pur moderatamente orientata a sinistra. Vittime dell'egemonia culturale berlusconiana hanno optato per la prima strada, e sono morti battendola invano.

Il Pd non ha quella possibilità di scelta. Anche se Walter l'ecumenico vorrebbe davvero che fosse il partito sia dei Calearo che degli operai, all'atto pratico il Pd finirà invece inevitabilmente per obbedire ai primi e fare dei secondi una foglia di fico. Lo fa già oggi, in questa campagna elettorale. E le cose non cambieranno fino a quando una presenza culturale e sociale oltre che politica della sinistra non sostituirà l'attuale egemonia della destra, costituendo così un polo d'attrazione capace di rimpiazzare le sirene della destra che, altrimenti, il partitone dei sogni e dell'identità vacante è destinato a seguire. O forse condannato a seguire, anche oltre le intenzioni dei sui leader.

La sfida della Sinistra Arcobaleno, nelle elezioni e a maggior ragione dopo, è anche questa. E gli elettori di sinistra del Pd, che ci sono e non sono pochi, avrebbero ottime ragioni per augurarsi un successo della Sinistra. Per chi non vuole un partito dei Calearo, dei Del Vecchio e dei Colaninno è il solo antidoto.

Andrea Colombo
Roma, 6 marzo 2008
da “Liberazione”