Si potrebbe dire che dopo Genova sia il governo a suggerire le mosse future
al movimento.
Non sfugge a nessuno, infatti, che dietro la questione del vertice Fao, della
sua tenuta o meno nella città di Roma, l'esecutivo abbia fiutato una
minaccia non tanto per l'ordine pubblico e per la possibile violenza di
piazza - allarme utilizzato strumentalmente - quanto per la sua stessa tenuta.
I primi a renderlo esplicito sono gli stessi uomini di Berlusconi.
Come il ministro Frattini, intervistato ieri da Il Messaggero che non
nasconde i timori per un imminente «autunno caldo». «Temiamo una saldatura
tra il movimento no-global e la protesta sociale», dice Frattini.
Quale protesta? «Il movimento delle sedi universitarie con dieci occupazioni
in altrettanti atenei. Cento collettivi che occupano altrettanti istituti
superiori scolastici, qualche centinaio di ospedali con il personale
infermieristico che protesta per il rinnovo del contratto». Molto preciso.
In realtà i fronti di protesta sociale aperti o in via di formazione sono
di più: la scuola non è soltanto la protesta degli studenti, ma anche quella
degli insegnanti e dei precari, in tutto diverse centinaia di migliaia di
persone.
Tra i precari non va dimenticato il personale Ata, assunto a suo tempo come
Lsu e ora ricollocato in cooperative diverse e per questo pronto a
manifestare.
Esiste il tema dei migranti e delle misure di controllo e repressione che il
governo cerca di attuare. Al vertice Fao, poi, non potrà mancare il movimento
degli agricoltori, realtà nuova e molto dinamica.
Ma soprattutto non vanno dimenticati i metalmeccanici, la cui imponente
mobilitazione dello scorso 6 luglio non può essere né ricondotta nell'ambito
della propria fabbrica - e non è questa la volontà della Fiom - né può
esimersi da un allargamento del proprio orizzonte verso i temi della
globalizzazione, ma anche in direzione di altre categorie di lavoratori.
Queste diverse soggettività si annusano da tempo con la consapevolezza di essere parte della stessa lotta - non a caso il 6 luglio la Fiom ha voluto dare questo segno alla sua manifestazione, “una lotta di tutti” - anche se finora è mancata un'occasione unificante, un terreno in cui riconoscersi insieme senza problemi di egemonia o di gerarchie.
Quanto accaduto a Genova, invece, esprime questa possibilità: sia perché, contestando l'attuale assetto del mondo, il movimento antiglobalizzazione offre un ambito di lotta e di riflessione generale; sia perché, con le sue forme, consente a soggetti diversi di mantenere la propria specificità confrontandosi e relazionandosi ad altri. Un potenziale formidabile.
Che tutto ciò possa convergere e fondersi in occasione del vertice Fao, in
fondo è espressione delle potenzialità di questa fase.
La Fao, è stato detto da tutte le componenti del movimento, non è una
controparte, né ha i requisiti dell'illegittimità che caratterizzano i G8.
E' un'istituzione in sé accettabile, ma della quale si contestano a fondo
le politiche reali.
Eppure, diverse categorie, diversi soggetti, diverse istanze sono pronte a
farne un'occasione di mobilitazione e di denuncia delle politiche liberiste
che atterriscono governo e Confindustria. La fame, che attanaglia centinaia di
milioni di persone non è che lo specchio di un “governo” ingiusto del
pianeta a cui corrispondono altrettante politiche locali.
E' una minaccia reale per un governo che a quella data avrà appena cinque
mesi. E poi il 10 novembre è troppo vicino al 12, anniversario di quell'imponente
manifestazione contro la riforma delle pensioni voluta allora dal Polo, che
segnò l'inizio della fine del primo governo Berlusconi.
Le differenze, ovviamente, sono molteplici a cominciare dall'esistenza, oggi, di un movimento di insofferenza al capitalismo e alle sue leggi, capace di mobilitare e motivare una nuova generazione. Ma le analogie sono comunque troppe e Berlusconi non se la sente di rischiare, anche perché all'orizzonte si trova una recessione internazionale di cui ancora nessuno sa valutare la portata. Ecco che quindi viene giocata la carta dell'allarmismo.
L'annuncio dello spostamento del vertice non punta tanto alla sua effettiva realizzazione, quanto a colorare l'avvenimento di tinte inquietanti e incontrollabili. Fino a far coincidere l'espressione “autunno caldo” con l'esplosione della violenza, come se nel '69 l'autunno fosse cominciato il 12 dicembre, quando i servizi e i fascisti pensarono bene di fermare la protesta sociale e operaia con la strategia delle bombe.
Ecco perché sul 10 novembre si fa svolazzare l'incubo delle “tute nere”, le possibili vendette incrociate tra manifestanti e polizia, l'ipotesi di una città messa a ferro e fuoco.
Quando invece tutti sanno che il mezzo milione di persone annunciato è composto da una massa pacifica e plurale, “armata” solo di mani nude, come lo era quella del 21 luglio, e determinata a cambiare il mondo. Ma è proprio questo che fa paura, non i black bloc.