Più che le violenze, il governo teme che il vertice Fao sia l'occasione per lotte sociali diverse di trovare un terreno comune e di saldarsi in un'unica vertenza contro il liberismo
La paura del 10 novembre

Si potrebbe dire che dopo Genova sia il governo a suggerire le mosse future al movimento.
Non sfugge a nessuno, infatti, che dietro la questione del vertice Fao, della sua tenuta o meno nella città di Roma, l'esecutivo abbia fiutato una minaccia non tanto per l'ordine pubblico e per la possibile violenza di piazza - allarme utilizzato strumentalmente - quanto per la sua stessa tenuta. I primi a renderlo esplicito sono gli stessi uomini di Berlusconi.
Come il ministro Frattini, intervistato ieri da Il Messaggero che non nasconde i timori per un imminente «autunno caldo». «Temiamo una saldatura tra il movimento no-global e la protesta sociale», dice Frattini.
Quale protesta? «Il movimento delle sedi universitarie con dieci occupazioni in altrettanti atenei. Cento collettivi che occupano altrettanti istituti superiori scolastici, qualche centinaio di ospedali con il personale infermieristico che protesta per il rinnovo del contratto». Molto preciso.

L'autunno caldo

In realtà i fronti di protesta sociale aperti o in via di formazione sono di più: la scuola non è soltanto la protesta degli studenti, ma anche quella degli insegnanti e dei precari, in tutto diverse centinaia di migliaia di persone.
Tra i precari non va dimenticato il personale Ata, assunto a suo tempo come Lsu e ora ricollocato in cooperative diverse e per questo pronto a manifestare.
Esiste il tema dei migranti e delle misure di controllo e repressione che il governo cerca di attuare. Al vertice Fao, poi, non potrà mancare il movimento degli agricoltori, realtà nuova e molto dinamica.
Ma soprattutto non vanno dimenticati i metalmeccanici, la cui imponente mobilitazione dello scorso 6 luglio non può essere né ricondotta nell'ambito della propria fabbrica - e non è questa la volontà della Fiom - né può esimersi da un allargamento del proprio orizzonte verso i temi della globalizzazione, ma anche in direzione di altre categorie di lavoratori.

Queste diverse soggettività si annusano da tempo con la consapevolezza di essere parte della stessa lotta - non a caso il 6 luglio la Fiom ha voluto dare questo segno alla sua manifestazione, “una lotta di tutti” - anche se finora è mancata un'occasione unificante, un terreno in cui riconoscersi insieme senza problemi di egemonia o di gerarchie.

 Quanto accaduto a Genova, invece, esprime questa possibilità: sia perché, contestando l'attuale assetto del mondo, il movimento antiglobalizzazione offre un ambito di lotta e di riflessione generale; sia perché, con le sue forme, consente a soggetti diversi di mantenere la propria specificità confrontandosi e relazionandosi ad altri. Un potenziale formidabile.

Che tutto ciò possa convergere e fondersi in occasione del vertice Fao, in fondo è espressione delle potenzialità di questa fase.
La Fao, è stato detto da tutte le componenti del movimento, non è una controparte, né ha i requisiti dell'illegittimità che caratterizzano i G8. E' un'istituzione in sé accettabile, ma della quale si contestano a fondo le politiche reali.
Eppure, diverse categorie, diversi soggetti, diverse istanze sono pronte a farne un'occasione di mobilitazione e di denuncia delle politiche liberiste che atterriscono governo e Confindustria. La fame, che attanaglia centinaia di milioni di persone non è che lo specchio di un “governo” ingiusto del pianeta a cui corrispondono altrettante politiche locali.
E' una minaccia reale per un governo che a quella data avrà appena cinque mesi. E poi il 10 novembre è troppo vicino al 12, anniversario di quell'imponente manifestazione contro la riforma delle pensioni voluta allora dal Polo, che segnò l'inizio della fine del primo governo Berlusconi.

Le differenze, ovviamente, sono molteplici a cominciare dall'esistenza, oggi, di un movimento di insofferenza al capitalismo e alle sue leggi, capace di mobilitare e motivare una nuova generazione. Ma le analogie sono comunque troppe e Berlusconi non se la sente di rischiare, anche perché all'orizzonte si trova una recessione internazionale di cui ancora nessuno sa valutare la portata. Ecco che quindi viene giocata la carta dell'allarmismo.

Suona l'allarme

L'annuncio dello spostamento del vertice non punta tanto alla sua effettiva realizzazione, quanto a colorare l'avvenimento di tinte inquietanti e incontrollabili. Fino a far coincidere l'espressione “autunno caldo” con l'esplosione della violenza, come se nel '69 l'autunno fosse cominciato il 12 dicembre, quando i servizi e i fascisti pensarono bene di fermare la protesta sociale e operaia con la strategia delle bombe.

Ecco perché sul 10 novembre si fa svolazzare l'incubo delle “tute nere”, le possibili vendette incrociate tra manifestanti e polizia, l'ipotesi di una città messa a ferro e fuoco.

Quando invece tutti sanno che il mezzo milione di persone annunciato è composto da una massa pacifica e plurale, “armata” solo di mani nude, come lo era quella del 21 luglio, e determinata a cambiare il mondo. Ma è proprio questo che fa paura, non i black bloc.

Salvatore Cannavò
Roma, 7 luglio 2001
da "Liberazione"