Laboratorio Lombardia
Il Modello Formigoni

Riesce difficile giustificare la scarsa attenzione con cui gran parte del mondo politico a sinistra riflette sulla portata dell'offensiva sferrata, sul piano sociale e istituzionale, dalla presidenza della giunta lombarda.

Con un sapiente intreccio di atti concreti e di attacchi a norme costituzionali in vigore, Formigoni indica un 'modello lombardo' come paradigma della transizione politica italiana e lo carica ambiguamente della legittimazione che ricava dalla vittoria a grande maggioranza conseguita nelle elezioni amministrative dello scorso aprile.

È tempo di prendere atto che in Lombardia si sta aprendo una lotta sulle posizioni con cui il 'governatore' vuole spianare la strada a un nuovo impianto sociale e istituzionale. Lotta di cui comincia a farsi interprete il sindacato nella sua autonomia, e attorno a cui si concentra un'attività crescente di movimenti e organizzazioni sociali, a partire dagli studenti, dagli operatori della sanità, dai pensionati, ma che stenta a trovare raccordo politico e culturale adeguato su scala locale e nazionale.

Per queste ragioni vorrei lanciare un allarme ragionato e un invito a studiare, analizzare, commentare l'impianto programmatico su cui si muove la giunta lombarda nella VII legislatura. E vorrei si misurasse a fondo la discontinuità rispetto alla fase precedente, e non sfuggisse l'insidia nascosta nel soggettivismo interpretativo con cui il governatore' lombardo pretende di far passare per oggettivo ogni suo giudizio di valore, sempre ricalcato immediatamente sul contingente, sempre sottratto a ogni verifica sul metro dei principi istituzionali, spesso in rotta di collisione con i principi e le norme della nostra Costituzione, da cui derivano i diritti universali oggi messi sotto tiro nella nostra regione.

Il gruppo dirigente della CGIL in Lombardia ha cominciato a riflettere su alcuni dei nodi cui è dedicato il seguito di questo scritto, mentre è in corso di elaborazione una piattaforma con cui CGIL-CISL-UIL mobiliteranno i lavoratori sui contenuti articolati e concreti sottesi all'analisi più generale qui avanzata. Su questi obiettivi sarà decisivo costruire quella consapevolezza e quell'unità del mondo del lavoro che sono condizioni indispensabili per il successo di un confronto che si preannuncia difficile e che superano di slancio molti dei conflitti burocratici che - come è avvenuto per un certo tempo anche qui in Lombardia - impacciano talvolta un'azione più incisiva del sindacato.

Il programma di Formigoni nell'attuale fase politica

Vale la pena di chiarire la sfida che, sul terreno dei rapporti sanciti dal diritto vigente, lanciano formulazioni politico-istituzionali come quelle contenute nel documento che porta il titolo L'Assetto istituzionale, il programma e l'organizzazione ed è stato presentato dalla giunta al consiglio della Lombardia nella seduta del suo insediamento.

Dato il carattere di questa riflessione, mi limiterà a questioni di ordine generale, escludendo per ora riferimenti a temi specifici.

Poiché a tutt'oggi non è cambiata la forma di governo della Repubblica, né i mutamenti disorganici dei meccanismi elettorali, né la modifica della forma di governo regionale giustificano atti che contrastino con la Prima Parte della Costituzione. Non si può dare luogo a uno Stato federale che nei farti rovescia il significato dell'Art. 5 che assegna alla Repubblica una e indivisibile il compito di promuovere le autonomie locali conservando le prerogative unitarie e i diritti universali propri di una democrazia sociale. Al contrario, tutta l'impostazione del Programma regionale di sviluppo e le dichiarazioni del presidente sulla 'devolution' e sull'autonomia politica, economica e fiscale della Lombardia ("la ricchezza dei territori è dei territori stessi") non vanno semplicemente nella direzione della ripartizione del potere su base territoriale, né intendono risolvere il problema politico della divisione delle attribuzioni di governo tra lo Stato centrale e le altre entità pubbliche in base al decentramento.

Non si tratta — si badi bene — di federalismo, per quanto spinto, ma della messa in discussione del carattere universale, solidaristico, nazionale della questione sociale, dell'uso della leva fiscale e della finanza pubblica così come prescrivono la lettera e lo spirito della Costituzione. La devoluzione di sanità, scuola, sicurezza, così come è argomentata con dovizia nei documenti, sottintende una ridistribuzione della sovranità popolare a una pluralità di soggetti definiti dalla residenza, differenziati in molteplici identità dalle quali resta esclusa quella che deriva dalla posizione nella produzione, dal lavoro. Compaiono individui, famiglie, formazioni sociali, mai cittadini e lavoratori.

Siamo così introdotti all'autentica chiave interpretativa del federalismo formigoniano: la sussidiarietà. Collegando al federalismo il principio della sussidiarietà

'orizzontale', si forza il campo dei rapporti tra comuni, province, regioni e Stato allo scopo di incidere, senza alcuna preoccupazione di equilibrio, sulla questione dei rapporti tra autonomia dei privati e titolarità delle funzioni pubbliche.

In questo modo, in una fase politica molto delicata, la giunta lombarda, getta il peso e il consenso mediatico di una carica che promana da un'elezione presidenziale sull'obiettivo di dislocare impropriamente la questione del federalismo sul terreno della ripartizione del potere di governo e di delegittimare i principi dello Stato sociale.

Il consenso degli imprenditori e delle loro associazioni, apertamente in sintonia su questioni come il buono-scuola, la privatizzazione della sanità, la molecolarizzazione dell'assistenza nel tessuto del privato sociale, è assicurato.

In definitiva — e qui stanno le ragioni dell'allarme — la lettura dei documenti lombardi conferma un'ispirazione culturale e sociale a suo tempo propugnata da Miglio e dal 'gruppo di Milano' — e perciò tutt'altro che sgradita oggi alla Lega! — che sostituisce al principio della Repubblica fondata sul lavoro quello di segno opposto, cioè di una Lombardia genericamente fondata sulla produzione di ricchezza.

L'equivoco della 'libertà'

Autonomia sociale e autonomia territoriale, sussidiarietà e federalismo compenetrano il documento programmatico della Regione Lombardia a partire da un doppio assunto: "il primato della persona sull'ente astratto" e "la pari dignità istituzionale tra Stato e Regione" posti in rapporto solo funzionale tra loro. Ovvio che si guardi con sospetto a valori generali — come solidarietà nazionale, concertazione, diritto alla contrattazione, cooperazione e armonizzazione — visti come veicoli del "monopolio statale della sovranità".

E' a questo punto che si delinea la fisionomia di quel 'Modello Lombardia', che viene definito "una visione del mondo", che si basa su una "storia peculiare, cerniera tra Occidente, Centro Europa, Mediterraneo" e che fin qui sarebbe stato compresso dallo Stato centralista e burocratico. Un modello che vuole valorizzare le responsabilità individuali e collettive elidendo ogni mediazione della rappresentanza. Ci si deve rifare perciò alla libera iniziativa di persone, famiglie, associazioni e imprese. E, dato che il soggetto fondante del potere è la persona, "che può cedere quote di questo potere alle comunità e alle istituzioni per delegare loro la gestione di bisogni che da sola non potrebbe affrontare", il pubblico non è insidiato nel suo primato: è del tutto fuori gioco, e diventa pubblico "tutto ciò che offre un servizio valido e accessibile a tutti".

Scompare la distinzione tra cittadini in grado, o meno, di esercitare il diritto all'iniziativa economica privata, si dissolvono le formazioni che si costituiscono nei rapporti di produzione. L'intervento del pubblico sopraggiunge solo quando manca o è insufficiente l'iniziativa privata, e i lavoratori, o i pensionati, svaniscono come categorie cui attribuire diritti e per cui definire politiche mirate, interventi sociali, azioni di governo. Il potere pubblico — e la Regione in particolare — figura nel programma soltanto come uno strumento di "stimolo alle energie vitali già presenti nella regione", spogliato delle funzioni di indirizzo delle politiche economiche.

In sostanza, si assume a fondamento dell'intera argomentazione un concetto di presunta liberazione e di presunta creatività. In realtà nel documento la libertà assume carattere neo corporativo e si imbeve di anti politica e di anti statalismo di maniera, in flagrante rottura con i valori di solidarietà della tradizione tavorista lombarda, e con frequenti innesti di una 'net-economy' di accatto.

Sull'onda di questa idea di 'libertà' si delinea una Costituzione immaginaria, in cui i poteri pubblici non hanno una autonomia riconosciuta, il privato sociale diventa pubblico, i rapporti, fra pubblico e privato sono rovesciati, la 'programmazione' è esentata da ogni responsabilità nazionale.

Inevitabilmente il sindacato dei lavoratori viene espunto da un circuito anche di semplice concertazione e il diritto al lavoro, o i diritti del lavoro, escono dall'area del confronto programmatico tra questa giunta e le rappresentanze sociali. Alle parti sociali, in definitiva, il documento programmatico finisce per chiedere un'improbabile passivizzazione, che le riduca a cooperare per "una flessibilizzazione dell'organizzazione del lavoro"!

Una sottovalutazione pericolosa

Credo che la stagione delle riforme dei primi anni settanta, segnata da uno straordinario ruolo del mondo del lavoro, sia sorto attacco da due versanti tra loro forse convergenti, ma oggi ancora non coincidenti

a. lo spirito ultra liberista sostenuto direttamente dalla Confindustria di D'Amato, esplicitato in questi giorni dall'offensiva di Fiat e Federmeccanica sui due livelli contrattuali e coagulato a suo tempo nel programma, per ora battuto ma non abbandonato, dei referendum radicali;

b. l'ambizione legislativa che ha il suo motore in Lombardia e unisce matrice liberale, neo corporativismo, I tradizione religiosa conservatrice, libertà di impresa, reti di associazionismo privato e confessionale e persegue una destrutturazione del pubblico e una sua riduzione a rete minima, indirizzando così con 'mano leggera' le enormi risorse liberate dai processi conseguenti alla metamorfosi del mondo del lavoro soprattutto al Nord.

C'è da osservare che, mentre l'attacco frontale alle condizioni di lavoro suscita attenzione e allarme ancora vasti e coalizza la risposta di un fronte di alleanze che riesce a superare l'ambito sindacale — come hanno dimostrato l'esito del referendum sull'Art. 18 dello Statuto dei lavoratori, la conclusione della vertenza alla Zanussi, il consenso intorno al consolidamento di proprie rappresentanze tra i lavoratori immigrati in lotta — la discontinuità introdotta sul versante sociale e istituzionale da alcune esperienze di governo territoriale sembra sfuggire a una adeguata comprensione.

Nei progetti di 'devolution' elaborati da alcune regioni del Nord che ambiscono presentarsi e operare come soggetti politici, c'è un modo nuovo di relegare ai margini la rappresentanza del lavoro, di aggredire lo Stato democratico contrapponendogli il richiamo a un popolo che si identifica con il territorio, di consegnare il protagonismo dello sviluppo solo all'impresa, di far regredire il pubblico nelle questioni del Welfare, di negare il pluralismo sociale e la sua strutturazione in classi: una novità inquietante che tuttavia non sembra suscitare un'analisi e una risposta unitaria della sinistra sociale e politica. Questa novità si richiama a valori condivisi come libertà, sviluppo, primato della persona, che è possibile mistificare e piegare all'ideologia conservatrice soltanto se l'altro protagonista, il soggetto antagonista a questo progetto, rinuncia alla lotta e a un disegno di trasformazione.

La 'rivoluzione copernicana', così come la definisce il 'governatore' della Lombardia, va presa sul serio e confutata con l'ampiezza di iniziativa che un disegno di questo genere merita da parte dei soggetti politici e sociali che intende stabilmente emarginare.

Mario Agostinelli
CGIL - Lombardia
Articolo dal n°12 - dic 2000 de "La Rivista" del Manifesto