L'assassinio di Marco Biagi e la criminalizzazione del movimento

La lotta politica dopo l'11 settembre

terrorismo, provocazione, criminalizzazione

Il terrorismo è uno spauracchio che viene ormai sistematicamente agitato sia nelle vicende politiche italiane che in quelle internazionali. Non c'è giorno in cui la minaccia non venga additata come elemento immanente, spesso rasentando il futile allarmismo. E' di pochi giorni fa la boutade del ministro Martino, prontamente smentito dal collega Scajola, a proposito del pericolo batteriologico. Ora siamo invece di fronte all'accusa, risibile e tragica allo stesso tempo, lanciata a mezzo stampa contro Sergio Cofferati.

C'è un filo robusto che lega questi fatti al contesto internazionale costruito ad arte dopo l'11 settembre. Il terribile attentato contro le Twin Towers, infatti, è stato immediatamente convertito nella edificazione di un nuovo Impero del Male da utilizzare come sparring partner dell'Impero statunitense nella sua pretesa di dominio mondiale. La lotta al terrorismo è divenuta così il pretesto perché la politica internazionale si identifichi sempre più con operazioni di "polizia internazionale", di "guerra umanitaria" o, più compiutamente, con il concetto di "Guerra infinita". In questo modo, qualsiasi conflitto - tra gli stati, interno ad essi, per il diritto all'autodeterminazione - viene affidato all'"ufficio lotta al terrorismo", imponendo una semplificazione mortale e una logica binaria della politica: o con me o contro di me; dalla parte del "Bene" o da quella del "Male".

Di questa logica, ad esempio, ha immediatamente approfittato Israele schiacciando le legittime aspirazioni palestinesi sul meccanismo infernale dei kamikaze oppure istillando su scala mondiale una pericolosa equazione secondo cui qualsiasi critica allo stato di Israele è un cedimento alle ragioni dei terroristi o, peggio, un atto antisemita.

Lo stesso avviene in altri contesti. L'Unione europea, ad esempio, stilando la lista delle organizzazioni terroriste ha iscritto tra queste le Farc colombiane e il Pkk curdo, svilendo e delegittimando antiche lotte di liberazione e aggravando pericolosamente situazioni già compromesse. Con lo stesso approccio, in Spagna, il governo Aznar approva una legge "sui partiti" in cui, con l'obiettivo di isolare il terrorismo dell'Eta, si limitano i diritti democratici, non solo del suo braccio politico, Herri Batasuna, ma anche di quelle organizzazioni che, a giudizio del governo, possano essere sospettate di ambiguità o di reticenze.

Uno schema simile è proposto ora in Italia. Di fronte alla crescita della mobilitazione sociale - si guardino i dati Istat pubblicati ieri sull'exploit degli scioperi e della conflittualità in fabbrica, oppure si pensi al dopo Genova - l'arma del terrorismo viene brandita per frenare, frustrare o condannare le forme più tradizionali di conflittualità sociale come lo sciopero e le manifestazioni sindacali. Per tutta la giornata di ieri, pur rinunciando a infierire su Cofferati, autorevoli esponenti del governo, come Scajola, non si sono lasciati sfuggire l'occasione di agitare il motivetto sulle «tensioni sociali che possono dare adito a gesti folli». Questa strategia viene ormai utilizzata ripetutamente, almeno dopo Genova, e va oltre il pur grave tentativo di delegittimazione della Cgil. In ballo c'è la lotta politica e sociale come l'abbiamo conosciuto nel dopoguerra: le manifestazioni di piazza, le lotte operaie, quelle dei vari soggetti sociali vengono sempre più assimilate ed equiparate a gesti folli e violenti sia per depotenziarne la dinamica, ma anche con l'intento, più sofisticato, di sovrapporre simbolicamente la lotta sociale al gesto disperato. L'equazione suggerita diventa così semplice ma efficace: chi non accetta l'ordine esistente è un pazzo o un bombarolo.

In realtà si tratta di una strategia che è frutto del vicolo cieco in cui si trova oggi il neoliberismo, privo di qualsiasi margine di mediazione per dare una risposta, anche parziale, alle urgenze sociali e quindi obbligato a perseguire la strada della repressione e a utilizzare l'arma segreta della criminalizzazione. E' una sorta di ultima spiaggia che mostra la debolezza del capitalismo globalizzato - da questo punto di vista fa il paio con i crack a ripetizione - ma che, allo stesso tempo, lo obbliga a dispiegare tutta la propria potenza e la propria distruttiva pericolosità. A distanza di un anno appare dunque sempre più chiaro che tipo di prova generale fu fatta a Genova lo scorso luglio e quale grande metafora fu lì evocata. Un anno dopo, e alla luce della tensione di questi giorni, è una lezione che non dobbiamo assolutamente dimenticare.

Salvatore Cannavò
Roma, 30 giugno 2002
da "Liberazione"