Palavobis a Milano, Palasport a Firenze...

Movimenti democratici

un movimento che può saldarsi con quello dei lavoratori e dei giovani

Mentre scriviamo, il Palasport fiorentino scoppia letteralmente di folla, nella spasmodica attesa dell’incontro – cioè dello scontro - con Massimo D’Alema. Si preannuncia un’altra serata ad alta tensione: nel giro di tre giorni, è il terzo, serratissimo protagonismo di una piazza sempre più autoconvocata. Come in un crescendo rossiniano, dai girotondi alle fiaccolate si è passati ai cortei, alle manifestazioni, ai seminari di massa, ai grandi raduni come quello del Palavobis: non un unico evento, ma certo un terremoto unico, che si articola in momenti diversi, lontani-vicini, con protagonisti e istanze parzialmente sovrapposti. Che cosa sta succedendo? Qualcosa di molto rilevante e di relativamente nuovo, che va attentamente capito e analizzato.

Una protesta democratica nei contenuti, radicale nelle forme

La prima sensazione è che ci troviamo di fronte ad un movimento di tipo abbastanza inedito nelle vicende italiane: una protesta democratica nei contenuti, radicale nelle forme. Migliaia e migliaia di persone si mobilitano in prima persona su questioni generali e fondative - la giustizia, l’informazione, lo stato complessivo della democrazia - proponendo la propria soggettività come la leva forte di un mutamento, prima di tutto, degli equilibri politici. Contro il centrodestra e il suo degrado, contro il governo Berlusconi, dunque: ma anche contro l’inedia e lo sprofondamento etico-politico del centrosinistra e dei suoi gruppi dirigenti, la cui débacle è ormai al di là dell’immaginabile. In un senso preciso, questa lotta è nata, e sta crescendo, come rivolta di massa contro il “riformismo reale”, quello incarnato dai Fassino, dai D’Alema e dai Rutelli: gli stessi che, nel pieno dell’insubordinazione di massa, non hanno trovato di meglio, per il Cda della Rai, se non la sconcia lottizzazione che è stata praticata. Gli stessi che fino a pochissime settimane fa perseguivano accordi consociativi sul conflitto d’interessi. Gli stessi che hanno lasciato isolato il grido di dolore di Francesco Saverio Borrelli. E vi ricordate, ci ricordiamo, che, poco prima del “caso Ue”, erano proprio D’Alema e Fassino a paventare gli “eccessi di radicalismo” in ambito ulivista? Ce n’era abbastanza, insomma, dopo cinque anni di cattivo governo e nove mesi di non opposizione, per stimolare un bisogno di identità civile, democratica, “liberale”, non necessariamente di sinistra – chiamatela come volete – che rompesse la cappa di piombo bipartizan che grava sul paese e ripristinasse, quantomeno, le discriminanti elementari tra destra e sinistra, tra conservatori e progressisti, tra civiltà e inciviltà. Il movimento no global ha dimostrato sul campo che “si può”: si può combattere per un mondo diverso con le proprie forze, usando la risorsa della propria soggettività, e forme di lotta non canoniche, come “costituenti” di un progetto che verrà. Da qui è venuto l’esempio, il la, prima ai professori, poi agli intellettuali, poi, ancora, più semplicemente, a una massa di persone che non si rassegna, comunque, allo stato di cose presenti.

I protagonisti della protesta

Chi siano queste persone, ancora non è del tutto chiaro, né ci aiutano, più di tanto, le classificazioni sociologiche. Si parla alternativamente di “ceto medio” e di “intellettuali”, come se le due dimensioni conicidessero: e invece vanno tenute rigorosamente distinte. Il “morettismo” è stato un’occasione “per sé” piuttosto che “in sé”: una specie di astuzia della ragione storica, che ha usato anche questa discutibile via per scoperchiare il vaso di Pandora e consentire una via di liberazione a soggettività troppo a lungo represse, rimosse, ridotte all’inattività. Il movimento democratico che ha preso vita è assai più complesso del “moderatismo apocalittico” degli intellettuali delusi dall’Ulivo, e dal proprio quinquennale silenzio: lo abitano docenti universitari, lavoratori intellettuali, professionisti, tecnici, operatori dell’informazione. Essa era – ed è – la base di consenso metropolitana dei partiti del centrosinistra, ma presumibilmente supera questi confini: oggi vive con angoscia l’avanzata berlusconiana, quella che si realizza sul terreno degli assetti dello Stato prima che del disegno di società. Di Silvio Berlusconi teme, prima che le ricette liberistico-populiste, la faccia sovversiva (il sovversivismo delle classi dirigenti, così tipico della nostra Italia), l’antipolitica intesa come uso sistematico della res publica per i propri interessi privati, la persecuzione della magistratura e della sua indipendenza, la cancellazione di ogni pur vago rigore costituzionale, i legami occulti e non occulti con il mondo del malaffare e della mafia: insomma, avverte nel Cavaliere non solo un leader autoritario e arrogante, ma l’esponente di una borghesia tanto parassitaria quanto famelica, tanto corrotta quanto avventuristica. Sono paure largamente fondate nella realtà, e certo diffuse in larghe fette di popolo: logico che, in tanto deserto di idee e di gruppi dirigenti, esse prendano la forma dell’indignazione e della ribellione esistenzial-morale. Proprio qui sono avvertibili novità e limiti.

Un altro governo è possibile

La novità – che è rintracciabile anche in una parte del movimento no global – è la politicità diretta, assertiva, “di principio”. Solo i politici logorati da troppi decenni di cinismo continuano oggi a tracciare secchi confini tra etica e politica: per la common people, per la gente comune, c’è piuttosto una coincidenza piena. “Un altro mondo è possibile”: se questo non è uno slogan rituale, e non lo è, è destinato a dare frutti anche diversi dai suoi intendimenti iniziali, e a moltiplicare le sue possibilità di modulazione. “Un altro governo è possibile”. “Un paese senza Berlusconi è possibile”. Magari, con una classe dirigente di cui non ci debba vergognare. E con un assetto liberal, americano nel senso migliore del termine. Qui, certo, piombano, da capo, le illusioni dell’ideologia, un’ingenuità originaria che separa – appunto con la forza dell’indignazione – il liberalismo dal liberismo, la legalità dalle commistioni quotidiane del business con la criminalità, un’idea astratta di buongoverno dal rapporto reale tra politica ed economia. Sono temi, certo, tutti da discutere: intanto, è ben importante che la discussione torni ad essere questa, e nel fuoco di una battaglia che è bene che cresca, si dispieghi, trovi le sue rappresentanze e le sue piattaforme.

La necessità di una saldatura con gli operai, i lavoratori dipendenti, i giovani

Un’ultima, pur cruciale questione. In questo movimento sembrano mancare gli operai e i lavoratori dipendenti, e i giovani. Questi ultimi, per la verità, sono impegnati da anni in vertenze, movimenti e proteste a difesa di diritti che sono “loro” ma sono anche universali: loro, non si sono mai potuti permettere il lusso di una lunga fase di sonnolenza oppositiva. Certo, stiamo andando incontro, per l’ennesima volta, a comparti di lotta separati e non comunicanti: alle classi lavoratrici la questione sociale, la tutela della dignità del lavoro, la domanda di salari e orari decenti, alle classi medie, appunto, la lotta contro Berlusconi e per un nuovo assetto della sinistra di governo. Una distinzione di compiti e di interessi che potrebbe parzialmente cadere, comunque, nella giornata del 23 marzo: lo sciopero generale, più che mai, è la vera leva dell’unità.

Rina Gagliardi
Roma, 26 febbraio 2002
da "Liberazione"