Referendum sull'estensione dell'articolo 18

Le ragioni del SI al referendum

per l’estensione dell’articolo 18 della Legge 300 del 1970

Il 15 e 16 giugno più di quaranta milioni di cittadini italiani saranno chiamati alle urne per esprimersi in merito ad una questione, per me assolutamente importante e prioritaria: l’estensione delle prerogative previste dall’articolo 18 della legge 300 del 1970, anche ai lavoratori e alle lavoratrici occupati in aziende con meno di 16 dipendenti.

Il quesito proposto è  semplice e facilmente comprensibile: essere reintegrati nel proprio posto di lavoro, dopo essere stati licenziati senza giusta causa e dopo sentenza del Tribunale che sancisce l’illegittimità del licenziamento, deve valere per tutti, oppure no?          

Io credo di SI.

Lo credo per ragioni che espliciterò sinteticamente in seguito.

Mi preme, prima, sollevare un altro problema che ritengo altrettanto importante e che attiene ad un più ampio concetto di democrazia e partecipazione.

E’ vero che l’istituto del referendum, per sua natura prevede la possibilità che in campo vi siamo tre distinte posizioni: il SI, il NO e l’astensione.

Mi pare francamente evidente e difficilmente contestabile che dal punto di vista mediatico e dell’informazione (TV, radio, quotidiani nazionali e locali), delle tre possibilità di voto, prima esposte, quella che implicitamente trova maggior spazio è l’astensione, attraverso la strategia scientemente predisposta, del silenzio quasi assoluto.

Ciò, con buona pace per la cosiddetta par condicio.

Tanto che, visto l’andamento della campagna elettorale, perfino il Comitato per il NO nazionale, promosso da un’autorevole figura politica dell’attuale compagine governativa, decide di sposare la linea del silenzio e dell’astensione.

Siamo quindi di fronte ad una interpretazione un po’ bizzarra della “par condicio”.  Visto che i sostenitori del NO, generalmente, sfuggono ad un confronto di merito, veicolare attraverso l’informazione, solo la posizione del SI, violerebbe le regole della campagna referendaria.

Quindi prevale il silenzio, un oggettivo  favore ai sostenitori della terza posizione: l’astensione e il conseguente fallimento del referendum per mancanza del quorum.

A mio parere ciò attiene anche ad un modello di società che si vorrebbe  costruire. Un modello dove la partecipazione alla vita politica deve essere prerogativa di pochi eletti.

Nel caso specifico del referendum il cittadino non viene messo nelle condizioni minime di conoscenza, delle ragioni del SI o del NO, alla fine, probabilmente deciderà di astenersi.

E’ questa una scelta politica molto grave, che eliminando la possibilità di ampliare conoscenza e sapere, riduce al minimo la partecipazione alla costruzione della decisione.

Personalmente, rifiutando questa logica, cerco nel limite del possibile di ancorarmi al merito delle questioni che solleva il referendum.

Il nostro Pese vive una difficile fase economica e industriale.

Negli ultimi anni, in forma continua e crescente si sono spostate ingenti risorse dall’economia, diciamo così, industriale, verso le magnifiche sorti progressive dell’economica finanziaria.

Questa scelta ha di fatto determinato una atomizzazione e frammentazione dell’apparato produttivo (ciò anche, ovviamente, per altre ragioni, in primo luogo, ad esempio, l’assoluta mancanza di una seria politica industriale).

La conseguenza di tutto questo è stato, oggettivamente, una diminuzione in generale delle tutele e dei diritti nel lavoro, determinando un impoverimento generale del Paese, (il lavoro povero e la povertà in assoluto aumentano).

In particolare, nelle aziende con meno di 15 dipendenti, il venir meno delle regole previste dai contratti nazionali o dalle norme vigenti, è quasi prassi quotidiana.

Quindi, se nonostante questo arretramento delle condizioni di vita e di lavoro e la messa in discussione di diritti e tutele, il sistema Paese vive  tutt’oggi una profonda crisi economica e industriale (che mi pare evidenziata  anche dal governatore della Banca d’Italia), forse è il caso di cambiare strada, impegnandoci di più sul consolidamento dei rapporti di lavoro, sulla qualificazione dei diritti e delle tutele.

Questo significa lanciare la sfida alta della competizione fra diversi sistemi Paesi. Una sfida legata alla qualità del prodotto e del processo produttivo.

Viceversa, la contrazione dei salari, la diminuzione dei diritti, l’azzeramento dello Stato Sociale in generale (Previdenza in testa), portano il Paese a competere con sistemi che sempre saranno in grado di assicurare salari più bassi e assenza di diritti.

Quindi, tra le tante ragioni del SI, civiltà di un Paese, dignità delle persone, vi sono pure ragioni economiche.

Per questo invito tutte e tutti a recarsi alle urne il 15 e 16 giugno a votare SI per l’estensione dell’articolo 18 della Legge 300, anche a quelle lavoratrici e lavoratori oggi non coperti da tale norma.

Fausto Ortelli (CGIL - Brianza)
Monza, 6 giugno 2003