Referendum 2005

Ritirarsi è un errore

Insomma per mettere le mani sul nostro corpo se ne sono dette di ogni, e se ne diranno. Ritrarsi dalla scena politica dove si prendono queste decisioni è un errore suicida. Dichiarare che il patriarcato è morto e le donne sono libere e felici, sarebbe come se la classe operaia dichiarasse che, poiché ha preso coscienza di se stessa, il capitalismo è finito e il lavoratore è libero della sua sorte.

Quel che impressiona nel fallimento del referendum è che nessuno ne avesse previsto l’ampiezza. Neppure coloro - la Cdl e la chiesa - che per disinnescarlo hanno consigliato il disimpegno dal voto piuttosto che l’impegno di un No. Quanto alla sinistra, si era mossa tardi e fiaccamente, prima nascondendosi dietro a quella libertà di coscienza che scopre solo quando potrebbe infastidire il Vaticano, che ha accolto con giubilo la decisione della Corte costituzionale di rendere complicato un quesito che poteva non esserlo, e infine s’è guardata dal protestare contro l’intervento della chiesa perché ha ormai perduto la tradizione di laicità della repubblica, di razionalità nell’ordinamento delle cose umane, di cura per la ricerca. Esse impongono un’etica della responsabilità che la sinistra ha cessato di fare sua. E’ segno che in Italia l’astensionismo trionfa? Non credo. Due mesi fa la partecipazione alle elezioni regionali è stata molto vasta. E’ che gli italiani sono diventati indifferenti a quel che non li tocca direttamente: la legge 40 mette in difficoltà le ottantamila persone che cercano di avere un figlio - se la cavino. C’è solo una frazione di punto di differenza fra gli astenuti di domenica scorsa e quelli che hanno disertato il referendum per la stabilità del posto di lavoro che riguardava «soltanto» alcuni milioni di lavoratori dipendenti. La Puglia, che ha quasi plebiscitato Nichi Vendola perché era il solo candidato che era andato ad ascoltarla nella vita grama dei borghi, non ha votato per le sue idee: è una delle regioni che si sono astenute di più.

Possibile che di questa spoliticizzazione sulla quale ha scritto benissimo Ida Dominijanni, i giornali non sapessero niente? Che si sia parlato di uno scontro al calor bianco che divideva il paese mentre si è trattato soltanto di qualche violenta schermaglia tra personaggi pubblici, nell’assoluta indifferenza di una società che non ne parlava affatto, né in treno, né in tram, né nei mercati, né nei caffè, insomma dove di solito si scambiano due idee? Possibile che si consideri una vittoria della chiesa, in un paese dove neanche il 20 per cento dei cattolici va a messa - ha ragione Gentiloni - e dove poco hanno a che vedere con la fede le schiere che si assiepano per vedere un papa o la sua salma? L’abile Ruini è riuscito dove non era riuscito Pannella quando tentava di mettere in piedi il partito dell’astensione: il gesto di Pannella puntava a denunciare l’establishment, mentre quello di Ruini lo appoggiava. Il primo prendeva una posizione difficile, il secondo la più facile, anzi dava una vernice di moralità allo starsene a casa. Non a caso la decisione di Ruini non è stata discussa nella Cei, le è stata comunicata e basta. E’ fin noioso ormai parlare dell’areattività delle sinistre storiche. Se si sono battute energicamente alle Camere, cosa forse vera, si sono ben guardate dal trasmettere un avviso di pericolo alle masse. Forse dubitano di averne più, certo temono che «la piazza» si faccia sentire mentre la legge è nel suo farsi, cioè quando può contare qualcosa; hanno introiettato la democrazia come procedura e null’altro.

E hanno ripetuto lo stesso errore mentre passava la vergognosa riforma della Costituzione, auspicando che sarà il referendum a farla cadere - ma se il paese ne è poco e tendenziosamente informato (è più complicato della legge 40), se un cardinale amico di Berlusconi, la Casa della libertà e qualche Rutelli invitano invece a votarla, come andrà a finire? Cadrà, non cadrà? Nelle sinistre c’è solo sciatteria o anche calcolo per le elezioni del 2006? Per le quali i giochi sono già in pieno svolgimento. Quelli delle persone, per vedersi confermato o promesso un posto alle Camere, lotta asperrima che impegna molti cultori della società civile. Quelli dei partiti, nella Cdl per la successione di Berlusconi, nel centrosinistra per far fuori Prodi in favore di Rutelli, nella sinistra radicale per l’egemonia di Rifondazione sul famoso 13 per cento. Benché tutti invochino il programma, nessuno ne presenta uno - tanto lo stretto politicismo impone le sue priorità. Che a questo dimenarsi del ceto politico corrisponda una delusione della società è comprensibile e non è detto dove porti. Dopo questo referendum, l’esito del 2006 resta più aperto di prima.

Le donne non hanno amici. Possono essere appassionatamente amate, inseguite, sposate ma il loro potere sulla riproduzione è invidiato, consciamente o inconsciamente che sia, dall’altro sesso. Di qui l’ossessione ad appropriarsene, ingabbiare il corpo che riproduce o normarlo severamente. Si può capire: l’uomo può spargere seme ma se una donna non ci mette del suo per nove mesi, non avrà un figlio. La donna può farsi fecondare anche transitoriamente e da chi vuole e fare un figlio, l’uomo senza una donna che gli sia stabilmente accanto non può generare. Il nostro corpo è per una ventina di anni potente e sfuggente. Anche da questa invidia derivano certi comportamenti maschili perversi.

La scena pubblica, in cui l’uomo domina, interviene perciò da sempre sul corpo femminile, obbligando, proibendo o limitando. La chiesa, modello di patriarcato, ha sempre agito in questa direzione. Lo ha fatto anche ora e lo farà - ha ragione di temerlo Stefania Prestigiacomo - sulla 194. Atei devoti l’hanno preceduta per una strada su cui grandi teologi esitavano: l’ovulo fecondato sarebbe già persona. Possibilità di venire alla luce per un insieme organico ancora incompleto e persona portatrice di diritti sarebbero lo stesso. Come l’uovo sarebbe la gallina. Quel che una donna fa da sempre, e la scienza da quattro secoli, è che fino alla ventisettesima settimana circa quel che porti in grembo non può vivere perché il suo sistema respiratorio si forma per ultimo, respira per lui la madre, è in senso pieno una parte del corpo materno. Se ne è messo fuori, non c’è tecnica che possa farne un vivente. Ma già, gli adoratori della vita se ne infischiano dei viventi: i già nati che muoiono per fame e le madri per parto non li hanno mai agitati - sono morti naturali, dunque piacevoli alla natura e a Dio.

E’ un errore che solo pochissime donne siano intervenute mentre il Parlamento interveniva su di esse. Peggio, una femminista doc come Anna Bravo, tramite un’istituzione doc come la Società delle storiche, ha definito violente e omicide, come tutto degli anni settanta, le donne che allora si sono battute per depenalizzare l’aborto, elucubrando sulla sofferenza del feto, che esse avrebbero ignorato, a prescindere se si possa parlare di sofferenza dove ancora manchi un sistema nervoso.

Insomma per mettere le mani sul nostro corpo se ne sono dette di ogni, e se ne diranno. Ritrarsi dalla scena politica dove si prendono queste decisioni è un errore suicida. Dichiarare che il patriarcato è morto e le donne sono libere e felici, sarebbe come se la classe operaia dichiarasse che, poiché ha preso coscienza di se stessa, il capitalismo è finito e il lavoratore è libero della sua sorte. Mettiamoci bene in testa che siamo in un conflitto antico e acuto, moltiplicato dalle possibilità, prima che dagli arbitri, della scienza. E che una libertà femminile è lontana dall’essere raggiunta. Anche in un paese così civilizzato - tanto che tre italiani su quattro hanno preferito disinteressarsene.

Rossana Rossanda
Roma, 16 giugno 2005
da "Il Manifesto"