Da Porto Alegre alla costruzione della sinistra di alternativa in Europa e in Italia, dalla riflessione
sul e nel movimento al ruolo di Rifondazione comunista.
Con Fausto Bertinotti affrontiamo i nodi politici e problematici che oggi ci stanno più a cuore. Ma
è intanto la cronaca politica più recente che richiama la nostra attenzione: il “patto” appena stipulato
a Roma tra Tony Blair e Silvio Berlusconi. Chiedo al segretario di Rifondazione comunista che cosa
ne pensa: «Il contenuto esplicito di questo patto è quello di un nuovo manifesto della borghesia europea
per il governo della globalizzazione incentrato su flessibilità e deregulation totali» dice Bertinotti.
«Non per caso, ogni distinzione tra destra e sinistra viene dichiarata superata: l'unico principio
sovraordinatore è il primato del Mercato, con la forza lavoro che non è neppure più una variabile
dipendente del profitto, ma una merce priva perfino di ogni elementare diritto di autodifesa ». Non
è incredibile un tale esito della Terza Via? «E' incredibile sì, sentire dichiarare, da “sinistra”,
che i temi del lavoro e dell'occupazione sono “neutri”: sono tanto poco neutri che questo patto è
venuta subito la benedizione della Fiat. Si discute tanto dell'identità della sinistra, o delle sinistre:
ecco, la condizione minima di rinascita di una sinistra che tale voglia essere è la critica radicale
di queste proposte. Che riducono la politica al puro ruolo di ancella del mercato». Da qui, il nostro
ragionamento ricomincia dalle giornate brasiliane.
Porto Alegre è il punto di partenza (e di arrivo) del nostro ragionamento. Mi pare che tutti coloro che vi hanno partecipato,hanno faticato, al ritorno, a contenere un entusiasmo non solo emotivo, ma tutto politico.
C'è stata, in effetti, una eccezionalità dell'evento che non è facile raccontare e spiegare a parole - spesso il linguaggio, anche il nostro, è consumato. Ma è stato davvero un incontro straordinario, al di là delle previsioni e delle aspettative. Proviamo a dirla così: se, cinque o sei anni fa, qualcuno avesse provato ad immaginare una assise mondiale come quella che si è svolta in Brasile, senza una grande centrale organizzativa alle spalle, senza grandi Partiti, Sindacati o Chiese, senza, ovviamente, grandi risorse, e avesse previsto una presenza così ricca, articolata e “plurale”, e tuttavia capace di convergere su una sorta di nuovo “senso comune critico” - ebbene, questo qualcuno sarebbe stato preso probabilmente per matto. Eppure, è proprio quello che è successo.
Qual è il rapporto che si è prodotto tra Porto Alegre “in carne ed ossa” e Porto Alegre come riferimento simbolico e politico generale?
Per alcuni giorni ha preso vita un grandioso laboratorio politico di massa: dentro il quale si sono
intrecciate manifestazioni e dibattiti, mobilitazione e ricerca, costruzione di piattaforme e dialettica
sociale e culturale.
Con una relazione molto forte - stringente - tra le delegazioni provenienti da tutto il mondo e le
realtà brasiliane organizzate. Anche questo non era scontato, e rende evidente il carattere, se così
possiamo dire, non superficiale dell'incontro. Tra i fattori che lo hanno reso possibile, c'è l'Università
Cattolica, dove si sono svolti centinaia di seminari e convegni, tutti con una straordinaria partecipazione
di massa.
E c'è un partito singolare come il Pt, forse la più grande forza politica dell'America latina: un
partito che si richiama, non certo casualmente, al lavoro ed è legato organicamente ad una grande
organizzazione sindacale come la Cut. Che aggrega sia il meglio delle esperienze marxiane sia la realtà
segnata dalla teologia della liberazione.
Che si è dato un regime interno largamente pluralistico (sette tendenze, ognuna delle quali esprime
un candidato alla presidenza del partito), dove è presente una minoranza di sinistra molto forte (per
impulso della quale sono state possibili pratiche quali il “bilancio partecipato”). Non dico, naturalmente,
che il Pt sia un modello: dico soltanto che ha concorso a rendere possibile un incontro caratterizzato
da comunicazione vera e “costruttiva” tra migliaia di persone, soggetti, soggettività.
Anche il primo incontro di Porto Alegre, un anno fa, ebbe successo e segnò una tappa rilevante nella crescita del movimento mondiale. Il salto di qualità di oggi, tuttavia, risulta evidente.Quali sono le ragioni che hanno determinato questa espansione dei “no global”?
Nell'anno che separa i due appuntamenti di Porto Alegre, è effettivamente rintracciabile tutto il
percorso di crescita del movimento. Una crisi almeno triplice ha investito tutto il processo di globalizzazione:
di natura politica, economica, ideologica.
Mentre avanzava la recessione a livello mondiale (e l'Argentina diventava un caso emblematico della
perversità delle ricette neoliberiste), si incrinavano fortemente gli apparati di consenso, tanto
da rendere non più adeguata, oggi, la dizione di “pensiero unico”. Con la guerra “permanente” e la
costituzione di nuovi assetti oligarchici del mondo, irrompeva la seconda globalizzazione: priva di
promesse e di illusioni per una massa crescente di persone e di soggetti.
Qui, il movimento ha espresso una parte significativa delle proprie potenzialità interne, dimostrando
il suo carattere non effimero. Con le giornate di Genova ha operato uno scatto importante, ed è riuscito
sia a sottrarsi al rischio di essere schiantato dalla repressione sia, poi, a non cadere vittima della
tenaglia guerra\ terrorismo. Genova ripropone, in qualche modo, il “caso italiano”: da noi i no global
sono stati l'ossatura della mobilitazione contro la guerra, e hanno saputo congiungersi alla intensa
ripresa della conflittualità sociale (venerdì ne abbiamo visto a Roma il segnale massiccio, in una
grande manifestazione). E non è certo un caso che a Porto Alegre la presenza italiana sia stata grande,
qualificata e politicamente rilevante.
Tutto questo processo configura una crescita anche politica del movimento, una sua nuova capacità di elaborazione? Oppure hanno un fondamento le obiezioni di chi ritiene il movimento dominato, in sostanza,da una vocazione “riformistica” e “a-classista”?
Io sono persuaso che, dentro l'idea di “un altro mondo possibile”, la capacità di proposta politica
vada crescendo. Non è vero che questo movimento abbia vocazioni prevalentemente etiche o redistributive.
Certo, non ha risolto la questione del soggetto e dei soggetti della trasformazione: ma essa è ormai
stata posta, è a tema. Allo stesso modo, matura un livello di criticità più ormai anticapitalistico
che antiliberista: ciò non significa - lo voglio dire con chiarezza - che sia stata compiutamente
elaborata un'ipotesi di superamento del sistema. Però, il processo che, dalla denuncia delle ingiustizie
sociali ed economiche, porta alla individuazione delle sue cause è in corso. Vuoi un esempio?
Quando si parla di diritto all'acqua come bisogno essenziale universale, come variabile indipendente,
si mette in moto un percorso rivendicativo di portata tanto locale che globale: che può innescare
istanze trasformative non solo sul rapporto umanità\ ambiente, ma sugli assetti politici, sui poteri,
sulla proprietà.
E tuttavia il movimento si articola anche a livello delle sue “rappresentanze” politiche.A Porto Alegre, come è noto, c'erano i riformisti, il Forum dei parlamentari, i rappresentanti dell'Internazionale socialista. Come si configura, a questo punto, la geografia politica del movimento?
Guarda, questa vicenda dell'ingresso dei riformisti sulla scena di Porto Alegre è terreno molto controverso,
che ha provocato tensioni e discussioni non di poco conto. Per un verso, significa che il movimento
si dimostra capace di attraversare territori che, finora, gli erano preclusi: insomma, guadagna consensi
in ambiti non affini, registra, per usare una terminologia classica, un'egemonia.
Per l'altro verso, vuol dire che una parte dei “riformisti”, di fronte alla crisi irreversibile del
“riformismo reale” - di fronte alla débacle mondiale del centrosinistra - intuisce la necessità di
aprire, in qualche modo, una nuova stagione. Penso a Soares, per esempio. A tutti coloro che, pur
rimanendo all'interno di un'ottica “riformista”, avvertono il bisogno di una “rifondazione” diversa
dalla cinica supponenza dei “riformisti reali” ancora al potere (Blair, ma anche Schroeder). Un'operazione
quasi di strategia dell'attenzione, quasi una forma di neomoroteismo: ci ricordiamo come si collocò
Aldo Moro di fronte al '68-'69, e come ne trasse l'input per una nuova fase di rivoluzione passiva
e di proposta di equilibri più “avanzati”? Ecco, io credo che siamo a qualcosa di analogo - e, comunque,
a una presenza che sarà, anch'essa di lungo periodo. In questo senso, cominciano una nuova stagione
e una sfida.
I “riformisti”, dunque, spiazzati dalla crisi della globalizzazione. E quali altre grandi anime del movimento?
In relazione, e in reazione, prende corpo una tendenza che possiamo definire antipartitica: quella che tende a preservare il movimento da ogni contaminazione, appunto, con i riformisti, non per assenza di confronto o di conflitto, ma per una sorta di barriera separatista. Il movimento non può che fare il movimento, insomma - vedi le posizioni, per schematizzare, di Attac Francia. Una terza componente, nel frattempo, ha fatto la sua brava irruzione: quella che ripropone il socialismo come meta finale del “mondo possibile” da costruire. E' un'idea che non ripercorre le vie tradizionali della scienza della rivoluzione, ma si esprime soprattutto per via di esperienza sociale radicale: tra i metalmeccanici della Cut, in “Via Campesina”, nei Sem Terra Non è periferica, e non è neppure vissuta come “eredità” storica: si ripresenta quasi allo stato nascente, come soluzione “razionale” delle ingiustizie del mondo e come esito possibile del bisogno di libertà. Penso alle cose che dice, a questo proposito, Frei Betto. Questo, oltre a dimostrarci sul campo che il tema dello sviluppo del movimento non è solo un dover essere, rilancia con forza, in termini diversi dal passato anche recente, il rapporto tra i “new global” e i partiti anticapitalisti e comunisti.
Tra i quali, naturalmente, c'è Rifondazione comunista.Un partito che viene, alternativamente, criticato perché non fa abbastanza opposizione e “sospettato”di volersi sciogliere nel movimento. Sono fondati queste critiche e questi sospetti?
Direi, risolutamente, che il fondamento è zero, anzi vicino allo zero assoluto. Noi abbiamo puntato,
e continuiamo a puntare con forza, sulla continuità della nostra presenza nel movimento, da prima
di Genova a Genova, da Genova a Porto Alegre, da Porto Alegre alla costruzione della piattaforma di
opposizione politica e sociale, fino al radicamento nei Social Forum cittadini e territoriali.
Un lavoro politico, mi pare, che ha prodotto qualche risultato, fuori da pretese dottrinarie, o dal
paradigma dei “portatori di coscienza” esterna, dentro un impegno di crescita, sviluppo e qualificazione,
tanto del movimento quanto del partito.
Capisco le difficoltà, che insorgono sempre, quando ci si misura con la pratica di progetti alti,
ambiziosamente trasformativi, quando, insomma, si passa dall'enunciazione di un orizzonte alla prova
- così si diceva in altre epoche - del “lavoro di massa”. Non capisco, francamente, la paura dello
scioglimento: chi la paventa, o la agita, dice comunque una totale assurdità. Non siamo stati l'unica
forza politica che ha razionalmente “investito” sul movimento, quando erano ancora visibili solo segnali
di disgelo? Non abbiamo legato alla sua crescita l'assunzione di precise discriminanti politiche generali?
Ora, certo, dopo tutto ciò che è successo in questo anno, dopo Porto Alegre, è il tempo per un salto
ulteriore della nostra iniziativa….
Quale?
Io vedo due terreni. Primo, la costruzione di un Forum mondiale dei partiti che, appunto, guardano
al movimento e alle sue prospettive di sviluppo. Una proposta del Pt che mi pare ormai matura, oltre
che interessante.
Secondo: in Europa e in Italia, la costruzione della sinistra di alternativa.
Un'idea che incontra nuove sollecitazioni: è l'idea, prima di tutto, di dar vita a un soggetto politico
europeo, del quale siano protagoniste tutte le forze che si collocano a sinistra dell'Internazionale
socialista.
Non possiamo non soffermarci sul congresso di Rimini del più grande sindacato italiano.Tu hai detto che è cominciato male e finito un po'meglio.Lo sciopero generale non è sufficiente per definire un giudizio più nettamente positivo?
Se vogliamo schematizzare, possiamo dire che il congresso della Cgil è stato buono per la Cgil come soggetto politico, non è stato buono per la Cgil come soggetto sociale. Come sindacato.
Che sarebbe poi il suo mestiere principale...
Ma, appunto, il bilancio di questi dieci anni è disastroso: con la concertazione e la dismissione dalla sua funzione di autorità salariale, con la crescita della frammentazione del lavoro e della disaffezione di massa, il sindacato ha segato l'albero su cui sedeva Non era massimalistico, o ingenuo, voglio dire, chiedere a questo congresso una ricollocazione, un cambio di rotta. Del resto, la concertazione è morta, e il governo lancia al movimento sindacale una sfida totale: non è logico che il movimento sindacale risponda ridefinendo un programma, una piattaforma, una rappresentanza?
Invece?
Un mutamento c'è stato, certo, nel corso delle giornate congressuali.
Sulla guerra, è finalmente alle spalle la linea della “dolorosa necessità”.
Su una questione di grandissima portata - lo sciopero generale, oggetto da mesi di una battaglia che
visto in prima fila la Fiom - è stata guadagnata una posizione. Ma l'impianto rivendicativo e contrattuale
resta per intero quello della concertazione.
Che cosa ha detto il congresso sull'Europa? Sulle politiche salariali? Sull'orario di lavoro? Sul
mercato del lavoro? Nulla. La contraddizione è palese, poi, nella firma del contratto sul pubblico
impiego: dove non si è voluta la consultazione dei lavoratori, dove non si vuole aprire, con i Cobas,
nessuna vera interlocuzione.
Come può uscire il sindacato da questa contraddizione?
In realtà, essa è figlia di quella che abbiamo già detto: tra protagonismo politico e protagonismo sociale e sindacale, la Cgil sceglie il primo. Per uscirne in avanti, in realtà, il congresso dovrebbe ricominciare: da questo punto.
Torniamo al tema della sinistra alternativa: il dibattito ferve a tutto campo, specie, appunto, dopo il congresso Cgil, che ha mostrato un sindacato certo non appiattito su Fassino o sull'Ulivo. Circola a proposito l'idea di dar vita,per esempio, a un unico partito “non liberista”, capace di aggregare tutti coloro che, più o meno,non stanno con la maggioranza dell'Ulivo Un unico partito, in sostanza, da Cofferati a Bertinotti, a sinistra di D'Alema,a destra di Rifondazione.Che ne dici?
Dico che questa proposta, dietro l'apparente buonsenso, non solo non è accettabile, ma non è neppure
utile. Se la si praticasse, avrebbe un solo risultato certo: lo scioglimento del Prc, l'alienazione
di un patrimonio politico, organizzativo e di iniziativa che mi pare necessario, per la sorte della
sinistra italiana, non certo per banali ragioni di bottega o affezione alla propria impresa.
Ma dico di più: un'ipotesi come questa non servirebbe neppure allo scopo che si prefigge.
Perché?
Perché determinerebbe una ulteriore curvatura moderata sull'insieme della sinistra: brucerebbe spazi,
non li allargherebbe. E finirebbe col riprodurre, con qualche variazione, i problemi dai quali è stata
mossa.
Guarda la contraddizione: da un lato si esprime un giudizio di crisi “definitiva” del centrosinistra,
l'impossibilità di uscirne con un semplice re-styling: giudizio assolutamente condivisibile.
Dall'altro lato, però, si individuano due discriminanti della nuova aggregazione - il no alla guerra
e al liberismo - per riproporre subito dopo, anzi contestualmente, l'alleanza con i centristi, cioè
precisamente con i sostenitori della scelta di guerra e delle ricette liberiste. Il risultato finale
non è altro che la rinascita di quel centrosinistra dato per defunto.
Mi pare chiara la "pars destruens."
Ma dove può positivamente precipitare, allora, la nostra ipotesi di una sinistra di alternativa più
larga dei nostri confini attuali?
E' essenziale - come dicevamo - la rottura della gabbia del centrosinistra.
E' essenziale, in questo senso, che le forze critiche si pongano fuori dal quadro attuale e vadano
alla determinazione di una nuova soggettività politica: il rapporto con il movimento, lo ribadisco,
è la discriminante politica, nel senso che definisce la critica dell'opzione riformista e individua
come propria precipua finalità la costruzione di una piattaforma generale di alternativa.
Siamo ben persuasi, non lo diciamo da oggi, che Rifondazione - un solo partito comunista e anticapitalista
- non può racchiudere in sé tutte le potenzialità che potrebbero utilmente essere aggregate per questo
obiettivo. Ma se nascessero altri soggetti di sinistra - o forze ispirate da un'ottica radical-democratica
-, entrambi esterne al centrosinistra, il progetto non potrebbe che guadagnarne: anche al fine di
attrarre nella sinistra alternativa organizzazioni non partitiche, sindacali, associative, e così
via. E' del tutto evidente che partire da due, o tre, soggetti autonomi, è meglio che non partire
da uno solo: come minimo, dovrebbero attenuarsi tutti i problemi e i sospetti di “collateralismo”.
In conclusione?
In conclusione, davanti a noi ci sono sfide grandi, difficili e, in qualche modo ineludibili. Ciascuno
di noi è tenuto a rispondere, al massimo delle sue capacità e risorse.
Rifondazione lavorerà nella direzione che abbiamo delineato, col massimo dell'apertura e della disponibilità
al confronto, al lavoro comune, all'iniziativa condivisa.
Ma la nostra voglia di confronto, la nostra disponibilità, la nostra apertura, hanno un presupposto
ontologicamente ineludibile: la nostra esistenza.