Provare e riprovare.
La rottura necessaria dei comunisti.
Il cardine dell'antifascismo.
Una storia grandiosa e tragica.
Comunismo e libertà.
La tragedia dello stalinismo.
Uscire da sinistra dallo scacco del '900.
Rompere con la nostra cultura odierna.
Il capitalismo del dominio senza egemonia.
Riaprire il conflitto di classe, fare società.
Un nuovo progetto di rivoluzione.
Care compagne e cari compagni,
sarebbe facile in una giornata come questa elevare un monumento alla memoria
in ricordo di tante compagne e tanti compagni che hanno voluto cambiare il
mondo.
Sarebbe persino un atto dovuto. Ma non vogliamo limitarci a questo.
Noi siamo comunisti, nutriamo grandi ambizioni, anche se per limiti di
intelligenza, di conoscenza e di capacità sentiamo noi stessi impari a
raccogliere e risolvere le domande che le terribili contraddizioni oggi
presenti nel mondo ci pongono.
Eppure dobbiamo fare ogni sforzo per porci all'altezza di quella sfida.
Per queste ragioni oggi vogliamo compiere un'operazione davvero ambiziosa,
cioè non solo quella di compiere un tributo necessario a ottanta anni di
storia, ma di compiere un ulteriore e coraggioso passo in avanti nel processo
della rifondazione di un moderno partito comunista di massa.
So bene che questo costerà ad ognuno di noi un autentico sforzo, perché
comporta anche il fatto di doversi staccare dalla propria storia individuale e
di mettere in discussione le proprie convinzioni.
Ma è uno sforzo che dobbiamo assolutamente fare: lo dobbiamo a chi vive oggi
nelle condizioni del peggiore sfruttamento nella società capitalistica.
Per questo non compiamo una celebrazione, ma un atto politico affinché gli
ideali del comunismo tornino a parlare a milioni di persone, per ritrovare le
ragioni della politica non nelle miserie dei contrasti quotidiani ma nell'impresa
di cambiare il mondo.
Ottanta anni fa a Livorno avveniva un fatto determinante per la storia nostra
e del nostro paese.
Non è stato solo opera di singoli, ma un avvenimento corale, di popolo.
Vorrei dire ai compagni più anziani di non avere timore nei confronti dell'anticomunismo
e del revisionismo storico, ma invece di continuare a provare orgoglio per
avere saputo costruire il meglio di questo paese.
Mi vengono in mente le parole di un grande filosofo di questo secolo: Walter
Benjamin.
Egli ci ha parlato di «un balzo di tigre nel passato», per significare la
necessità di tornare indietro nella storia per congiungersi con il presente,
per provocare nuove scintille.
Per comprendere la nostra storia basterebbe immaginare come sarebbe oggi l'Italia
se ci fosse ancora il Pci.
Non credete a quelli che dicono che la storia non si fa con i “se”, è
vero esattamente il contrario, altrimenti vorrebbe dire che è avvenuto
semplicemente quello che non poteva che avvenire, ovvero la storia sarebbe
solo quella delle classi dominanti.
La storia si deve fare con i “se”, proprio per potere correggere i propri
errori o per imparare da quelli commessi da chi ci ha preceduto.
Se ci fosse ancora il Pci, l'Italia sarebbe diversa dal punto di vista
culturale, politico e sociale.
Lo si può intravedere persino nella situazione attuale.
Malgrado le devastazioni operate nelle culture, possiamo riconoscere due
tendenze.
La prima è quella che sta in superficie e che domina nel mondo politico:
quella della corsa verso il centro, verso l'omologazione in cui sembra
sparire ogni diversità fra destra e sinistra, e della quale si è trovata
traccia anche nel messaggio di fine anno del presidente della Repubblica
Ciampi, quando ha affermato che è più quello che unisce di quello che
divide.
La seconda la riscontriamo invece nella realtà sociale e civile del nostro
paese.
Lo vediamo nel fatto che tanta gente rifiuta la destra, si rivolge a noi con
una domanda di cambiamento.
Sappiamo che vi è una corruzione della prima tendenza sulla seconda, e che
anche nel comune sentire popolare si affacciano argomenti come l'andamento
della borsa, o l'accettazione della guerra, fino ad atteggiamenti ostili all'immigrazione,
e tuttavia si continua ad avvertire un'opposizione e una resistenza allo
sfruttamento.
Anche questo ci indica come sarebbe stata diversa la storia del paese con la
presenza del Pci.
Vogliamo immaginare una storia diversa non per fare un'opera di
conservazione, ma per indirizzare la necessaria innovazione in senso opposto a
quello fin qui seguito cioè a quella della distruzione della tradizione
comunista.
Anche noi, come Enrico Berlinguer, pensiamo che non ci sia spazio per il
riformismo classico, ma che oggi bisogna essere insieme conservatori e
rivoluzionari, nel senso precisamente che bisogna conservare il meglio della
nostra storia per cambiare il mondo oggi.
Oggi è più difficile: il bilancio di questi ultimi dieci anni è aspro e
doloroso.
E' vero vi sono elementi di resistenza e anche di disgelo nei movimenti, ma
questo ancora non inverte la tendenza generale.
In questo periodo è avvenuta una vera e propria controrivoluzione, una
controriforma, nei quali sono prevalse le logiche dell'impresa e del mercato
che hanno schiacciato le istanze di cambiamento.
E' ricomparsa, in posizione addirittura dominante, la guerra, apertamente
contro il divieto costituzionale al suo ricorso.
Le culture delle classi dominanti sono penetrate negli stessi cambi della
sinistra.
Nelle classi popolari predomina uno stato di frantumazione e di confusione.
Questo esito investe in pieno la sinistra moderata, provocando effetti che
vanno molto oltre lo scioglimento del Pci.
La sinistra moderata e il centrosinistra si sono resi responsabili della
guerra, un esito fino a poco tempo fa del tutto improponibile per forze di
sinistra o semplicemente democratiche.
Dobbiamo interrogarci sulle cause che hanno portato allo scioglimento del Pci.
Si è trattato, infatti, di un atto assolutamente non inevitabile, ma neppure
del tutto improvviso.
Infatti già ai tempi dell'XI congresso del Pci, il tema della
trasformazione della società veniva derubricato in quello del miglioramento
di quella esistente.
Poi, saltando attraverso gli anni, arrivò a Praga, ove il tentativo di
cambiamento e di autoriforma veniva schiacciato dai carri armati sovietici.
Proprio in quegli anni nel mondo intero, da Berkeley fino a Oriente, nel nuovo
biennio rosso del '68-'69 gli operai di serie e gli studenti di massa
animavano uno straordinario movimento rivoluzionario a livello mondiale.
Il Pci non riuscì ad interpretare e dare corpo alla sfida radicale alla
società che quei movimenti proponevano, malgrado il tentativo generoso di
Luigi Longo di interloquire con essi.
Anzi, da un lato, il Pci pochi anni dopo compì il salto che lo portò al
governo di unità nazionale, e, dall'altro, quelle istanze radicali furono o
riassorbite nel sistema o si rifugiarono in esperienze e atti disperati.
La scelta di omologazione portò con sé due sconfitte emblematicamente
rappresentate, sul piano sociale, da quella dei 35 giorni alla Fiat e sul
piano politico dal craxismo che ruppe con le radici della sinistra proprio
attraverso l'attacco alla condizione dei lavoratori operata con il taglio e
la liquidazione della scala mobile.
In sostanza nel binomio radicalità-realismo che aveva caratterizzato tutta la
storia del Pci, prevalse il secondo e prese le forme del governo della
modernizzazione, e il cosiddetto “patto tra i produttori” significò ben
presto l'accettazione del punto di vista dell'impresa.
Sarebbe stato possibile scegliere altre strade e quindi fare andare le cose
diversamente? La mia risposta è sì. Negli anni sessanta e settanta, infatti,
si manifestò una crepa, una crisi nel potere dell'imperialismo
statunitense, dopo le esperienze neocoloniali.
Il processo di indipendenza nazionale avanzava impetuosamente e spesso
assumeva istanze socialiste.
Gli esempi di Cina e di Cuba ci parlavano della possibilità della rivoluzione
e di un continuo processo di trasformazione della società; la liberazione
dell'Algeria alludeva ad un processo di riscatto e di indipendenza di un
intero gigantesco continente: quello africano.
Quando il popolo vietnamita insorge un'intera generazione in tutto il mondo
alza la bandiera della libertà.
Lo sviluppo capitalistico aveva portato alla cosiddetta società dell'opulenza,
al culmine dell'evoluzione fordista-taylorista dell'organizzazione del
lavoro e della società.. In quel contesto la classe operaia poneva una
questione non solo di rivendicazioni redistributive, ma di potere, nella
fabbrica e nella società.
Questo fu il senso dell'esperienza dei consigli di fabbrica, malgrado che lo
sviluppo del capitalismo aveva fatto parlare più di uno dei un'integrazione
della classe operaia e di fine del conflitto di classe.
Furono smentiti allora, ma non per questo vi hanno rinunciato, e così una
nuova smentita arriva dal successo dello sciopero alla Fiat di questi giorni,
dove gli operai tornano ad essere protagonisti.
Insomma, in quegli anni le masse scoprirono la necessità e la possibilità di
partire da sé, per affermare i propri bisogni.
La sconfitta non era obbligata, eppure ci fu. A Ovest come ad Est quella
stagione venne chiusa. A Praga una burocrazia mostruosa soffocò il
socialismo. A Ovest le forze comuniste non seppero incontrare la volontà di
trasformazione. La stessa apertura di Luigi Longo ai movimenti non riuscì a
raccogliere la radicalità dell'esperienza consiliare e della contestazione.
Così è cresciuta una reazione, una controffensiva del capitale che ha fatto
breccia.
E siamo così giunti alla precipitazione della fine degli anni ottanta, al
crollo dei paesi dell'Est combinato con l'avanzata del processo di
globalizzazione capitalistica.
Ma quale è effettivamente la nuova scena che abbiamo di fronte? Gli
apologeti del sistema capitalistico hanno parlato di fine del lavoro, del
fatto che lo sviluppo del macchinismo e della tecnologia avrebbe eliminato il
lavoro umano.
La realtà è tutt'altra: nel mondo gli operai sono aumentati, lo
sfruttamento si è diffuso e incrementato, il capitalismo è forte perché
manipola la forza lavoro.
Il conflitto di classe è tutt'altro che finito.
Ce lo ricorda un economista americano John Foster affermando che «il
vantaggio competitivo degli Usa sta nell'efficacia della lotta di classe
(dominante) contro i lavoratori»..
La lotta di classe si riafferma, ma in modo rovesciato, fatta cioè dai
padroni. Abbiamo più capitalismo e meno stato, meno democrazia, meno
politica. Non c'è mai stato tanto capitalismo come ai giorni nostri.
Per questo dobbiamo e possiamo tornare a Marx che dice che la storia è sempre
stata «storia di lotte di classi» e che tale lotta può finire «con una
trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune
delle classi in lotta». Oggi noi siamo esattamente di fronte ad una crisi di
civiltà.
Molti domandano che cos'è il comunismo oggi.
Non siamo all'anno zero. Le condizioni dell'oggi esaltano le ragioni della
nascita e dello sviluppo del movimento operaio. Marx è stato il pensatore
della rivoluzione, e la rivoluzione è l'idea più alta della politica,
perché promuove il cambiamento del mondo. Gramsci diceva che bisogna provare
e riprovare.
Ecco, dunque perché siamo qui, a ottanta anni dalla nascita del Pci, per
riproporre la rinascita dell'attualità di un pensiero comunista rinnovato.
Ottanta anni fa, qui, a Livorno si teneva il congresso del Partito
socialista, dal 15 al 21 gennaio.
Qui si realizzò la rottura, secondo il principio dello “spirito di
scissione” teorizzato da Gramsci.
Al teatro San Marco venne fondato il Partito comunista d'Italia, sezione
della III Internazionale.
La data d'inizio di quello storico congresso non era casuale.
Il 15 gennaio rappresentava per il movimento operaio una scadenza
internazionale. Era il giorno dell'assassinio di Rosa Luxemburg e Karl
Liebknect, avvenuto esattamente due anni prima.
Quella data si ricorda ancora adesso, visto che oltre 100mila persone nella
Berlino del 2001 sono sfilate davanti alle loro tombe. La genesi della nascita
del partito comunista sta certamente negli avvenimenti del '17, nella
rivoluzione bolscevica (la “rivoluzione contro il Capitale”, come la
definì Gramsci) dovuta a quello straordinario atto di forza del proletariato
russo e al genio politico di Lenin e dei rivoluzionari che lo circondavano.
La nascita del Pci non fu indotta dall'esterno. Certamente essa si basò
sull'accettazione dei famosi 21 punti dell'Internazionale comunista, ma
anche su una solida radice nazionale, quella rappresentata dall'occupazione
delle fabbriche del settembre del 1920, un movimento critico nei confronti del
gruppo dirigente socialista e confederale, che si era mostrato incapace di
interpretare quello storico biennio rosso del '19-'20.
Insomma le due gambe su cui nasceva il partito comunista erano rappresentate
dal nuovo contesto mondiale, caratterizzato dalla rivoluzione bolscevica, e
dalla dinamica del conflitto di classe nel nostro paese.
Così nasce il Partito comunista d'Italia. Lo guida un rivoluzionario,
Amadeo Bordiga. Attorno a lui stanno quindici uomini, che noi vorremmo
salutare come protagonisti del popolo comunista. Si è molto discusso su quell'atto
di nascita. Non nego il suo carattere ancora oggi controverso.
Esso fu deciso, e così ancora oggi va giudicato, per il suo carattere
prevalente, che fu giusto, proprio perché serviva per il domani, per il
futuro.
Questo - sia detto per inciso - è un insegnamento che vale anche per l'oggi.
Ad esempio quando noi rompemmo con Prodi forse non tutte le ragioni stavano
dalla nostra parte, ma c'era un prevalente, era rappresentato dalla difesa
dell'autonomia di una nuova forza comunista nel nostro paese.
Allora Palmiro Togliatti scrisse sull'Ordine Nuovo, a proposito della
fondazione del Pcd'I, che «oggi è un giorno di volontà, di propositi e di
azione», anche se il futuro non era del tutto chiaro, né avrebbe potuto
esserlo.
In quell'atto costitutivo si fondevano diversi elementi. Vi erano anche
elementi angusti. Questi compaiono sempre nelle imprese umane. Lo dico anche a
chi oggi è attratto dalla nostra proposta, ma fugge di fronte al modo
concreto con cui è organizzata la vita dei nostri circoli.
Grandezza, nobiltà d'animo, e miseria sono sempre unite nelle vicende
umane. Anche qui bisogna sapere distinguere ciò che è prevalente.
Come immaginate l'atto costitutivo della fondazione del partito comunista di
ottanta anni fa? Ecco come la descrive Umberto Terracini:
«I delegati, che rapidamente avevano occupato la platea del San Marco, non vi
trovarono sedie o panche sulle quali assidersi e dovettero restare per ore e
ore ritti in piedi. Sul loro capo, dagli ampi squarci del tetto infracidito,
venivano giù scrosci di pioggia a riparo dei quali si aprivano gli ombrelli,
con uno strano vedere nel luogo e nell'occasione. Né l'impiantito era in
migliori condizioni, tutto avvallamenti e buche nelle quali si raccoglieva l'acqua,
riempiendo l'aria di gelida umidità.
L'intero teatro, dalle finestre prive di vetri ai palchi senza parapetti,
fino ai sudici tendaggi sbrindellati che pendevano attorno al boccascena,
denunciava l'uso al quale esso era stato destinato durante la guerra, di
deposito dei materiali dell'esercito».
Persino la presenza di Antonio Gramsci venne contestata.
Ci pensino le nostre compagne e i nostri compagni, mi si permetta una battuta,
che magari non riescono ad entrare in un nostro gruppo dirigente! La scelta di
dare vita al nuovo partito comunista fu controversa anche dal punto di vista
politico.
Ci si domandava se in questo modo il movimento operaio sarebbe risultato più
forte o più debole.
Anche lì bisognò decidere in base ad un “prevalente”. Non era vero che l'unità
ad ogni costo fosse il bene migliore.
Antonio Gramsci, riflettendo anche autocriticamente nel '24 su quegli
avvenimenti, ebbe a dire che i comunisti avevano fatto quello che dovevano
fare, che avevano costruito un baluardo.
Questo giudizio venne ampiamente confermato dalla storia dell'antifascismo,
con le sofferenze del carcere, dell'esilio, del confino.
Anche la scelta del rientro in Italia, così discutibile per quanto riguarda l'interpretazione
della situazione italiana - argomento che è diventata trama di un film
bellissimo, “Il sospetto”, di Francesco Maselli, che è oggi, come sempre,
tra noi - testimoniava di una volontà di radicamento nella situazione di
allora del nostro paese.
Quella storia ha lasciato amplissime tracce nei resoconti dei tribunali
speciali, nella straordinaria guerra di popolo della Resistenza, della quale
abbiamo qui oggi un rappresentante tra i più generosi, come Giovanni Pesce,
medaglia d'oro.
Quella storia ci viene continuamente rammentata in modo triste e insieme denso
di orgoglio civile nelle lettere dei condannati a morte della Resistenza,
pubblicata da Einaudi tanti, troppi, anni orsono.
Quelle storie hanno costruito veri e propri monumenti dello spirito nazionale,
come quello che si respira visitando a Campegine la casa Cervi. Quella storia
non si esaurisce con quella pur gloriosa della Resistenza, continua nel
dopoguerra.
Ha scritto Paolo Spriano che il Pci ha rappresentato la più alta università
del paese.
E' vero. Un altro grande intellettuale, che con i termini di un tempo
sarebbe stato definito un compagno di strada, Pier Paolo Pasolini definì il
Pci «un paese nel paese», per quella sua capacità di costruire nella
società delle “casematte” liberate dalla dominanza delle logiche del
capitalismo.
Il revisionismo storico vuole colpire questa storia, vuole cancellare l'antifascismo
come religione civile.
A questo serve la “rivalutazione dei ragazzi di Salò”, con cui
volutamente e colpevolmente si confonde la “pietas” verso gli sconfitti,
con l'annullamento della differenza tra chi stava nel giusto e chi no, tra
chi ha contribuito a costruire la Repubblica democratica e chi la voleva
negare.
A questo serve la negazione del ruolo che ebbero la battaglia di Stalingrado e
tutta l'eroica resistenza europea nella sconfitta del nazifascismo.
In questo modo si vuole svilire il ruolo del Pci nella storia del nostro
paese. Di più ancora: cancellare addirittura il caso italiano, quello che
vide una crescita della democrazia di massa, seppure contrastata in ogni modo
dalle forze del capitale.
Si vuole cancellare il ruolo e il protagonismo delle classi subalterne, e
questo viene fatto con l'obiettivo che gli sfruttati continuino ad essere
tali.
Il novecento, il secolo di Auschwitz, ma soprattutto, quello dell'irruzione
delle masse nella storia.
Per la prima volta nella storia dell'umanità le classi subalterne non
tentano solo una rivolta, una ribellione, ma esercitano un'egemonia, creano
una nuova cultura.
Quando Berlusconi si lamenta che a cominciare dagli anni cinquanta, poi nei
sessanta e fino a tutti i settanta, la sinistra e i comunisti sono stati
egemoni sul piano culturale, non dobbiamo rispondere sulla difensiva.
Al contrario dobbiamo dire che così è stato, pur tra grandissime difficoltà
e pochezza di mezzi, perché essi rappresentano un movimento di avanzata delle
classi subalterne. Detto questo noi dobbiamo fare i conti fino in fondo con la
storia del movimento operaio nel novecento.
Dobbiamo fare i conti con gli errori, le tragedie e gli orrori di questa
storia.
Come ho detto altre volte, citando un religioso, noi siamo «nani sulle spalle
dei giganti», ma questo non ci esime dal fare i conti con i nostri giganti.
Non abbiamo nulla di cui vergognarci. Il mondo si divise in blocchi
contrapposti.
L'esistenza del campo socialista era una cosa reale, oltreché molto
sentita. La battaglia di Stalingrado rappresentò un elemento mitico, perciò
reale, e nel nome di Stalin molti partigiani nel nostro paese raggiunsero le
montagne per combattere la loro battaglia contro il nazifascismo.
Quella scelta di campo non l'hanno fatta solo i comunisti, ma anche molti
socialisti, democratici, cattolici. Voglio ricordarne uno fra tutti: Rodolfo
Morandi, il quale fu un critico fiero dello stalinismo, ma dopo la scissione
fatta dai socialdemocratici di Palazzo Barberini scelse di militare con
decisione in quello che allora si chiamava il campo socialista.
Ma i comunisti non si manifestarono solo per una scelta di campo, ma per una
concreta costruzione di una comunità. Cioè per una contemporanea costruzione
di avanguardia e di popolo. Voglio ricordare un solo episodio.
E' quello dell'operaio specializzato Pautasso che venne licenziato dalla
Fiat, solo perché era comunista e iscritto alla Fiom, e per lo stesso motivo
gli venne impedito di trovare altro lavoro stabile.
Pautasso dopo una giornata occasionale di lavoro in un circo, tornò a casa e
si suicidò.
Lo so, erano tempi di ferro e di fuoco, appunto quelli in cui nel dopoguerra
una generazione di comunisti si è formata, nella quale la scelta di campo
internazionale rappresentava un'armatura per la scelta di classe.
In quegli anni tanta gente esce dalla povertà e dalla miseria. Le lotte
operaie di quegli anni non incontrano altri se non i comunisti, i socialisti,
certo cattolicesimo democratico. Proprio per questo ho definito indicibile l'affermazione,
fatta da Veltroni nel congresso dei Ds, che comunismo, democrazia e libertà
siano incompatibili.
Se si scorrono i nomi e le facce delle compagne e dei compagni che con il loro
sacrificio hanno contribuito alla costruzione della libertà e della
democrazia in questo paese, non è eccessiva la richiesta che chi ha fatto
questa affermazione se ne vergogni.
Naturalmente tutti possiamo sbagliare, ma se lo si riconosce sono doverose le
scuse.
Quella affermazione, non è solo indicibile storicamente, ma anche
culturalmente. Infatti Marx è il più grande pensatore della libertà. Egli
critica la concezione precedente della libertà.
Per Marx la libertà comincia dove comincia l'altro. Conseguentemente il
lavoro diventa un bisogno ricco, non un'orrenda necessità, ma una libera
manifestazione dell'attività umana.
E questo bisogno può essere esercitato solo all'interno di una libera
comunità.. Marx è dunque il più grande pensatore della libertà umana.
Questa considerazione non ci pacifica, ma ci pone invece un interrogativo
terribile.
Perché nel novecento le società postrivoluzionarie anziché produrre
libertà hanno prodotto oppressione? Per rispondere a questa domanda è
opportuno distinguere la storia del comunismo nel novecento in tre grandi
aspetti.
Quest'ultima è davvero conclusa.
Ma perché? L'esperienza dell'Unione sovietica fa parte della nostra
storia, non ce ne possiamo liberare. Ragioniamo sul cuore di questa
esperienza: lo stalinismo.
Non mi riferisco qui al culto della personalità, ma ad un intero sistema. Lo
faccio proprio perché le code di quel sistema vivono ancora dentro di noi e
impediscono la ricerca e l'attualizzazione di un'idea comunista. Si può
ragionare attorno al fatto se il comunismo fosse immaturo o se fosse caduto
per colpa di errori.
Ritengo che ci sia l'una e l'altra componente. Tuttavia voglio ricordare
le parole di un grande comunista.
Giuseppe di Vittorio, il quale di fronte alla sconfitta della Fiom alla Fiat,
disse che dobbiamo concentrare la nostra attenzione sull'analisi dei nostri
errori perché sul resto c'è poco da fare.
Bene, allora sradichiamo dal nostro interno ogni residuo di stalinismo.
Se c'è una cosa che mi ha sempre dato fastidio nel Pci è stata la pratica
della doppia verità, per cui un conto è quanto si diceva nei gruppi
dirigenti e altro era quello che si diceva alla base.
Le colpe infatti non ricadono solo sull'Urss. La scelta del socialismo in
un solo paese non ricade solo su Stalin.
Essa era anche la risultante della convinzione nel movimento comunista
internazionale che un'epoca si era chiusa e che quindi si dovesse pensare
alle vie nazionali al socialismo.
Allo stesso modo la concezione autoritaria non si è manifestata solo ad Est,
ma in tutto il movimento operaio, nel quale prevalse una concezione etica per
cui la risposta della fedeltà al partito prevaleva su qualunque altra.
Affinché sia chiaro che parlo di tragedie e non di semplici errori vorrei
citare passi che appartengono a uno storico rimasto comunista, come Roi
Medvedev, il quale afferma che: «nel 1936 gli arresti (in Unione sovietica)
colpirono principalmente ex aderenti alle opposizioni, in maggioranza gente
che ricopriva incarichi secondari nell'apparato del partito e dello stato;
ma poi l'ondata di arresti cominciò ad ampliarsi, coinvolgendo decine di
migliaia di persone che non avevano mai aderito ai gruppi di opposizione».
Dopo il 1956 si aprì una fase di riesame dei singoli casi: «entro la fine
dell'estate del 1956 vennero così liberati dai campi e dal confino alcune
milioni di persone» sottolineo il numero incredibile delle persone
interessate alla repressione.
Ma non tutti poterono tornare perché molti di loro vennero torturati e uccisi
e «giacevano in enormi fosse comuni con il nome segnato su una tavoletta di
legno legata alla caviglia».
Questa vicenda non può essere messa tra parentesi: parla di noi.
Come mai è successo? Ogni volta che la logica del potere prevale sulla
ricerca della trasformazione, si hanno risultati terribili.
Ogni volta che le istanze di liberazione del e dal lavoro hanno la peggio
vincono le logiche burocratiche e di oppressione.
Naturalmente dobbiamo sapere guardare a queste questioni con una profonda
consapevolezza, che tiene conto delle condizioni in cui gli uomini e le donne
di quel tempo si trovarono ad operare.
Proprio per questo torna ad esser prezioso l'esempio di Antonio Gramsci.
Egli stava nelle carceri del fascismo, era un uomo stimato anche se
controverso.
In carcere - e non importa qui approfondire se avesse o no ragione - maturò l'idea
che i suoi stessi compagni preferivano lasciarlo lì piuttosto che liberarlo.
Come mai Gramsci resta comunista? Lo fa perché egli pensa che al di là della
tragedia di una persona e di un intero periodo vale di più la ragione della
liberazione che è l'essenza del comunismo.
Noi oggi non vogliamo stabilire una nuova ortodossia, anzi dobbiamo
imparare da tutte le varie anima del movimento operaio.
Ma ci poniamo una domanda: come si esce dalla crisi del movimento comunista
del novecento? Propongo una scelta netta: si esce con una rinascita marxiana,
cioè tornando a Marx. Non voglio affatto mettere tra parentesi il novecento,
ma fare il famoso “balzo della tigre”, per mettere la liberazione del
lavoro salariato al centro del comunismo; per lavorare sulla contraddizione
tra il carattere sociale della produzione e quello privato della accumulazione
capitalistica, al fine di superare l'organizzazione sociale del capitalismo.
In questo quadro libertà ed uguaglianza rappresentano il fondamento del nuovo
comunismo.
Come vedete non proponiamo, come invece qualcuno fa, l'idea di un comunismo
tranquillizzante, cioè di una prospettiva talmente lontana che intanto si
può fare nel suo nome qualunque altra cosa.
Così non si supera il problema, anzi l'ideologia diventa semplice difesa
dei propri privilegi.
C'è però bisogno di una rottura anche con la nostra cultura odierna: la
forza del comunismo sta nel carattere aperto della ricerca, anche quando
questa mette in luce i limiti dello stesso pensiero marxiano.
In particolare mi riferisco a due grandi problemi.
Il primo riguarda la cultura di genere, l'interpretazione del carattere
sessuato del mondo: su questo tema, che rappresenta un limite della teoria di
Marx, non ci siamo, cioè non abbiamo saputo operare un'apertura
sufficiente.
E' vero che non può esserci un vero femminismo senza il comunismo, ma è
anche e soprattutto vero che non è possibile il contrario. La seconda
questione riguarda i rapporti tra gli uomini e la natura. Questo fu un rovello
costante in Marx.
Successivamente, però, prevalse nel movimento operaio un'idea
produttivistica. Oggi quell'idea, con un paradosso solo apparente, viene
recuperata e praticata dall'avversario del marxismo.
Il capitalismo propone esattamente una irresponsabile dilatazione dell'idea
di produzione. Le vicende solo apparentemente diverse dell'uranio impoverito
e della mucca pazza dimostrano che le classi dirigenti non sanno cosa fanno e
dove vanno. Il capitalismo ha rotto l'argine tra l'utilizzo della materia
inerte e quello della materia viva: ormai si vuole appropriare del principio
stesso della vita.
Ecco perché queste due questioni devono entrare in un processo di riflessione
e di rifondazione dell'idea di comunismo come idea di superamento della
società capitalistica.
Ma cos'è questa ristrutturazione-rivoluzione capitalistica? La
analizzeremo meglio nelle prossime occasioni, come la conferenza operaia di
Treviso, ma ora va sottolineato molto sinteticamente che essa produce dei
cambiamenti profondi, ma è tutt'altro che invincibile.
Anzi essa porta con sé elementi di crisi già evidente. Essa non è in grado
di produrre un'egemonia, né un modello consolidato, può vincere solo
perché non è matura una alternativa. Il capitalismo produce disagio,
incertezza, perdita di senso.
Il fondamentalismo del mercato produce nuovi fondamentalismi, come quello
religioso, ed al contrasto tra questi possono nascere motivi che scatenano la
guerra.
Il capitalismo globalizzato provoca enormi fenomeni migratori che non hanno
paragoni nel passato.
Come pensano di governarli? Con l'ordine e la repressione? E' una
prospettiva destinata al fallimento.
In sostanza il capitalismo vince, ma non convince.
Il capitalismo usa la guerra come costituente di un nuovo ordine imperiale.
Quella guerra è decisa dalla Nato.
I governi sono così dimezzati nella loro sovranità, e ancora più lo sono
sul terreno dell'economia.
Qui i dati forniti dalla stessa Onu dimostrano un aumento delle diversità tra
paesi ricchi e paesi poveri, tra persone ricche ed enormi popolazioni povere
davvero enorme.
Basti pensare che tre persone detengono ricchezze pari al reddito di 600
milioni di persone che vivono nei paesi più poveri. In Italia siamo di fronte
ad un arretramento delle condizioni dei lavoratori.
Dobbiamo essere grati all'inserto economico del “Corriere della Sera”,
ed è un'altra situazione paradossale, se possiamo apprendere che l'Italia
“non è più fondata sul lavoro ma sui patrimoni”.
E che i salari costituiscono la minoranza dei redditi nazionali, mentre in
questi ultimi anni abbiamo assistito ad un trionfo del profitto e della
rendita.
In sostanza, cioè, si è realizzata una grande vittoria di classe contro il
lavoro, che ha chiuso il “caso italiano”.
Qui sta il successo delle destre, purtroppo. E' insopportabile assistere
nel dibattito attuale alle disquisizioni sulle tattiche elettorali: se
Berlusconi vincerà è perché ha vinto il profitto, perché le forze di
destra hanno saputo fondere il neoliberismo con un populismo eversivo.
Il centrosinistra ha sostanzialmente assecondato queste politiche, e qui sta
la ragione della sua perdita di consenso. Dobbiamo riaprire il conflitto di
classe e farvi partecipare i nuovi soggetti: il popolo di Seattle, i giovani,
le donne.
E' questo l'unico modo per contrastare le destre che hanno praticato la
linea dell'integrazione e della disintegrazione delle classi subalterne
provocando una disertificazione nel paese. Però non abbiamo una situazione ad
un unica dimensione.
Dobbiamo saper vedere i nuovi fili d'erba che crescono, cioè i nuovi
fermenti nei movimenti popolari.
Ci sono parole maledette, come svolta o strappo, maledette per l'uso che fin
qui se ne è fatto. Dobbiamo avere il coraggio di riappropriarci di quelle
parole, cambiandone il senso.
Dobbiamo cioè produrre uno strappo fecondo esattamente opposto a quello che
la sinistra liberale produsse nei confronti della tradizione comunista, per
proporci un'uscita da sinistra dalla storia del Pci.
Dobbiamo rompere l'alternativa perdente tra l'accettazione della
modernizzazione capitalistica e la tentazione della conservazione del passato.
Ho già detto che il nocciolo più positivo della storia del Pci risiede nel
nesso tra radicalità e realismo.
Quando si è eclissata la prima è venuta meno la costruzione di un'altra
Italia.
Non si torna in dietro da dove siamo venuti, ma la ricostruzione di un binomio
tra radicalità e realismo ci consente di andare lontano, di dimostrare che l'ipotesi
di trasformazione della società è reale, di costruire una comunità scelta
all'altezza di questo compito.
Dobbiamo fare nostra la lezione del Pci: sapere cioè costruire una società,
un'altra società, attraverso esperienze politiche e culturali.
Vorrei proiettare una mappa delle città degli anni sessanta: scrivere gli
indirizzi dei partiti, dei sindacati, delle case della cultura; poi ricordare
le feste dell'Unità; e ancora le manifestazioni culturali artistiche; e
infine le case editrici.
Questo sistema, questo insieme di istituzioni culturali, politiche, di
aggregazione sociale, ha reso grande il Pci.
Oggi questa ricostruzione richiede un rapporto tra la condizione locale e
il mondo.
Le relazioni internazionali non sono diplomazia, ma la dimensione del nuovo
agire politico.
L'esperienza di Seattle ci dice più di tante altre cose.
Qui in Europa è possibile costruire una cerniera tra il proletariato del Nord
del mondo e quello del terzo mondo.
In Europa avvengono processi immigratori, avviene anche una perdita di senso e
una desolazione delle periferie, ma è possibile operare una resistenza di
civiltà.
Dobbiamo perciò riproporre la critica al capitalismo, una capacità di
relazione con i movimenti e lavorare per la loro politicizzazione.
Insomma vogliamo costruire un nuovo progetto comunista. L'ho detto all'inizio:
l'operazione è ambiziosa.
La rivoluzione è un processo di lunga durata, ma essa richiede che ci sia una
relazione tra quello che facciamo oggi e l'obiettivo generale. Questa
ricerca ci riporta ai nostri grandi maestri.
Non è un caso che sulla tessera del nostro partito abbiamo riportato una
famosa frase tratta dall'“Ideologia tedesca” di Marx ed Engels: «il
comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un
ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il
movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti».
Questa è la nostra idea di comunismo, da qui ripartiamo. Perché questa “talpa”
torni a lavorare ci vuole anche il nostro concorso.
Per andare dove? Verso una società necessaria, che Marx così definiva come
quella in cui «il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il
primo bisogno della vita» e nella quale dunque «l'angusto orizzonte
giuridico borghese può essere superato e la società può scrivere sulle sue
bandiere: da ognuno secondo le sue capacità a ognuno secondo i suoi
bisogni». La consegna che ci viene dal novecento, da parte di quelle
meravigliose e meravigliosi donne e uomini che non ce l'hanno fatta, pur
avendo tentato l'assalto al cielo, rende grande la nostra impresa politica,
senza la quale l'umanità si troverebbe di fronte a un rischio di civiltà.
Vogliamo essere radicali e realisti, vogliamo l'impossibile perché pensiamo
che sia possibile la rivoluzione.
Per questo siamo vivi e continuiamo a batterci.