Discorso di Fausto Bertinotti
per l'80° anniversario della fondazione del Pci

"non una celebrazione, ma un atto politico affinché gli ideali del comunismo tornino a parlare a milioni di persone"

Livorno, 21 gennaio 2001

Provare e riprovare.
La rottura necessaria dei comunisti.
Il cardine dell'antifascismo.
Una storia grandiosa e tragica.
Comunismo e libertà.
La tragedia dello stalinismo.
Uscire da sinistra dallo scacco del '900.
Rompere con la nostra cultura odierna.
Il capitalismo del dominio senza egemonia.
Riaprire il conflitto di classe, fare società.
Un nuovo progetto di rivoluzione.

Care compagne e cari compagni,
sarebbe facile in una giornata come questa elevare un monumento alla memoria in ricordo di tante compagne e tanti compagni che hanno voluto cambiare il mondo.
Sarebbe persino un atto dovuto. Ma non vogliamo limitarci a questo.
Noi siamo comunisti, nutriamo grandi ambizioni, anche se per limiti di intelligenza, di conoscenza e di capacità sentiamo noi stessi impari a raccogliere e risolvere le domande che le terribili contraddizioni oggi presenti nel mondo ci pongono.
Eppure dobbiamo fare ogni sforzo per porci all'altezza di quella sfida.
Per queste ragioni oggi vogliamo compiere un'operazione davvero ambiziosa, cioè non solo quella di compiere un tributo necessario a ottanta anni di storia, ma di compiere un ulteriore e coraggioso passo in avanti nel processo della rifondazione di un moderno partito comunista di massa.
So bene che questo costerà ad ognuno di noi un autentico sforzo, perché comporta anche il fatto di doversi staccare dalla propria storia individuale e di mettere in discussione le proprie convinzioni.
Ma è uno sforzo che dobbiamo assolutamente fare: lo dobbiamo a chi vive oggi nelle condizioni del peggiore sfruttamento nella società capitalistica.
Per questo non compiamo una celebrazione, ma un atto politico affinché gli ideali del comunismo tornino a parlare a milioni di persone, per ritrovare le ragioni della politica non nelle miserie dei contrasti quotidiani ma nell'impresa di cambiare il mondo.
Ottanta anni fa a Livorno avveniva un fatto determinante per la storia nostra e del nostro paese.
Non è stato solo opera di singoli, ma un avvenimento corale, di popolo.
Vorrei dire ai compagni più anziani di non avere timore nei confronti dell'anticomunismo e del revisionismo storico, ma invece di continuare a provare orgoglio per avere saputo costruire il meglio di questo paese.
Mi vengono in mente le parole di un grande filosofo di questo secolo: Walter Benjamin.
Egli ci ha parlato di «un balzo di tigre nel passato», per significare la necessità di tornare indietro nella storia per congiungersi con il presente, per provocare nuove scintille.
Per comprendere la nostra storia basterebbe immaginare come sarebbe oggi l'Italia se ci fosse ancora il Pci.
Non credete a quelli che dicono che la storia non si fa con i “se”, è vero esattamente il contrario, altrimenti vorrebbe dire che è avvenuto semplicemente quello che non poteva che avvenire, ovvero la storia sarebbe solo quella delle classi dominanti.
La storia si deve fare con i “se”, proprio per potere correggere i propri errori o per imparare da quelli commessi da chi ci ha preceduto.
Se ci fosse ancora il Pci, l'Italia sarebbe diversa dal punto di vista culturale, politico e sociale.
Lo si può intravedere persino nella situazione attuale.
Malgrado le devastazioni operate nelle culture, possiamo riconoscere due tendenze.
La prima è quella che sta in superficie e che domina nel mondo politico: quella della corsa verso il centro, verso l'omologazione in cui sembra sparire ogni diversità fra destra e sinistra, e della quale si è trovata traccia anche nel messaggio di fine anno del presidente della Repubblica Ciampi, quando ha affermato che è più quello che unisce di quello che divide.
La seconda la riscontriamo invece nella realtà sociale e civile del nostro paese.
Lo vediamo nel fatto che tanta gente rifiuta la destra, si rivolge a noi con una domanda di cambiamento.
Sappiamo che vi è una corruzione della prima tendenza sulla seconda, e che anche nel comune sentire popolare si affacciano argomenti come l'andamento della borsa, o l'accettazione della guerra, fino ad atteggiamenti ostili all'immigrazione, e tuttavia si continua ad avvertire un'opposizione e una resistenza allo sfruttamento.
Anche questo ci indica come sarebbe stata diversa la storia del paese con la presenza del Pci.
Vogliamo immaginare una storia diversa non per fare un'opera di conservazione, ma per indirizzare la necessaria innovazione in senso opposto a quello fin qui seguito cioè a quella della distruzione della tradizione comunista.
Anche noi, come Enrico Berlinguer, pensiamo che non ci sia spazio per il riformismo classico, ma che oggi bisogna essere insieme conservatori e rivoluzionari, nel senso precisamente che bisogna conservare il meglio della nostra storia per cambiare il mondo oggi.
Oggi è più difficile: il bilancio di questi ultimi dieci anni è aspro e doloroso.
E' vero vi sono elementi di resistenza e anche di disgelo nei movimenti, ma questo ancora non inverte la tendenza generale.
In questo periodo è avvenuta una vera e propria controrivoluzione, una controriforma, nei quali sono prevalse le logiche dell'impresa e del mercato che hanno schiacciato le istanze di cambiamento.
E' ricomparsa, in posizione addirittura dominante, la guerra, apertamente contro il divieto costituzionale al suo ricorso.
Le culture delle classi dominanti sono penetrate negli stessi cambi della sinistra.
Nelle classi popolari predomina uno stato di frantumazione e di confusione. Questo esito investe in pieno la sinistra moderata, provocando effetti che vanno molto oltre lo scioglimento del Pci.
La sinistra moderata e il centrosinistra si sono resi responsabili della guerra, un esito fino a poco tempo fa del tutto improponibile per forze di sinistra o semplicemente democratiche.
Dobbiamo interrogarci sulle cause che hanno portato allo scioglimento del Pci.
Si è trattato, infatti, di un atto assolutamente non inevitabile, ma neppure del tutto improvviso.
Infatti già ai tempi dell'XI congresso del Pci, il tema della trasformazione della società veniva derubricato in quello del miglioramento di quella esistente.
Poi, saltando attraverso gli anni, arrivò a Praga, ove il tentativo di cambiamento e di autoriforma veniva schiacciato dai carri armati sovietici.
Proprio in quegli anni nel mondo intero, da Berkeley fino a Oriente, nel nuovo biennio rosso del '68-'69 gli operai di serie e gli studenti di massa animavano uno straordinario movimento rivoluzionario a livello mondiale.
Il Pci non riuscì ad interpretare e dare corpo alla sfida radicale alla società che quei movimenti proponevano, malgrado il tentativo generoso di Luigi Longo di interloquire con essi.
Anzi, da un lato, il Pci pochi anni dopo compì il salto che lo portò al governo di unità nazionale, e, dall'altro, quelle istanze radicali furono o riassorbite nel sistema o si rifugiarono in esperienze e atti disperati.
La scelta di omologazione portò con sé due sconfitte emblematicamente rappresentate, sul piano sociale, da quella dei 35 giorni alla Fiat e sul piano politico dal craxismo che ruppe con le radici della sinistra proprio attraverso l'attacco alla condizione dei lavoratori operata con il taglio e la liquidazione della scala mobile.
In sostanza nel binomio radicalità-realismo che aveva caratterizzato tutta la storia del Pci, prevalse il secondo e prese le forme del governo della modernizzazione, e il cosiddetto “patto tra i produttori” significò ben presto l'accettazione del punto di vista dell'impresa.
Sarebbe stato possibile scegliere altre strade e quindi fare andare le cose diversamente? La mia risposta è sì. Negli anni sessanta e settanta, infatti, si manifestò una crepa, una crisi nel potere dell'imperialismo statunitense, dopo le esperienze neocoloniali.
Il processo di indipendenza nazionale avanzava impetuosamente e spesso assumeva istanze socialiste.
Gli esempi di Cina e di Cuba ci parlavano della possibilità della rivoluzione e di un continuo processo di trasformazione della società; la liberazione dell'Algeria alludeva ad un processo di riscatto e di indipendenza di un intero gigantesco continente: quello africano.
Quando il popolo vietnamita insorge un'intera generazione in tutto il mondo alza la bandiera della libertà.
Lo sviluppo capitalistico aveva portato alla cosiddetta società dell'opulenza, al culmine dell'evoluzione fordista-taylorista dell'organizzazione del lavoro e della società.. In quel contesto la classe operaia poneva una questione non solo di rivendicazioni redistributive, ma di potere, nella fabbrica e nella società.
Questo fu il senso dell'esperienza dei consigli di fabbrica, malgrado che lo sviluppo del capitalismo aveva fatto parlare più di uno dei un'integrazione della classe operaia e di fine del conflitto di classe.
Furono smentiti allora, ma non per questo vi hanno rinunciato, e così una nuova smentita arriva dal successo dello sciopero alla Fiat di questi giorni, dove gli operai tornano ad essere protagonisti.
Insomma, in quegli anni le masse scoprirono la necessità e la possibilità di partire da sé, per affermare i propri bisogni.
La sconfitta non era obbligata, eppure ci fu. A Ovest come ad Est quella stagione venne chiusa. A Praga una burocrazia mostruosa soffocò il socialismo. A Ovest le forze comuniste non seppero incontrare la volontà di trasformazione. La stessa apertura di Luigi Longo ai movimenti non riuscì a raccogliere la radicalità dell'esperienza consiliare e della contestazione.
Così è cresciuta una reazione, una controffensiva del capitale che ha fatto breccia.
E siamo così giunti alla precipitazione della fine degli anni ottanta, al crollo dei paesi dell'Est combinato con l'avanzata del processo di globalizzazione capitalistica.

Provare e riprovare

Ma quale è effettivamente la nuova scena che abbiamo di fronte? Gli apologeti del sistema capitalistico hanno parlato di fine del lavoro, del fatto che lo sviluppo del macchinismo e della tecnologia avrebbe eliminato il lavoro umano.
La realtà è tutt'altra: nel mondo gli operai sono aumentati, lo sfruttamento si è diffuso e incrementato, il capitalismo è forte perché manipola la forza lavoro.
Il conflitto di classe è tutt'altro che finito.
Ce lo ricorda un economista americano John Foster affermando che «il vantaggio competitivo degli Usa sta nell'efficacia della lotta di classe (dominante) contro i lavoratori»..
La lotta di classe si riafferma, ma in modo rovesciato, fatta cioè dai padroni. Abbiamo più capitalismo e meno stato, meno democrazia, meno politica. Non c'è mai stato tanto capitalismo come ai giorni nostri.
Per questo dobbiamo e possiamo tornare a Marx che dice che la storia è sempre stata «storia di lotte di classi» e che tale lotta può finire «con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta». Oggi noi siamo esattamente di fronte ad una crisi di civiltà.
Molti domandano che cos'è il comunismo oggi.
Non siamo all'anno zero. Le condizioni dell'oggi esaltano le ragioni della nascita e dello sviluppo del movimento operaio. Marx è stato il pensatore della rivoluzione, e la rivoluzione è l'idea più alta della politica, perché promuove il cambiamento del mondo. Gramsci diceva che bisogna provare e riprovare.
Ecco, dunque perché siamo qui, a ottanta anni dalla nascita del Pci, per riproporre la rinascita dell'attualità di un pensiero comunista rinnovato.

La rottura necessaria dei comunisti

Ottanta anni fa, qui, a Livorno si teneva il congresso del Partito socialista, dal 15 al 21 gennaio.
Qui si realizzò la rottura, secondo il principio dello “spirito di scissione” teorizzato da Gramsci.
Al teatro San Marco venne fondato il Partito comunista d'Italia, sezione della III Internazionale.
La data d'inizio di quello storico congresso non era casuale.
Il 15 gennaio rappresentava per il movimento operaio una scadenza internazionale. Era il giorno dell'assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknect, avvenuto esattamente due anni prima.
Quella data si ricorda ancora adesso, visto che oltre 100mila persone nella Berlino del 2001 sono sfilate davanti alle loro tombe. La genesi della nascita del partito comunista sta certamente negli avvenimenti del '17, nella rivoluzione bolscevica (la “rivoluzione contro il Capitale”, come la definì Gramsci) dovuta a quello straordinario atto di forza del proletariato russo e al genio politico di Lenin e dei rivoluzionari che lo circondavano.
La nascita del Pci non fu indotta dall'esterno. Certamente essa si basò sull'accettazione dei famosi 21 punti dell'Internazionale comunista, ma anche su una solida radice nazionale, quella rappresentata dall'occupazione delle fabbriche del settembre del 1920, un movimento critico nei confronti del gruppo dirigente socialista e confederale, che si era mostrato incapace di interpretare quello storico biennio rosso del '19-'20.
Insomma le due gambe su cui nasceva il partito comunista erano rappresentate dal nuovo contesto mondiale, caratterizzato dalla rivoluzione bolscevica, e dalla dinamica del conflitto di classe nel nostro paese.
Così nasce il Partito comunista d'Italia. Lo guida un rivoluzionario, Amadeo Bordiga. Attorno a lui stanno quindici uomini, che noi vorremmo salutare come protagonisti del popolo comunista. Si è molto discusso su quell'atto di nascita. Non nego il suo carattere ancora oggi controverso.
Esso fu deciso, e così ancora oggi va giudicato, per il suo carattere prevalente, che fu giusto, proprio perché serviva per il domani, per il futuro.
Questo - sia detto per inciso - è un insegnamento che vale anche per l'oggi. Ad esempio quando noi rompemmo con Prodi forse non tutte le ragioni stavano dalla nostra parte, ma c'era un prevalente, era rappresentato dalla difesa dell'autonomia di una nuova forza comunista nel nostro paese.
Allora Palmiro Togliatti scrisse sull'Ordine Nuovo, a proposito della fondazione del Pcd'I, che «oggi è un giorno di volontà, di propositi e di azione», anche se il futuro non era del tutto chiaro, né avrebbe potuto esserlo.

Il cardine dell'antifascismo

In quell'atto costitutivo si fondevano diversi elementi. Vi erano anche elementi angusti. Questi compaiono sempre nelle imprese umane. Lo dico anche a chi oggi è attratto dalla nostra proposta, ma fugge di fronte al modo concreto con cui è organizzata la vita dei nostri circoli.
Grandezza, nobiltà d'animo, e miseria sono sempre unite nelle vicende umane. Anche qui bisogna sapere distinguere ciò che è prevalente.
Come immaginate l'atto costitutivo della fondazione del partito comunista di ottanta anni fa? Ecco come la descrive Umberto Terracini:
«I delegati, che rapidamente avevano occupato la platea del San Marco, non vi trovarono sedie o panche sulle quali assidersi e dovettero restare per ore e ore ritti in piedi. Sul loro capo, dagli ampi squarci del tetto infracidito, venivano giù scrosci di pioggia a riparo dei quali si aprivano gli ombrelli, con uno strano vedere nel luogo e nell'occasione. Né l'impiantito era in migliori condizioni, tutto avvallamenti e buche nelle quali si raccoglieva l'acqua, riempiendo l'aria di gelida umidità.
L'intero teatro, dalle finestre prive di vetri ai palchi senza parapetti, fino ai sudici tendaggi sbrindellati che pendevano attorno al boccascena, denunciava l'uso al quale esso era stato destinato durante la guerra, di deposito dei materiali dell'esercito».
Persino la presenza di Antonio Gramsci venne contestata.
Ci pensino le nostre compagne e i nostri compagni, mi si permetta una battuta, che magari non riescono ad entrare in un nostro gruppo dirigente! La scelta di dare vita al nuovo partito comunista fu controversa anche dal punto di vista politico.
Ci si domandava se in questo modo il movimento operaio sarebbe risultato più forte o più debole.
Anche lì bisognò decidere in base ad un “prevalente”. Non era vero che l'unità ad ogni costo fosse il bene migliore.
Antonio Gramsci, riflettendo anche autocriticamente nel '24 su quegli avvenimenti, ebbe a dire che i comunisti avevano fatto quello che dovevano fare, che avevano costruito un baluardo.
Questo giudizio venne ampiamente confermato dalla storia dell'antifascismo, con le sofferenze del carcere, dell'esilio, del confino.
Anche la scelta del rientro in Italia, così discutibile per quanto riguarda l'interpretazione della situazione italiana - argomento che è diventata trama di un film bellissimo, “Il sospetto”, di Francesco Maselli, che è oggi, come sempre, tra noi - testimoniava di una volontà di radicamento nella situazione di allora del nostro paese.
Quella storia ha lasciato amplissime tracce nei resoconti dei tribunali speciali, nella straordinaria guerra di popolo della Resistenza, della quale abbiamo qui oggi un rappresentante tra i più generosi, come Giovanni Pesce, medaglia d'oro.
Quella storia ci viene continuamente rammentata in modo triste e insieme denso di orgoglio civile nelle lettere dei condannati a morte della Resistenza, pubblicata da Einaudi tanti, troppi, anni orsono.
Quelle storie hanno costruito veri e propri monumenti dello spirito nazionale, come quello che si respira visitando a Campegine la casa Cervi. Quella storia non si esaurisce con quella pur gloriosa della Resistenza, continua nel dopoguerra.
Ha scritto Paolo Spriano che il Pci ha rappresentato la più alta università del paese.
E' vero. Un altro grande intellettuale, che con i termini di un tempo sarebbe stato definito un compagno di strada, Pier Paolo Pasolini definì il Pci «un paese nel paese», per quella sua capacità di costruire nella società delle “casematte” liberate dalla dominanza delle logiche del capitalismo.
Il revisionismo storico vuole colpire questa storia, vuole cancellare l'antifascismo come religione civile.
A questo serve la “rivalutazione dei ragazzi di Salò”, con cui volutamente e colpevolmente si confonde la “pietas” verso gli sconfitti, con l'annullamento della differenza tra chi stava nel giusto e chi no, tra chi ha contribuito a costruire la Repubblica democratica e chi la voleva negare.
A questo serve la negazione del ruolo che ebbero la battaglia di Stalingrado e tutta l'eroica resistenza europea nella sconfitta del nazifascismo.
In questo modo si vuole svilire il ruolo del Pci nella storia del nostro paese. Di più ancora: cancellare addirittura il caso italiano, quello che vide una crescita della democrazia di massa, seppure contrastata in ogni modo dalle forze del capitale.
Si vuole cancellare il ruolo e il protagonismo delle classi subalterne, e questo viene fatto con l'obiettivo che gli sfruttati continuino ad essere tali.

Una storia grandiosa e tragica

Il novecento, il secolo di Auschwitz, ma soprattutto, quello dell'irruzione delle masse nella storia.
Per la prima volta nella storia dell'umanità le classi subalterne non tentano solo una rivolta, una ribellione, ma esercitano un'egemonia, creano una nuova cultura.
Quando Berlusconi si lamenta che a cominciare dagli anni cinquanta, poi nei sessanta e fino a tutti i settanta, la sinistra e i comunisti sono stati egemoni sul piano culturale, non dobbiamo rispondere sulla difensiva.
Al contrario dobbiamo dire che così è stato, pur tra grandissime difficoltà e pochezza di mezzi, perché essi rappresentano un movimento di avanzata delle classi subalterne. Detto questo noi dobbiamo fare i conti fino in fondo con la storia del movimento operaio nel novecento.
Dobbiamo fare i conti con gli errori, le tragedie e gli orrori di questa storia.
Come ho detto altre volte, citando un religioso, noi siamo «nani sulle spalle dei giganti», ma questo non ci esime dal fare i conti con i nostri giganti. Non abbiamo nulla di cui vergognarci. Il mondo si divise in blocchi contrapposti.
L'esistenza del campo socialista era una cosa reale, oltreché molto sentita. La battaglia di Stalingrado rappresentò un elemento mitico, perciò reale, e nel nome di Stalin molti partigiani nel nostro paese raggiunsero le montagne per combattere la loro battaglia contro il nazifascismo.
Quella scelta di campo non l'hanno fatta solo i comunisti, ma anche molti socialisti, democratici, cattolici. Voglio ricordarne uno fra tutti: Rodolfo Morandi, il quale fu un critico fiero dello stalinismo, ma dopo la scissione fatta dai socialdemocratici di Palazzo Barberini scelse di militare con decisione in quello che allora si chiamava il campo socialista.
Ma i comunisti non si manifestarono solo per una scelta di campo, ma per una concreta costruzione di una comunità. Cioè per una contemporanea costruzione di avanguardia e di popolo. Voglio ricordare un solo episodio.
E' quello dell'operaio specializzato Pautasso che venne licenziato dalla Fiat, solo perché era comunista e iscritto alla Fiom, e per lo stesso motivo gli venne impedito di trovare altro lavoro stabile.
Pautasso dopo una giornata occasionale di lavoro in un circo, tornò a casa e si suicidò.
Lo so, erano tempi di ferro e di fuoco, appunto quelli in cui nel dopoguerra una generazione di comunisti si è formata, nella quale la scelta di campo internazionale rappresentava un'armatura per la scelta di classe.
In quegli anni tanta gente esce dalla povertà e dalla miseria. Le lotte operaie di quegli anni non incontrano altri se non i comunisti, i socialisti, certo cattolicesimo democratico. Proprio per questo ho definito indicibile l'affermazione, fatta da Veltroni nel congresso dei Ds, che comunismo, democrazia e libertà siano incompatibili.
Se si scorrono i nomi e le facce delle compagne e dei compagni che con il loro sacrificio hanno contribuito alla costruzione della libertà e della democrazia in questo paese, non è eccessiva la richiesta che chi ha fatto questa affermazione se ne vergogni.
Naturalmente tutti possiamo sbagliare, ma se lo si riconosce sono doverose le scuse.

Comunismo e libertà

Quella affermazione, non è solo indicibile storicamente, ma anche culturalmente. Infatti Marx è il più grande pensatore della libertà. Egli critica la concezione precedente della libertà.
Per Marx la libertà comincia dove comincia l'altro. Conseguentemente il lavoro diventa un bisogno ricco, non un'orrenda necessità, ma una libera manifestazione dell'attività umana.
E questo bisogno può essere esercitato solo all'interno di una libera comunità.. Marx è dunque il più grande pensatore della libertà umana. Questa considerazione non ci pacifica, ma ci pone invece un interrogativo terribile.
Perché nel novecento le società postrivoluzionarie anziché produrre libertà hanno prodotto oppressione? Per rispondere a questa domanda è opportuno distinguere la storia del comunismo nel novecento in tre grandi aspetti.

Quest'ultima è davvero conclusa.
Ma perché? L'esperienza dell'Unione sovietica fa parte della nostra storia, non ce ne possiamo liberare. Ragioniamo sul cuore di questa esperienza: lo stalinismo.
Non mi riferisco qui al culto della personalità, ma ad un intero sistema. Lo faccio proprio perché le code di quel sistema vivono ancora dentro di noi e impediscono la ricerca e l'attualizzazione di un'idea comunista. Si può ragionare attorno al fatto se il comunismo fosse immaturo o se fosse caduto per colpa di errori.
Ritengo che ci sia l'una e l'altra componente. Tuttavia voglio ricordare le parole di un grande comunista.
Giuseppe di Vittorio, il quale di fronte alla sconfitta della Fiom alla Fiat, disse che dobbiamo concentrare la nostra attenzione sull'analisi dei nostri errori perché sul resto c'è poco da fare.
Bene, allora sradichiamo dal nostro interno ogni residuo di stalinismo.
Se c'è una cosa che mi ha sempre dato fastidio nel Pci è stata la pratica della doppia verità, per cui un conto è quanto si diceva nei gruppi dirigenti e altro era quello che si diceva alla base.

La tragedia dello stalinismo

Le colpe infatti non ricadono solo sull'Urss. La scelta del socialismo in un solo paese non ricade solo su Stalin.
Essa era anche la risultante della convinzione nel movimento comunista internazionale che un'epoca si era chiusa e che quindi si dovesse pensare alle vie nazionali al socialismo.
Allo stesso modo la concezione autoritaria non si è manifestata solo ad Est, ma in tutto il movimento operaio, nel quale prevalse una concezione etica per cui la risposta della fedeltà al partito prevaleva su qualunque altra.
Affinché sia chiaro che parlo di tragedie e non di semplici errori vorrei citare passi che appartengono a uno storico rimasto comunista, come Roi Medvedev, il quale afferma che: «nel 1936 gli arresti (in Unione sovietica) colpirono principalmente ex aderenti alle opposizioni, in maggioranza gente che ricopriva incarichi secondari nell'apparato del partito e dello stato; ma poi l'ondata di arresti cominciò ad ampliarsi, coinvolgendo decine di migliaia di persone che non avevano mai aderito ai gruppi di opposizione».
Dopo il 1956 si aprì una fase di riesame dei singoli casi: «entro la fine dell'estate del 1956 vennero così liberati dai campi e dal confino alcune milioni di persone» sottolineo il numero incredibile delle persone interessate alla repressione.
Ma non tutti poterono tornare perché molti di loro vennero torturati e uccisi e «giacevano in enormi fosse comuni con il nome segnato su una tavoletta di legno legata alla caviglia».
Questa vicenda non può essere messa tra parentesi: parla di noi.
Come mai è successo? Ogni volta che la logica del potere prevale sulla ricerca della trasformazione, si hanno risultati terribili.
Ogni volta che le istanze di liberazione del e dal lavoro hanno la peggio vincono le logiche burocratiche e di oppressione.
Naturalmente dobbiamo sapere guardare a queste questioni con una profonda consapevolezza, che tiene conto delle condizioni in cui gli uomini e le donne di quel tempo si trovarono ad operare.
Proprio per questo torna ad esser prezioso l'esempio di Antonio Gramsci.
Egli stava nelle carceri del fascismo, era un uomo stimato anche se controverso.
In carcere - e non importa qui approfondire se avesse o no ragione - maturò l'idea che i suoi stessi compagni preferivano lasciarlo lì piuttosto che liberarlo.
Come mai Gramsci resta comunista? Lo fa perché egli pensa che al di là della tragedia di una persona e di un intero periodo vale di più la ragione della liberazione che è l'essenza del comunismo.

Uscire da sinistra dallo scacco del '900

Noi oggi non vogliamo stabilire una nuova ortodossia, anzi dobbiamo imparare da tutte le varie anima del movimento operaio.
Ma ci poniamo una domanda: come si esce dalla crisi del movimento comunista del novecento? Propongo una scelta netta: si esce con una rinascita marxiana, cioè tornando a Marx. Non voglio affatto mettere tra parentesi il novecento, ma fare il famoso “balzo della tigre”, per mettere la liberazione del lavoro salariato al centro del comunismo; per lavorare sulla contraddizione tra il carattere sociale della produzione e quello privato della accumulazione capitalistica, al fine di superare l'organizzazione sociale del capitalismo.
In questo quadro libertà ed uguaglianza rappresentano il fondamento del nuovo comunismo.
Come vedete non proponiamo, come invece qualcuno fa, l'idea di un comunismo tranquillizzante, cioè di una prospettiva talmente lontana che intanto si può fare nel suo nome qualunque altra cosa.
Così non si supera il problema, anzi l'ideologia diventa semplice difesa dei propri privilegi.

Rompere con la nostra cultura odierna

C'è però bisogno di una rottura anche con la nostra cultura odierna: la forza del comunismo sta nel carattere aperto della ricerca, anche quando questa mette in luce i limiti dello stesso pensiero marxiano.
In particolare mi riferisco a due grandi problemi.
Il primo riguarda la cultura di genere, l'interpretazione del carattere sessuato del mondo: su questo tema, che rappresenta un limite della teoria di Marx, non ci siamo, cioè non abbiamo saputo operare un'apertura sufficiente.
E' vero che non può esserci un vero femminismo senza il comunismo, ma è anche e soprattutto vero che non è possibile il contrario. La seconda questione riguarda i rapporti tra gli uomini e la natura. Questo fu un rovello costante in Marx.
Successivamente, però, prevalse nel movimento operaio un'idea produttivistica. Oggi quell'idea, con un paradosso solo apparente, viene recuperata e praticata dall'avversario del marxismo.
Il capitalismo propone esattamente una irresponsabile dilatazione dell'idea di produzione. Le vicende solo apparentemente diverse dell'uranio impoverito e della mucca pazza dimostrano che le classi dirigenti non sanno cosa fanno e dove vanno. Il capitalismo ha rotto l'argine tra l'utilizzo della materia inerte e quello della materia viva: ormai si vuole appropriare del principio stesso della vita.
Ecco perché queste due questioni devono entrare in un processo di riflessione e di rifondazione dell'idea di comunismo come idea di superamento della società capitalistica.

Il capitalismo del dominio senza egemonia

Ma cos'è questa ristrutturazione-rivoluzione capitalistica? La analizzeremo meglio nelle prossime occasioni, come la conferenza operaia di Treviso, ma ora va sottolineato molto sinteticamente che essa produce dei cambiamenti profondi, ma è tutt'altro che invincibile.
Anzi essa porta con sé elementi di crisi già evidente. Essa non è in grado di produrre un'egemonia, né un modello consolidato, può vincere solo perché non è matura una alternativa. Il capitalismo produce disagio, incertezza, perdita di senso.
Il fondamentalismo del mercato produce nuovi fondamentalismi, come quello religioso, ed al contrasto tra questi possono nascere motivi che scatenano la guerra.
Il capitalismo globalizzato provoca enormi fenomeni migratori che non hanno paragoni nel passato.
Come pensano di governarli? Con l'ordine e la repressione? E' una prospettiva destinata al fallimento.
In sostanza il capitalismo vince, ma non convince.
Il capitalismo usa la guerra come costituente di un nuovo ordine imperiale. Quella guerra è decisa dalla Nato.
I governi sono così dimezzati nella loro sovranità, e ancora più lo sono sul terreno dell'economia.
Qui i dati forniti dalla stessa Onu dimostrano un aumento delle diversità tra paesi ricchi e paesi poveri, tra persone ricche ed enormi popolazioni povere davvero enorme.
Basti pensare che tre persone detengono ricchezze pari al reddito di 600 milioni di persone che vivono nei paesi più poveri. In Italia siamo di fronte ad un arretramento delle condizioni dei lavoratori.
Dobbiamo essere grati all'inserto economico del “Corriere della Sera”, ed è un'altra situazione paradossale, se possiamo apprendere che l'Italia “non è più fondata sul lavoro ma sui patrimoni”.
E che i salari costituiscono la minoranza dei redditi nazionali, mentre in questi ultimi anni abbiamo assistito ad un trionfo del profitto e della rendita.
In sostanza, cioè, si è realizzata una grande vittoria di classe contro il lavoro, che ha chiuso il “caso italiano”.

Riaprire il conflitto di classe, fare società

Qui sta il successo delle destre, purtroppo. E' insopportabile assistere nel dibattito attuale alle disquisizioni sulle tattiche elettorali: se Berlusconi vincerà è perché ha vinto il profitto, perché le forze di destra hanno saputo fondere il neoliberismo con un populismo eversivo.
Il centrosinistra ha sostanzialmente assecondato queste politiche, e qui sta la ragione della sua perdita di consenso. Dobbiamo riaprire il conflitto di classe e farvi partecipare i nuovi soggetti: il popolo di Seattle, i giovani, le donne.
E' questo l'unico modo per contrastare le destre che hanno praticato la linea dell'integrazione e della disintegrazione delle classi subalterne provocando una disertificazione nel paese. Però non abbiamo una situazione ad un unica dimensione.
Dobbiamo saper vedere i nuovi fili d'erba che crescono, cioè i nuovi fermenti nei movimenti popolari.
Ci sono parole maledette, come svolta o strappo, maledette per l'uso che fin qui se ne è fatto. Dobbiamo avere il coraggio di riappropriarci di quelle parole, cambiandone il senso.
Dobbiamo cioè produrre uno strappo fecondo esattamente opposto a quello che la sinistra liberale produsse nei confronti della tradizione comunista, per proporci un'uscita da sinistra dalla storia del Pci.
Dobbiamo rompere l'alternativa perdente tra l'accettazione della modernizzazione capitalistica e la tentazione della conservazione del passato.
Ho già detto che il nocciolo più positivo della storia del Pci risiede nel nesso tra radicalità e realismo.
Quando si è eclissata la prima è venuta meno la costruzione di un'altra Italia.
Non si torna in dietro da dove siamo venuti, ma la ricostruzione di un binomio tra radicalità e realismo ci consente di andare lontano, di dimostrare che l'ipotesi di trasformazione della società è reale, di costruire una comunità scelta all'altezza di questo compito.
Dobbiamo fare nostra la lezione del Pci: sapere cioè costruire una società, un'altra società, attraverso esperienze politiche e culturali.
Vorrei proiettare una mappa delle città degli anni sessanta: scrivere gli indirizzi dei partiti, dei sindacati, delle case della cultura; poi ricordare le feste dell'Unità; e ancora le manifestazioni culturali artistiche; e infine le case editrici.
Questo sistema, questo insieme di istituzioni culturali, politiche, di aggregazione sociale, ha reso grande il Pci.

Un nuovo progetto di rivoluzione

Oggi questa ricostruzione richiede un rapporto tra la condizione locale e il mondo.
Le relazioni internazionali non sono diplomazia, ma la dimensione del nuovo agire politico.
L'esperienza di Seattle ci dice più di tante altre cose.
Qui in Europa è possibile costruire una cerniera tra il proletariato del Nord del mondo e quello del terzo mondo.
In Europa avvengono processi immigratori, avviene anche una perdita di senso e una desolazione delle periferie, ma è possibile operare una resistenza di civiltà.
Dobbiamo perciò riproporre la critica al capitalismo, una capacità di relazione con i movimenti e lavorare per la loro politicizzazione.
Insomma vogliamo costruire un nuovo progetto comunista. L'ho detto all'inizio: l'operazione è ambiziosa.
La rivoluzione è un processo di lunga durata, ma essa richiede che ci sia una relazione tra quello che facciamo oggi e l'obiettivo generale. Questa ricerca ci riporta ai nostri grandi maestri.
Non è un caso che sulla tessera del nostro partito abbiamo riportato una famosa frase tratta dall'“Ideologia tedesca” di Marx ed Engels: «il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti».
Questa è la nostra idea di comunismo, da qui ripartiamo. Perché questa “talpa” torni a lavorare ci vuole anche il nostro concorso.
Per andare dove? Verso una società necessaria, che Marx così definiva come quella in cui «il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita» e nella quale dunque «l'angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato e la società può scrivere sulle sue bandiere: da ognuno secondo le sue capacità a ognuno secondo i suoi bisogni». La consegna che ci viene dal novecento, da parte di quelle meravigliose e meravigliosi donne e uomini che non ce l'hanno fatta, pur avendo tentato l'assalto al cielo, rende grande la nostra impresa politica, senza la quale l'umanità si troverebbe di fronte a un rischio di civiltà.
Vogliamo essere radicali e realisti, vogliamo l'impossibile perché pensiamo che sia possibile la rivoluzione.
Per questo siamo vivi e continuiamo a batterci.

Fausto Bertinotti
Livorno, 21 gennaio 2001
80° Anniversario della Fondazione del PCI