A cinquant'anni dalla morte di Stalin

Gramsci, l'America Latina e il socialismo reale

Intervista a Marcos Del Roio, docente brasiliano di scienze politiche e membro della Società gramsciana internazionale

C'è solo un documento, una lettera del 14 ottobre 1926, in cui Gramsci interviene direttamente sulle questioni che dividevano il partito bolscevico russo all'indomani della morte di Lenin e dalle quali sarebbe uscita vittoriosa la linea di Stalin. Le argomentazioni gramsciane rappresentano una chiave di lettura e di analisi del socialismo russo, valida non solo nella cultura marxista italiana ma anche in regioni lontane come l'America Latina. Nelle sue parole c'è il riferimento a un metodo non dogmatico di lavoro e discussione politica. «Le osservazioni di Gramsci e la sua teoria del partito sono ancora oggi attuali, non solo in Italia, ma anche in America Latina dove le sue opere hanno conosciuto una diffusione in vari periodi storici», afferma Marcos Del Roio, docente di scienze politiche dell'università brasiliana di Marilia (stato di San Paolo), presidente dell'Istituto Astrojildo Pereira ed esponente della Società gramsciana internazionale.

Nella lettera del ‘26 al comitato centrale del partito bolscevico russo Gramsci prende posizione nello scontro tra Trotzkij, Zinov'ev e Kamenev, da un lato, e Stalin e Bucharin, dall'altro. Gramsci muove una critica sul piano del metodo, ma si dice d'accordo sulla sostanza della linea del gruppo dirigente staliniano. Per quanto riguarda i contenuti, Trotzkij e Zinov'ev esprimerebbero a torto gli interessi corporativi degli operai in un momento in cui lo Stato sovietico si regge proprio sull'alleanza tra operai e contadini. Tuttavia ritiene un errore la rottura dell'unità del partito e la riduzione dogmatica del dibattito interno. E' così?

Lenin era capace di fare la sintesi superiore mentre tutti gli altri litigavano in maniera tremenda. In quella sintesi trovavano una collocazione tutte le posizioni in modo che ognuno potesse dare alla fine un contributo. Gramsci anche si comporta in maniera analoga. Si preoccupa, ad esempio, di tenere Bordiga all'interno del partito, di valorizzarne il lavoro e il ruolo indispensabile, lo difende - «Bordiga è un compagno che lavora per dieci» - anche se sostiene posizioni diverse. Questo metodo accomuna Lenin e Gramsci. Dopo la morte del primo, invece, nel partito bolscevico russo esplodono i dissensi e ognuno, nella sua parzialità, pretende di incarnare la verità. Gramsci è d'accordo nella sostanza con le posizioni di Stalin e Bucharin, i quali vogliono mantenere l'alleanza tra operai e contadini, dando a questi ultimi alcune concessioni. Una classe per essere classe dirigente - afferma Gramsci nelle note su Machiavelli - deve fare concessioni ai suoi alleati e prepararsi persino all'abbassamento del suo livello di vita. In questo modo respingeva le critiche di Trotzkij e Zinov'ev alla politica sovietica, secondo i quali si facevano troppe concessioni ai contadini, rendendo la vita degli operai più difficile. Per Gramsci la linea di Trotzkij è di natura sindacale-corporativa, un errore politico, mentre è giusta quella di Stalin. Eppure spinge perché si riesca ad incorporare le critiche del primo e a non rompere l'unità. Credo che le osservazioni di Gramsci siano ancora oggi molto attuali, non solo queste indicazioni sull'unità dei comunisti e sul metodo del dibattito interno, ma anche per la teoria del partito come organizzazione di classe a stretto contatto con le masse e il movimento. Una posizione che non è né spontaneista né avanguardista.

Rispetto allo stalinismo e, più in generale, al socialismo realizzato si è guardato a Gramsci come teorico della democrazia. Però non ha anche messo in guardia sull'astrattezza del concetto di democrazia quando svincolata dai rapporti di produzione e di potere?

Per tutta la produzione gramsciana il termine democrazia compare poco e non è usata in un'accezione positiva, né dal Gramsci dirigente né dal Gramsci teorico. La democrazia è per lui una forma del potere borghese. Il problema centrale per lui resta fino all'ultimo la rivoluzione. I comunisti vogliono la fine dello Stato il che significa - nella radicalità del concetto - la fine della democrazia. Democrazia, nel pensiero classico, altro non è che un ordine sociale e politico dove gli individui hanno la possibilità di muoversi socialmente e politicamente, possono diventare cittadini portatori di diritti e cambiare ruolo nella vita economica. Ma la categoria centrale per Gramsci resta quella della rivoluzione socialista e del potere. Come può una classe diventare classe dirigente? Non condivido quanti oggi, come Giuseppe Vacca, dicono che Gramsci fosse diventato un socialdemocratico negli ultimi scritti. In Americanismo e fordismo, ad esempio, cerca le contraddizioni esistenti e spiega come quella forma di sfruttamento massimo del lavoro possa, per contraddizione, emancipare un lavoratore superiore. Superiore per formazione tecnica e scientifica.

Possiamo dire che questo modo di ragionare su come superare in avanti le contraddizioni esistenti, sia una chiave di lettura critica e non apocalittica del socialismo reale?

Lo scritto su americanismo e fordismo ne è un esempio. Gramsci è consapevole che le condizioni create dal fordismo sono superiori a quelle esistenti in Unione Sovietica al momento della rivoluzione. Qui bisognava creare l'industria e la base economica partendo quasi da zero. Era lo Stato che doveva fare la società civile. In Occidente si trattava di trasformare la società civile, in Russia di crearne una che non esisteva prima d'allora. Gramsci si pone il problema, quindi, della rivoluzione in Occidente, di come cambiare la società civile in una società pubblica, operaia, vincolata alla produzione. Il Gramsci di Americanismo e fordismo è lo stesso nel linguaggio del Gramsci dell'Ordine Nuovo. Come gestiranno la produzione gli operai? E non solo la produzione, ma l'intero Stato. In Unione Sovietica si diceva che gli operai gestiscono lo Stato - questo è vero fino a un certo momento - ma non si diceva che dovessero gestire la produzione. Gestire la produzione e gestire lo stato, l'economico e il politico, sono due momenti tra loro inscindibili. Lenin invece dava il primato al politico, allo Stato e lasciava la gestione della produzione in secondo piano. L'importante, per lui, era produrre, applicando i metodi del taylorismo. Sviluppare la produttività per trarre tempo libero da impiegare nella politica. Questo è il ragionamento di Lenin.

Quanto gioca l'influsso della rivoluzione russa sulla nascita dei partiti comunisti in America Latina?

La nascita dei partiti comunisti in America Latina è un fenomeno assimilabile a molti altri partiti operai nel mondo, non è un semplice riflesso della rivoluzione socialista in Russia. Altre rivoluzioni a carattere socialista erano sorte in Germania, in Ungheria, Italia - il Biennio rosso - dove poi sono fallite. Non solo, sollevazioni operaie ci furono anche negli Stati Uniti, Cina, Cile, Argentina, Brasile. In Brasile il movimento operaio si è rafforzato soprattutto negli anni tra il 1917 e il 1920. Il partito comunista brasiliano nasce da una scissione del gruppo dirigente anarco-sindacalista. Una parte di questo gruppo, capeggiata da Astrojildo Pereira, fonda il partito comunista brasiliano nel marzo 1922. Tuttavia, non fu la prima formazione a nascere nel Sudamerica. Il primo partito ispirato alla rivoluzione russa, al bolscevismo, è stato il partito socialista internazionale di Argentina nel '18. Poco dopo, nel '20, secondo le indicazioni del II congresso dell'Internazionale comunista, cambiò il nome in quello di Partito comunista d'Argentina. In Cile e Uruguay è successa la stessa cosa. Il partito operaio socialista cileno, che esisteva dal '12, si trasformò in partito comunista del Cile. In Uruguay il partito socialista si scisse e la maggioranza andò a formare il partito comunista. Esiste, quindi, una particolarità nella formazione del partito comunista brasiliano, ma non così accentuata come vorrebbero alcuni studiosi. La sua nascita ha molti elementi in comune, ad esempio, con quella dei partiti comunisti di Portogallo e Spagna - e, in misura minore, con quello francese - dove il peso della componente anarco-sindacalista è abbastanza accentuato. Tutto il contesto culturale, compresa la cultura anarcosindacalista e quella socialista, esprimeva una visione nella quale Darwin, Spencer, Comte e Marx erano messi assieme e accomunati in una prospettiva positivista della scienza e della storia. Non c'era una differenziazione chiara. Il contesto culturale più progressista, all'epoca, era fondamentalmente positivistico. Questa è una particolarità brasiliana, il positivismo era molto forte ed esprimeva una tendenza progressista non solo per il nascente movimento operaio ma per la stessa borghesia nazionale - così come in Cile e Messico.

Ma non sarà proprio questo clima positivistico a favorire un marxismo dogmatico?

Questa concezione permea di sé un modo di leggere e interpretare lo sviluppo storico secondo "leggi naturali" comune tanto a formazioni borghesi quanto a partiti proletari. In Brasile, va sottolineato, anche una parte consistente delle forze armate aveva una formazione positivistica e questo spiega un certo spostamento di quadri medi dell'esercito - dotati di senso progressista - verso la sinistra. Molti militari - capitani, tenenti, elementi medi della gerarchia - entreranno nel partito comunista. Tra loro ci sarà anche il leggendario Carlos Prestes. Dopo nella scia della guerra e dell'antifascismo altri militari entreranno nel partito comunista. Tuttavia, questa visione positivistica ha creato anche un sostrato culturale - scientista e meccanicistico - propizio allo stalinismo e alla concezione lineare e semplicistica della storia. Insomma, non fu l'ingresso di un corpo estraneo ad impedire il formarsi di una concezione dialettica e materialistica sul ruolo del soggetto nella storia. Questo, secondo me, spiega perché il movimento operaio e il partito comunista siano rimasti subalterni nel processo di costruzione del Brasile.

Tonino Bucci
Roma, 5 marzo 2003
da "Liberazione"