A cinquant'anni dalla morte di Stalin

Il volto di Stalin

"Il caso Picasso". L'arte al tempo dello stalinismo

Quando, in occasione della scomparsa di Giuseppe Stalin, viene commissionato a Pablo Picasso un ritratto dello statista sovietico, il pittore catalano "disciplinatamente" ubbidisce.

Il 12 marzo del 1953, il ritratto compare sulla prima pagina del settimanale culturale del Pcf, "Les lettres francaises", diretto da Louis Aragon. Ma quello che avrebbe dovuto essere l'omaggio di un grande artista comunista (Picasso era iscritto al partito sin dal 1944) al personaggio scomparso, si trasforma pressoché immediatamente in uno scandalo.

Perché tutto questo? Picasso in realtà ancora una volta aveva seguito la sua vena libertaria ed anticonformista, pur in un'occasione solenne e sacra per decine di milioni di comunisti di tutto il mondo. In effetti, ad essere sinceri, il ritratto non è un gran che. Il tratto, volutamente semplificato e sintetico, finisce per produrre l'immagine di un volto giovanile rotondetto e con un accenno di sottogola, un giovane uomo ben nutrito dalla capigliatura folta e priva di stempiature cui corrispondono due generosi baffoni, che, però, contrastano con la "casta" evidenza di un volto disadorno di rughe e di affanni. Insomma più che la mano di Picasso, dietro quel disegno sembrava celarsi quella di un dilettante, o tuttalpiù quella di un artista che, pur in un'occasione così particolare, non si lascia sfuggire l'occasione di esibire il proprio narcisismo. Di apporre cioè non una, ma due firme al ritratto, la prima come pittore famoso e celebrato, la seconda come militante comunista diviso tra l'ammirazione per il personaggio Stalin e l'avversione per quelle che evidentemente già gli apparivano come manifestazioni esecrabili di quel culto della personalità, di cui il realismo socialista da anni si faceva promotore.

Se così non fosse che motivo ci sarebbe stato di disegnare il volto di un uomo, nel cui nome milioni di persone avevano gettato il proprio corpo e la propria vita contro la furia nazista, con le sembianze di un giovane un po' insulso dai grandi mustacchi? Troppo forte era, inoltre, l'impressione che la scelta di rappresentare una stagione giovanile della vita di Stalin esprimesse in qualche modo una riserva sulle imprese della sua maturità e della sua vecchiaia.

Quali che siano le intenzioni di Picasso, il lutto del popolo comunista viene sconvolto come da una cannonata tra la folla. Si moltiplicano le lettere di protesta di militanti di base inviate alla rivista ed al quotidiano del partito, "l'Humanité". Il segretario del Pcf deplora solennemente l'accaduto. Louis Aragon fa pubblica autocritica riconoscendo di «aver ceduto il passo ad una creatività individuale disinteressandosi dei sentimenti delle masse». Insomma si crea un vero e proprio "affaire Picasso", che oggi, a cinquanta anni di distanza, conserva un indubbio interesse storico-culturale, tanto è vero che se ne occupa "Le monde", nel numero del 26 febbraio con un articolo firmato da Charles Szlakmann.

Ora sebbene l'occasione appaia propizia per "sparare sull'autoambulanza" di una sensibilità ingenua e fortemente condizionata dall'icona agiografica del "Piccolo Padre dei popoli", crediamo invece che anche in questa circostanza, resa più pregnante dal cinquantesimo anniversario della morte di Stalin, non si debbano tralasciare le ragioni di un'analisi ispirata ad una concezione laica della realtà e della storia, in questo come in ben più importanti giudizi riguardanti lo stalinismo ed il contesto entro il quale operò. Ed allora come non vedere che nell'imminenza della morte di Stalin, in quel tempo ancora durissimo, non poteva non suscitare scandalo la pubblicazione di un'opera che proponeva del grande capo di allora un'immagine piatta ed infantile. Si sottolinea: piatta ed infantile, l'esatto contrario della scomposizione cubista che aveva reso famoso il Picasso di Guernica. L'immaginario collettivo del popolo comunista respingeva quel ritratto non perché troppo "impervio ed intellettuale", ma perché troppo banale, spiattellato e scarsamente somigliante. Insomma se il realismo socialista era semplificatorio ed agiografico, quel ritratto appariva solo semplificatorio e per la sensibilità diffusa di allora, fortemente riduttivo della complessità di una personalità come quella dello statista sovietico.

Questo naturalmente nulla toglie a Picasso e nulla aggiunge a Stalin ed agli stalinisti di quei tempi. Del resto se, come accadde, poteva sbagliare Stalin, poteva sbagliare anche il grande pittore catalano. E' qui appena il caso di ricordare non solo la sua sconfinata e straordinaria produzione artistica, che nessuno discute, ma anche la non infrequente instabilità qualitativa della sua opera. Picasso nel Novecento non è stato il "dio della pittura" e questo ce lo rende, se possibile, ancora più simpatico. Uomo tra gli uomini, ha realizzato opere immense e commesso errori, nell'arte e nella vita.

Naturalmente l'episodio narrato getta un fascio di luce, oltre che su Picasso, su un ambiente ed un'atmosfera culturale che in quel tempo, e per tanti anni appresso, sarà fortemente impregnata di un'esaltazione quasi religiosa che non ammetteva digressioni non solo sui principi, ma anche sui fatti apparentemente secondari. In quel contesto la pubblicazione su "Les lettres francaises" apparve come un'offesa grave. Forse non lo era veramente, ma poteva ragionevolmente sembrarlo. Del resto quante formidabili opere d'arte furono nei secoli respinte dalla committenza? Il più grande pittore di tutti i tempi, Michelangelo da Caravaggio, in questo senso fu un vero campione nel collezionare rifiuti.

La libertà creativa in arte come in qualsiasi attività umana va difesa ad ogni costo. E quindi, secondo noi, in questa circostanza va scusato anche Picasso, ammesso che in quel fatidico '53 abbia commesso un piccolo errore di sensibilità. L'enormità della sua opera in favore non solo dell'arte, ma anche dell'emancipazione del popolo degli sfruttati dal bisogno e soprattutto dalla guerra è a difenderlo da ogni tentativo di ridimensionamento del suo valore.

Il realismo socialista, che (a differenza delle avanguardie russe dei primi anni della rivoluzione) aveva sacrificato questa libertà, ha il posto che merita nella storia dell'arte. Un posto molto modesto. Di illustrazione propagandistica in un tempo estremo, in cui anche l'arte era considerata uno strumento di lotta e di resistenza. Un errore con le sue ragioni, che il tempo si è incaricato di enucleare e stigmatizzare.

Col tempo si sgonfiano le polemiche e dovrebbe migliorare la capacità di giudicare gli errori ed anche gli orrori che permearono di sé un tempo così terribilmente fondamentale come quello che, in parte, si concluse con la morte di Giuseppe Stalin.

Roberto Gramiccia
Roma, 5 marzo 2003
da "Liberazione"